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Racial Melancholia e Postcolonial Nostalgia : malinconia, nostalgia e migrazione Sebbene Freud abbia in un secondo momento rivisto le sue posizioni sul rapporto tra

lutto e malinconia in ‘Das Ich und das Es’ (1923)71, David Eng e Shinhee Han partono dalla distinzione che Freud elaborò in ‘Trauer und Melancholie’ per delineare un modello teorico di intersezione tra assimilazione e malinconia negli immigrati sud-asiatici negli Stati Uniti72. Se il lutto rappresenta la capacità di superamento del senso di perdita, secondo i due studiosi esso coincide con l’assimilazione e una riuscita integrazione. La malinconia, al contrario, “delineates an unresolved process that might usefully describe the unstable immigration and suspended assimilation of Asian Americans into the national fabric”73. Il modello di racial melancholia74 qui discusso non si presenta soltanto come un tentativo spesso fallimentare o precario di mimesi dello stile di vita e delle norme comportamentali statunitensi. Essa è anche lo strumento che impedisce che le tracce del passato cadano in un oblio senza fine. Da un lato prevale, dunque, il desiderio del ritorno, del recupero nostalgico del passato; dall’altro, il soggetto migrante cerca di eliminare le tracce, anche attraverso il suicidio che Eng e Han non interpretano soltanto come eliminazione fisica, ma anche come cancellazione dell’identità etnica, fenomeno che caratterizza Gogol in The Namesake e i protagonisti di alcuni racconti in Interpreter of

Maladies. Nel loro processo di americanizzazione, questi immigrati vivono una frattura della

propria identità, “a cleaving of the psyche” come suggeriscono Eng e Han75, che li conduce sull’orlo di una crisi e di una morte identitaria, una frantumazione che nel caso di Gogol è

      

71 In ‘Das Ich und das Es’, Freud ha rivisto la sua posizione iniziale sulla dicotomia tra lutto e malinconia,

rendendone le differenze più sfumate. Sconvolto dalle atrocità della prima guerra mondiale, Freud normalizzò lo stato malinconico, ritenendolo una reazione normale alla perdita. In tal senso, la malinconia sarebbe una componente importante del lutto e avrebbe un ruolo fondamentale per la formazione e l’evoluzione dell’ego. L’Io, infatti, sarebbe costruito e segnato in maniera indelebile dall’identificazione e dal recupero della fonte di perdita, operazione che renderebbe labili i confini tra soggetto e oggetto. La malinconia, pertanto, diviene una manifestazione patologica del conflitto tra l’Io e il Super-io, articolandosi come nevrosi narcisistica: cfr. S. FREUD, ‘L’Io e l’Es’, in ID., Opere 1917-1932. L’Io e l’Es e altri scritti, (traduzione di C. L. Musatti), Torino,

Boringhieri, 1979, [1922], pp. 475-520.

72 Cfr. D. L. ENG, S. HAN, ‘A Dialogue on Racial Melancholia’, Psychoanalytic Dialogues, Vol. 10, N. 4, 2000, pp.

667-700. Il contributo è stato successivamente raccolto in D. L. ENG, D. KAZANJIAN (eds), Loss: The Politics of Mourning, cit., pp. 343-371.

73 D. L. ENG, S. HAN, ‘A Dialogue on Racial Melancholia’, cit., p. 671.

74 L’espressione è stata usata per la prima volta da Anne Cheng per esplorare il senso di malinconia che tormenta

gli Stati Uniti, sia dall’ottica dei bianchi che hanno un ruolo dominante, che da quella delle minoranze etniche (nello specifico asiatici e africani) che sono percepiti come ‘altri’.

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simbolicamente resa dal cambiamento e successiva restaurazione dello staus quo con il proprio antroponimo.

