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Principio di autonomia delle parti ed imperatività del diritto dell’UE: osservazioni sul caso Ingmar.

volontà delle part

4.1 Principio di autonomia delle parti ed imperatività del diritto dell’UE: osservazioni sul caso Ingmar.

Nei casi di contratti puramente intracomunitari è del tutto legittimo ritenere che il legislatore comunitario non voglia consentire alle parti di sottrarsi alle norme imperative comunitarie recepite nei rispettivi Stati membri scegliendo la legge di un Paese terzo. Ma non è detto che questo interesse del legislatore europeo debba limitarsi alle sole ipotesi in cui si tratti di contratti puramente interni alla Comunità. L’esigenza del rispetto della soglia minima di tutela comunitaria della parte debole può ben venire in considerazione anche nell’ipotesi di un contratto che presenti un legame “forte” con la Comunità, senza per altro essere un contratto puramente interno.154

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La questione è stata sollevata nel caso Ingmar155, con riferimento alla

direttiva del 1986 in materia di agenzia commerciale, ed in particolare riguardo alla norma che riconosce all’agente il diritto ad un indennità in caso di scioglimento del rapporto.

Il caso portato davanti alla Corte di Giustizia riguardava il contratto tra un proponente americano ed un agente inglese, espressamente sottoposto alle leggi dello Stato della California. Si trattava di vedere se il giudice nazionale dovesse applicare la legge scelta dalle parti (che non riconosceva alcuna indennità di scioglimento in favore dell’agente) e se al contrario, dovesse riconoscere all’agente l’indennità prevista dalla legge inglese ( che aveva attuato la Direttiva europea 86/653).

La Corte di giustizia è stata dunque chiamata a pronunciarsi sulla questione se gli articoli 17 e 18 della direttiva comunitaria dovessero o meno trovare applicazione nel caso di un contratto concluso tra un agente commerciale che eserciti la sua attività in uno Stato membro e un committente stabilito in uno Stato terzo, in presenza di una clausola contrattuale che dichiari come applicabile la legge di quest’ultimo Paese.156

La risposta della Corte è stata positiva: “Gli artt. 17 e 18 della direttiva

del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento

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Sentenza 9 novembre 2000, in causa C-381/98, Ingmar.

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dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, che garantiscono determinati diritti all'agente commerciale dopo l'estinzione del contratto d'agenzia, devono trovare applicazione allorquando l'agente commerciale ha svolto la sua attività in uno Stato membro e mentre invece il preponente è stabilito in un paese terzo e inoltre, in forza d'una clausola del contratto, quest'ultimo è disciplinato dalla legge di tale paese”.

A questa conclusione la Corte è giunta aderendo alle argomentazioni dell’Avv. Generale Léger fondate sugli obiettivi della direttiva e degli artt. 17-19 della stessa, volti ad assicurare tanto la protezione della parte debole, quanto la libertà di stabilimento e la necessità di evitare distorsioni nella concorrenza al livello del mercato interno.

L’Avv. Generale fa, in particolare, riferimento alle finalità della Direttiva di promuovere un’equa competizione tra gli operatori economici e di garantire un minimo livello di protezione agli agenti commerciali come “free-standing objectives”.

Rispetto all’autonomia delle parti, l’Avv. Generale Léger fa riferimento ad un “vis–à-vis” tra l’idea di un diritto generale delle parti di scelta della legge applicabile e quanto riconosciuto dalla Direttiva all’agente (in termini di diritto ad un indennizzo nell’ipotesi di scioglimento del rapporto): attribuendo alle parti la facoltà di scegliere quale legge

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applicabile una normativa, che sia meno protettiva degli interessi degli agenti commerciali, rispetto a quanto riconosciutogli dalla Direttiva, si andrebbe ad incorrere in una valutazione incorretta degli obiettivi che la legislazione comunitaria si propone.

