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ALMA REDEMPTORIS MATER Un approccio psicodinamico al tema:

5. Memorie di una storia personale

Le fonti scritturistiche e liturgiche, costantemente riproposte dall’in-segnamento autorevole della chiesa, insistono sul concetto della Donna di Nazaret come modello del compito evolutivo religioso di ogni credente;10 esse ci offrono alcune memorie, scarne ma sufficienti a tratteggiarne la personalità e, sia pure per grandi lineamenti, il percorso di iden-tificazione.

Se ripercorriamo questo percorso, possiamo quasi ricostruire il pro-cesso di identificazione seguito da Maria, partendo dall’impegno unifi-cante – comune ad ogni persona umana – di portare a compimento la pro-pria identità, nel suo specifico di donna e di madre, fino al suo impegno più strettamente legato alla fede nel Dio di Gesù che, come per ogni cri-stiano, è quello di divenire compiutamente e consapevolmente “figlio/a di Dio”, avendo come riferimento scelto liberamente e senza riserve Gesù Cristo, nell’ambito di una comunità di fede (Chiesa), che accoglie la mis-sione di continuare nella storia la presenza efficace degli ideali che ci so-no stati consegnati dal Vangelo e dall’insieme della tradizione cristiana.

10 Cf CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa:

Lumen Gentium, n. 52-69 (21 novembre 1964), in Enchiridion Vaticanum (EV)/1, Bo-logna, Dehoniane 197911, 426-445; PAOLO VI, Esortazione apostolica: Marialis cul-tus, n. 1-58 (2 febbraio 1974), in EV/5, 13-97.

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Alcuni aspetti, che si possono cogliere già nei dati esegetici sui testi scritturistici riguardanti Maria, ci informano sugli snodi del suo cammino umano-spirituale.

5.1. Essere se stessa

Per ovvio che possa sembrare, pure sappiamo che essere se stessi – sapere chi si è ed accettarsi – non è una meta facile: tutti nasciamo già come frutti di desideri, di progetti fatti su di noi, di aspettative, e abbiamo il compito di affrancarci da tutto questo per costruire la nostra vera identi-tà. Maria di Nazaret ha perseguito la propria identità, innanzitutto accet-tando fino in fondo la propria condizione di creatura con lucida coscienza dell’impotenza radicale che segna l’essere umano. Poi, accettando la pro-pria identità senza chiedere conferme, né al contesto familiare o amicale e neppure alla tradizione religiosa in cui era inserita, ma accogliendo senza riserve le proposte che la Vita le offriva; riferendosi strettamente, non tanto alla cultura del suo gruppo di appartenenza, ma proiettando con fi-ducia assoluta la propria autorealizzazione, e quindi il compimento della propria identità, sul nome che per Lei era scritto nei cieli.

Da questi accenni si può intuire quanto Maria sia stata capace di ren-dersi libera dai condizionamenti, legati alle aspettative che famiglia e cul-tura potevano avere nei suoi confronti, come pure dalle sue stesse proget-tualità personali, quali sono indicate per esempio dall’essere promessa sposa di Giuseppe.

Essere se stessi – condizione basilare per il processo di identificazione e competenza inderogabile della funzione educativa – non è semplice, perché richiede sovente lunghi percorsi in solitudine, esige di sopportare il peso di tradire aspettative e non raramente comporta sensi di colpa e di disagio per quanti, pur amando, deludiamo. Il più delle volte, infatti, una ricerca fondata sulla fede comporta percorsi non chiaramente prevedibili o descrivibili e ancor più spesso non accettati né compresi. Possiamo dire, in qualche modo, che Ella ha accettato il rischio e la responsabilità deri-vanti dal diritto di essere se stessa. I brani evangelici che parlano di Maria la mostrano quasi sempre come una figura sola, un po’ staccata dal-l’ambiente: non si narra di amiche o di specifici legami con nessuno, né parente, né apostolo o discepolo del Signore (a parte forse, dopo la morte del Figlio, il giovane discepolo Giovanni).

In questa narrazione, mi sembra di scorgere un elemento importante,

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comune a chiunque decida di impegnarsi in un cammino di autentico compimento della propria identità, soprattutto in una prospettiva cristiana:

anche Maria ha dovuto accettare una certa ed inevitabile solitudine, legata alla progressiva scoperta del mistero che chiama a traguardi ed offerte inedite e, contemporaneamente, esige la consapevolezza di una necessaria diversità dai modelli e dai valori dominanti in un determinato contesto.

Questo processo implica un’autenticità di autocoscienza che, pur non sot-traendosi a confronti, rinuncia a conferme esterne, alla pacificante sensa-zione di appartenenza non conflittuale al gruppo e/o alla cultura, per aprirsi ad una sorta di provvisorietà esistenziale che rasenta la precarietà spirituale, che trova solo nella fede il suo orizzonte di senso e nella spe-ranza la sua forza.