Eng e Han seguono la logica argomentativa di ‘Lutto e Malinconia’ di Freud per ribaltare il presupposto che la malinconia sia un fenomeno attinente alla mera sfera soggettiva. Secondo i due studiosi, gli immigrati di origine sud-asiatica sono la dimostrazione di come la condizione malinconica sia “less individual than social”76. Nel melting pot americano, i cittadini di origine asiatica tendono a essere ritenuti eccentrici e marginali, nonostante siano spesso additati come esempio di model minority77 per il loro alto livello economico e per i risultati prestigiosi in termini di formazione e istruzione. Tuttavia, la non totale inclusione dei sud- asiatici nella sfera di una pura cittadinanza americana si manifesta in forme di assenza e negazione. Su questo punto Eng e Han fanno chiaramente riferimento all’idea espressa da Anne Cheng, secondo la quale la malinconia è una forma di “legal exclusion”78. Cheng contesta il modello malinconico di Freud sostenendo che se la malinconia è un atto di fagocitazione dell’oggetto amato e perduto, essa genera confusione tra il soggetto che soffre e l’oggetto che genera sofferenza, che rischiano di diventare una sola cosa. Pertanto, secondo Cheng, il vero elemento costitutivo della malinconia è l’esclusione più che l’assenza, ed estendendo questo modello alla questione dell’integrazione delle minoranze etniche in America, la malinconia razziale rappresenta una delle sue articolazioni più chiare. La malinconia in senso razziale diventa, dunque, un potente strumento di analisi delle colpe di soppressione del diverso e della negazione di forme di esclusione e amnesia79.

      

76 Ivi, p. 671.

77 Il termine fu introdotto per la prima volta dal sociologo William Peterson in un articolo comparso su The New

York Times nel 1966. Peterson fondava l’idea della model minority sui dati relativi agli immigrati di origine

giapponese che controbilanciavano le discriminazioni sul piano etnico con un certo stakanovismo e risultati lavorativi prestigiosi: cfr. W. PETERSON, ‘Success Story, Japanese American Style’, The New York Times, 9 January 1966. URL: http://inside.sfuhs.org/dept/history/US_History_reader/Chapter14/modelminority.pdf.

78 A. CHENG, The Melancholy of Race: Psychoanalysis, Assimilation and Hidden Grief (Race and American Culture), cit., p.

10.

79 Paul Gilroy ha esaminato la patologia da lui definita postcolonial melancholia come manifestazione della perdita di

grandezza del popolo inglese a seguito del collasso dell’impero britannico. In questo caso, l’amnesia si traduce nell’incapacità da parte dei britannici di gestire la perdita del prestigio del passato che sfocia nella diffusione di una cultura fobica soprattutto verso gli immigrati provenienti dalle ex-colonie, nel timore che essi siano alla ricerca di una vendetta del loro precedente sfruttamento: cfr. P. GILROY, Postcolonial Melancholia, New York,

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La problematica che emerge da questo discorso è quella che concerne la natura e la direzione che l’oggetto della perdita subisce. Attraverso forme di imitazione (o mimicry per dirlo con un linguaggio caro alla teoria postcoloniale80) del lifestyle bianco e occidentale, si apre lo spazio del vuoto, dell’esclusione e del sotterramento81 di un’identità lacerata e sofferente. In base al modello freudiano, infatti, non è chiaro se l’oggetto perduto, che genera il senso di tristezza, sia davvero esistito. Pertanto, come dichiara Agamben, riflettendo sul senso di perdita su cui si fonda il temperamento malinconico, “la malinconia non sarebbe tanto la reazione regressiva alla perdita dell’oggetto d’amore, quanto la capacità fantasmatica di far apparire come perduto un oggetto inappropriabile”82. Inoltre, seguendo Žižek, possiamo collegare il senso di perdita informante il temperamento malinconico con la tendenza della

racial melancholia a disintegrare l’identità del soggetto attraverso il processo dell’aphanisis83 che sfigura i connotati del malinconico. Fluttuando tra loss e lack, tra appartenenza e timore, il soggetto sembra infatti frantumarsi in modo rovinoso.