Si conclude affermando che gli artt. 17 e 19 della Direttiva debbano trovare applicazione nonostante la contrarietà della legge scelta dalle parti.157

L’Avv. Generale cita il caso Ahlstrom a supporto delle sue conclusioni.158 Si fa riferimento ad un importante decisione concernente la portata territoriale dell’art. 81 del TCE (oggi art. 101 TFUE). Tale articolo proibisce accordi, decisioni e pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto impedire, restringere o falsare la concorrenza nel mercato comune, prevedendo, la nullità di questo tipo di accordi o decisioni. Nel caso Ahlstrom, la Corte di Giustizia affermò l’esistenza di accordi o pratiche concordate tra i produttori, stabiliti negli Stati Uniti, in materia di prezzi praticati ai clienti residenti nella Comunità Europea, distorsivi della concorrenza. I produttori sostenevano, che poiché questi erano stabiliti in un Paese terzo alla Comunità, le loro azioni non potevano essere soggette al diritto CE. Ma la Corte di giustizia ritenne che, ai fini della nullità degli accordi non rileva il luogo in cui l’accordo,

157 Wulf- Henning Roth, “Common Market Law Review”, 2002, pag. 371-373. 158

Causa 89/85, 104/85, 114/85, 116/85, 117/85 e 125/85-129/85, del 27 settembre 1988 (Ahlstrom e altri c. Commissione delle Comunità europee).

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decisione o pratica concordante si sia formata, ma il luogo in cui l’accordo illecito è stato attuato, altrimenti si attribuirebbe alle imprese un facile escamotage per eludere tali divieti.

L’Avv. Generale associa tale decisione al caso Ingmar, in quanto afferma che, in entrambi i casi, si tratta di determinare la legge applicabile, garantendo nel contempo che gli obiettivi della legge territorialmente applicabile non siano compromessi. Il vantaggio competitivo, derivante dall’applicazione della legge di uno Stato extra-comunitario, al rapporto contrattuale, incoraggia la parte “forte” del contratto ad inserire una clausola di scelta di tale legge, così facendo è come se il diritto ammettesse la possibilità ad una parte, di trarre dei vantaggi dal rapporto, di cui non beneficerebbe qualora si applicasse il diritto comunitario.159

La decisione, importante sotto molteplici aspetti160, ha sollevato molte critiche in dottrina. In particolare si è rilevato come il ragionamento della Corte, fondato sullo scopo della direttiva (protezione dell’agente) e sull’obiettivo generale e globale della stessa (garantire la libertà di stabilimento e la concorrenza non falsata nel mercato interno), portato

159 H.L.E. Verhagen,” International and Comparative Law Quarterly”, pag. 146-147.

160 Ci si riferisce in particolare alle ovvie ripercussioni che essa può esercitare in futuro sul

diritto del commercio internazionale: in primo luogo rilevano le implicazioni che essa può comportare quanto all’interpretazione di altre direttive comunitarie; in secondo luogo la metodologia adottata dalla Corte che inferisce dal testo della direttiva in questione una implicita norma (di conflitto) comunitaria relativa al campo di applicazione spaziale delle norme armonizzate dalla direttiva in assenza di una norma espressa in proposito; in terzo luogo, le potenziali ed indirette ripercussioni della decisione sulle norme di conflitto degli Stati membri relative ad altri contratti, ad esempio quelli di distribuzione e di franchising.

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alle sue estreme conseguenze, implicherebbe una indiscriminata qualificazione delle norme interne di diritto derivato come norme di applicazione necessaria, e da ciò ne deriverebbe una ingiustificata erosione del principio dell’autonomia della volontà, che costituisce uno dei principi cardine del diritto internazionale privato e, al contempo, la garanzia di una sistematica prevalenza della legislazione europea su tutte le leggi dei Paesi terzi.

Per determinare il campo d’applicazione spaziale della direttiva sugli agenti commerciali la Corte, in assenza di disposizioni specifiche contenute nella stessa, si è basata sul principio generale, definito comunque “fortement communitariste”, consistente nel riferirsi direttamente allo scopo e agli obiettivi della direttiva stessa. Alla luce di questi, la Corte ha dedotto che la normativa comunitaria debba risultare logicamente ed imperativamente applicabile a tutte le situazioni che presentano uno “stretto legame” con la Comunità. Nel caso di specie lo stretto legame è identificato con l’esercizio sul territorio di uno Stato membro dell’attività dell’agente, quale che sia la legge regolatrice del contratto.161

161 La soluzione è stata approvata in dottrina, nella misura in cui tale soluzione si tradurrebbe in

una nuova applicazione del famoso principio di prossimità, ugualmente consacrato nell’art. 7 della Convenzione di Roma e nell’art. 16 della Convenzione dell’Aja del 1978 sulla legge applicabile ai contratti di intermediazione e alla rappresentanza.

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Peraltro, la dottrina non sembra aver chiaramente percepito che, in ragione della determinazione spaziale della direttiva comunitaria operata dalla Corte, la garanzia del rispetto della soglia minima di tutela prevista dalla normativa comunitaria deve ormai ritenersi estesa anche ai contratti che non sono meramente interni alla Comunità. Occorre quindi che il regolamento “Roma I” non si limiti ad imporre il rispetto delle norme imperative minime europee nei casi particolarissimi in cui il contratto non presenti altri elementi di estraneità rispetto alla Comunità se non quello della designazione della legge regolatrice ad opera delle parti, ma adotti una formulazione più larga che consenta di raggiungere questo risultato anche nell’ipotesi in cui il contratto si limiti a presentare “un legame stretto” con il territorio di uno o più Stati membri della Comunità. 162

Quanto alle critiche mosse alla sentenza Ingmar, sarebbero condivisibili nella misura in cui si accetti per buona l’interpretazione data per scontata in dottrina che la Corte abbia inteso qualificare le norme protettive della direttiva come “lois de police communautaires”. E’ bensì esatto che la Corte, pur non menzionando mai l’espressione norma di applicazione necessaria, limitandosi a parlare di “dispositions impératives”, ha ritenuto di dover dedurre dalla funzione delle disposizioni della direttiva

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comunitaria in oggetto che esse “esigano” di trovare applicazione qualora la situazione presenti uno stretto legame con la Comunità.163

La Corte si riferisce, dunque, pur non menzionandole, alle caratteristiche fondamentali delle norme di applicazione necessaria che precludono nel loro ambito di operatività il normale gioco delle norme di conflitto e che si applicano imperativamente alle situazioni che entrano nel loro ambito di applicazione così come definito dalla Corte. Ma è possibile, che a tale conclusione la Corte sia giunta non in astratto, ma andando al cuore del problema sollevato nel caso specifico, consistente nel sapere se le norme nazionali di trasposizione di una direttiva comunitaria protettiva potessero essere scartate a vantaggio di una legge straniera che non consente di raggiungere il medesimo risultato, o un risultato equivalente. La sentenza Ingmar si riferisce esclusivamente ai rapporti con Paesi non appartenenti alla Comunità europea, essendosi la Corte basata sull’assunto che nei rapporti intracomunitari il problema non si pone, avendo tutti questi Stati dato attuazione alla direttiva. Ciò significa che la scelta della legge di uno Stato membro diverso da quello dell’agente, che gli sia meno favorevole di quella propria, non comporta l’applicazione

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Punto 25 della sentenza: “Si deve quindi constatare che risulta essenziale per l'ordinamento giuridico comunitario che un preponente stabilito in un paese terzo, il cui agente commerciale esercita la propria attività all'interno della Comunità, non possa eludere queste disposizioni con il semplice espediente di una clausola sulla legge applicabile. La funzione che le disposizioni in causa svolgono esige infatti che esse trovino applicazione allorquando il fatto presenti un legame stretto con la Comunità, in particolare allorché l'agente commerciale svolga la sua attività sul territorio di uno Stato membro, quale che sia la legge cui le parti hanno inteso assoggettare il contratto.”