Nella versione freudiana rivisitata in ‘Das Ich und das Es’, la malinconia diventa una strategia di (ri)costruzione identitaria e il concetto di racial melancholia rappresenta una negoziazione tra lutto e malinconia, manifestandosi soprattutto attraverso il confronto interpersonale e inter-generazionale. Nelle prime generazioni, l’incapacità di metabolizzare il lutto e la perdita delle proprie origini, della lingua materna, dello spazio geografico e

      

Columbia University Press, 2005. Gilroy ha tratto ispirazione dall’analisi condotta da Alexander e Margarete Mitscherlich che hanno studiato la Germania post-nazista e l’incapacità della nazione di accettare l’umiliante caduta del terzo Reich: cfr. A. MITSCHERLICH, M. MITSCHERLICH, The Inability to Mourn: Principles of Collective

Behavior, (translated by B. R. Placzek), New York, Grove, 1975, [1970].

80 Cfr. H. K. BHABHA, ‘Of Mimicry and Man: The Ambivalence of Colonial Discourse’, October, Vol. 28, 1984,

pp. 125–133.

81 Rispetto al concetto di ‘incorporazione’ di matrice freudiana, Nicholas Abraham e Maria Torok adottano

quello di “cripta psichica” per descrivere l’idea dell’identificazione come di una sepoltura che, da un lato, custodisce il dolore in modo sicuro, dall’altro, attende di essere portata alla luce: cfr. N. ABRAHAM, M. TOROK, La scorza e il nocciolo, (traduzione di L. Russo), Roma, Borla, 1993, [1978]. Nella narrativa di Jhumpa Lahiri, le

immagini di sepoltura e il paesaggio cimiteriale sono elementi ricorrenti sul piano intratestuale che contribuiscono a creare una “poetics of remembrance” in uno scenario segnato da migrazioni e spostamenti: M. N. CHAKRABORTY, ‘Leaving No Remains: Death among the Bengalis in Jhumpa Lahiri’s Fiction’, cit., p. 814.

82 G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 25-26.

83 Žižek riprende il termine (dal greco ἀφάνισις ‘scomparsa’) da Lacan per il quale l’aphanisis indica la scomparsa

del soggetto. Mentre per Ernest Jones, che fu il primo ad introdurre il termine nel 1927, l’aphanisis descriveva la scomparsa del desiderio sessuale, Lacan colloca in questo momento epifanico l’accesso nell’inconscio. Nell’incontro con l’altro, il soggetto prende coscienza della propria natura e subisce una sorta di frantumazione del “fantasmatic kernel” fatto di immagini simboliche: S. ŽIŽEK, ‘Melancholy and the Act’, cit., p. 681.

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dell’ambiente domestico, provoca, prendendo in prestito le parole di Vijiay Mishra, una “never-healing wound”84 successivamente trasmessa alle seconde generazioni. Queste, come accennato in precedenza, non solo espongono una certa vulnerabilità nel vasto scenario del contesto sociale e culturale americano, ma sono spesso vittime di un’alienazione più acuta che trova spazio tra le mura domestiche, dove il rapporto con la propria cultura di origine (simboleggiata dalle prime generazioni) diventa problematico e precario. La malinconia, assieme alla nostalgia, rappresenta un tentativo di preservare la memoria e il ricordo, i traumi e i fantasmi del passato in un immaginario collettivo che Mishra chiama diasporic imaginary85. Il concetto è stato teorizzato in relazione alla old Indian diaspora86 e benché i personaggi di Lahiri siano storicamente lontani della perdita della madrepatria, essi sono la dimostrazione di come la racial melancholia ruoti attorno allo scontro tra realtà e desiderio. Questa dialettica, seguendo Agamben, ci induce a sostenere che nella malinconia “l’oggetto non è né appropriato né perduto, ma l’una e l’altra cosa al tempo stesso”87, emergendo attraverso il non detto, il nascosto e il non visibile.