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dei principi affermati dalla sentenza Ingmar. In questo caso il problema sarà di vedere se il legislatore del Paese dell’agente, nel trasporre la Direttiva 86/653 nel proprio ordinamento, abbia attribuito alle norme sull’indennità carattere semplicemente imperativo o internazionalmente imperativo.164

Il ragionamento della Corte può trovare una giustificazione alla luce del contenuto della legge californiana applicabile al contratto che non prevede alcun diritto all’agente commerciale nell’ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro.

La Corte non discute la nozione dell’autonomia delle parti, ma discute le finalità delle disposizioni rilevanti della Direttiva.

Lo scopo della direttiva è quello di garantire un minimo livello di tutela comunitaria ad una parte considerata degna di particolare tutela. Non vi sarebbe nessun motivo di imporre la normativa comunitaria se i valori giuridici tutelati dalle sue norme imperative non vengono lesi dalla legge designata dalle parti, fosse anche la legge di uno Stato terzo.

Ciò che vale all’interno della Comunità, nei settori armonizzati e per tutti gli Stati membri, che non sono autorizzati ad imporre l’applicazione della propria regolamentazione in presenza di una legislazione

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equivalente di un altro Stato membro che ha vocazione a regolare la questione litigiosa, dovrebbe valere anche per l’esterno, nei rapporti con gli Stati terzi.165

La Corte di giustizia attribuisce agli artt. 17 e 18 della Direttiva 86/653 un carattere imperativo che implica un’applicazione necessaria ed immediata di fronte ad un diritto extracomunitario. Si tratta, di norme che attribuiscono agli Stati la possibilità di optare tra distinti sistemi di indennizzazione o riparazione nel caso di scioglimento del rapporto contrattuale. L’effetto normativo conseguito dalla Direttiva, per mezzo delle misure di applicazione statali, è multiforme. Da un lato, si può fare riferimento non solo ad una imperatività poliedrica di tali precetti, ma anche ad una imperatività differita nel tempo. In questo senso, l’agente che eserciti la sua attività in uno Stato membro, fa affidamento su una protezione minima che il diritto comunitario gli garantisce e che le autorità giudiziali degli Stati membri imporranno d’ufficio.

La Corte non risolve tutti i problemi che dal caso possono nascere ( il grado di imperatività delle disposizioni e la loro efficacia nell’ipotesi in cui il diritto oggettivamente applicabile sia quello di uno Stato extra- comunitario, anche quando l’agente eserciti la sua attività in uno Stato membro; l’individuazione di tutte quelle disposizioni della Direttiva che

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godono di questa imperatività; il piano intracomunitario). Per altra parte, carente è anche il test di proporzionalità al quale possono essere sottoposte le normative nazionali di trasposizione della Direttiva 86/653. In generale, tutte queste lacune non dovrebbero attribuirsi ad inottemperanze della Corte di Giustizia, ma dovrebbe essere invece, il legislatore comunitario ad intervenire al fine di garantire un ambito di applicazione spaziale uniforme e prevedibile, soprattutto quando ci sono vari Stati che non abbiano adottato nessuna norma in merito, o quando siano state adottate norme che prevedano diversi sistemi di trattamento, ed infine quando esistano altre Direttive di diritto privato che prevedano delle delimitazioni in materia.166

In conclusione, né la Convenzione di Bruxelles del 1968, né oggi, il Regolamento (CE) n. 44/2001 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (Bruxelles I), forniscono interpretazioni per il caso. Date queste considerazioni, ci si potrebbe chiedere se il caso

Ingmar abbia effettivamente intrapreso il giusto sentiero.167

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Albert Font I Segura, Revista de Derecho Comunitario Europeo, 2001, pag. 278- 279.

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4.2 Efficacia della clausola di scelta della legge applicabile nei