Nella narrativa di Jhumpa Lahiri la malinconia non è tanto celebrata come mero strumento di preservazione di radici che rischiano l’estinzione, quanto come veicolo che genera solidarietà e responsabilità etica in un mondo globalizzato come quello odierno. Anche il desiderium patriae, nell’enfasi che attribuisce al ricordo del passato, genera un affetto positivo che incrementa l’autostima e favorisce la coesione sociale88.

      

84 V. MISHRA, The Literature of the Indian Diaspora: Theorizing the Diasporic Imaginary, cit., p. 9.

85 Ivi, p. 7. Derivando il concetto di imaginary da Jacques Lacan e dai suoi studi sul narcisismo, Mishra concepisce

il diasporic imaginary come una forma di impossible mourning per una terra di origine (l’India nel caso specifico) il cui ricordo si fonda sull’assenza, in modo particolare per le seconde generazioni. Mishra dedica alcune riflessioni anche alla narrativa di Jhumpa Lahiri, interpretata come trasposizione in chiave allegorica di esperienze traumatiche.

86 Con new Indian diaspora, Mishra identifica i flussi migratori recenti, come quelli dirottati dalla globalizzazione e

dalla riforma americana delle politiche di immigrazione del 1965, nota come Hart-Celler Act. La ‘vecchia’ diaspora, al contrario, descriveva la circolazione di individui che, tra il XIX secolo e il 1947, si spostarono dal subcontinente indiano verso altri territori dell’impero britannico, come Fiji, Malesia, Sud Africa, Trinidad e Suriname, impiegati come manodopera nelle piantagioni di thè, zucchero e gomma.

87 G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, cit. p. 27.

88 Studi recenti in ambito psicologico mettono in evidenza la riabilitazione della nostalgia a partire dalla seconda

metà del XX secolo, in virtù del suo potere di connessione tra passato e presente, grazie a cui essa favorirebbe la comprensione dell’esistenza umana, alimentando ottimismo e relazioni sociali: cfr. SEDIKIDESET AL., ‘Nostalgia

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Nell’espansione delle indagini critiche sulla questione dei lati postivi del sentimento nostalgico in ambito postcoloniale, in Postcolonial Nostalgias Dennis Walder delinea un’estetica della nostalgia postcoloniale capace di illuminare il futuro attraverso la riflessione che emerge dal passato:

[…] there is also a positive side, which admits the past into the present in a fragmentary, nuanced, and elusive way, allowing a potential for self-reflexivity and irony appropriate for former colonial or diasporic subjects trying to understand the networks of power relations within which they are caught in the modern world, and beyond which it often seems impossible to move.89

Walder identifica nella nostalgia la cifra più autentica della realtà postcoloniale, un tratto che unisce il mito del ritorno con il desiderio utopico.

Nell’opera di Lahiri, dunque, malinconia e nostalgia postcoloniale si collocano lungo un

continuum in cui entrambi i temperamenti offrono una risposta alla condizione di spaesamento.

Tuttavia, è proprio la narrazione a rendere i due stati d’animo strategie positive di ricostruzione identitaria, in modo particolare attraverso le forme di contatto umano che i personaggi perseguono. Lahiri illumina il potere trasformativo della racial melancholia che non si traduce né in una guarigione definitiva, né nella cancellazione della perdita, ma nel rendere le sconfitte della quotidianità una sorta di gain, una conquista che si avvale sia del contatto interculturale che del rapporto intimo con lo spazio geografico reale e immaginario, come esamineremo nel prossimo capitolo.

      

as Enabler of Self-Continuity’, in F. SANI (ed.), Self-continuity: Individual and Collective Perspectives, New York,

Psychology Press, 2008, pp. 227-239.

89 D. WALDER, Postcolonial Nostalgias: Writing, Representation and Memory, London and New York, Routledge, 2009,

p. 16. La posizione di Walder ricorda molto la reflective nostalgia di Boym, a cui lo stesso Walder fa riferimento. Tuttavia, l’approccio di Walder pone l’enfasi sulla nostalgia come componente etica che, scavando nel passato, permette una visione più luminosa del futuro.

32  CAPITOLO SECONDO