5.2. Una diversa forma di generatività

La relazione madre-figlio è stata studiata a fondo negli ultimi decenni e con risultati notevoli. Forse, però, un aspetto è stato un po’ sottovaluta-to. Leggendo la letteratura psicologico-evolutiva si ha spesso l’im-pressione, infatti, che il figlio/a siano un po’ degli... universali astratti.

Noi sappiamo invece che non nasce soltanto un figlio/a, bensì un essere umano che diviene figlio/a solo se appartiene ad una determinata cultura.

Andrebbe forse sottolineato meglio che, se nella cultura semitica l’identità sociale è legata solitamente al padre (donde l’uso di chiamare per esempio Giuseppe figlio di Davide), il suo radicarsi nella cultura, o l’essere considerato appartenente alla cultura, è strettamente connesso con la figura materna.11 È da questo contesto che la figura materna trae la sua importanza per il futuro del figlio/a, anche dal punto di vista dello svilup-po dell’atteggiamento verso la vita: intesa, non tanto come valori etici – più legati al rapporto con la figura paterna –12 ma come capacità di amore oblativo e, quindi, come presupposto della fede in Dio. Questi temi sono stati sviluppati ampiamente e con profondità dal prof. Vergote e dalla scuola di Lovanio, e in modo particolarmente impegnato e riconosciuto,

11 Cf NATHANT T., La fabbrica culturale degli uomini: avo o padre?, in DONGHI

P. (a cura di), Il sapere della guarigione, Bari-Roma, Laterza 1996.

12 Cf CIGOLI V., Intrecci familiari. Realtà interiore e scenario relazionale, Mila-no, R. Cortina 1999.

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dalla professoressa Gertrud Stickler.13

Possiamo quindi partire da questo elemento per considerare quale tipo di generatività ha vissuto Maria di Nazaret e che implicazioni potrebbe avere per il processo educativo.

Un primo dato sulla qualità del rapporto tra Maria e il figlio ci viene da una costante della vita di Gesù: se l’uomo Gesù ha saputo affidarsi senza riserve alla volontà di Dio, evidentemente ha ricevuto dalla madre l’ambiente idoneo a sviluppare poi la sua fede piena e la capacità di amo-re oblativo fino al dono della propria vita. Questo pamo-rendersi cura, questo tipo di generatività, accompagna tutta la vita di Maria che, pur tra dubbi o incertezze, alimenta nel figlio l’oblatività e la fede radicale. Perfino nel momento della desolazione, Gesù avvertiva l’amore fiducioso della Ma-dre, ritta ai piedi della croce, che lo sosteneva e gli infondeva fiducia.

Proprio a partire da questa esperienza è possibile osservare il processo di circolarità educativa: dalla scena del Golgota emerge una nuova forma di generatività di Maria, che oggi chiameremmo la generatività sociale.14 Nel passaggio dalla generatività parentale – legata ai vincoli culturalmen-te e biologicamenculturalmen-te predeculturalmen-terminati – a quella sociale, emerge un modello nuovo del prendersi cura, maggiormente segnato da libertà di scelta, da una disponibilità più gratuita, dall’attenzione verso le realtà fragili o de-boli, come pure dall’impegno nel preparare e sostenere percorsi perché la vita abbia un futuro, perché cioè chiunque trovi chi si prende cura di lui e dei suoi bisogni.15

La generatività sociale, varcando il limite già umanamente enorme della morte del figlio, neppure sostenuta dalla presenza degli apostoli, ha consentito a Maria di vivere appieno l’esperienza di essere Alma Redemp-toris Mater. Anche in quel momento Maria alimentava la vita del Reden-tore, perché la presenza oblativa della Madre ha sostenuto l’uomo Gesù, non solo nel vivere quell’esperienza, ma nel viverla con tale pienezza da darci un insegnamento inedito, che cioè nessuna condizione, per quanto

13 Cf STICKLER G., Donna, educatrice alla pace. Aspetti psicologici, in Rivista di Scienze dell’educazione 33(1995)1, 29-32; EAD.,Ferite narcisistiche e dinamiche del-l’evoluzione religiosa, in ALETTI M.-ROSSI G.(a cura di), Ricerca di sé e trascenden-za. Approcci psicologici dell’identità religiosa in una società pluralista, Torino, Cen-tro Scientifico Editore 1999, 45-64.

14 Cf SCABINI E. - CIGOLI V., Il famigliare. Legami, simboli e transizioni, Milano, R. Cortina 2000.

15 Vorrei sottolineare che questa forma di generatività non è legata all’essere don-na, ma è possibile ad ogni persona umana.

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ingiusta possa essere, impedisce di comunicare il dono di Dio. Da questa esperienza Maria viene trasformata: ascolta le parole che il Figlio le dice e inaugura così un nuovo modo di essere credente. Già discepola, viene ora chiamata ad essere testimone che trasmette, e in certo senso genera, alla fede la prima Chiesa: l’offerta che lo Spirito le presenta attraverso le parole del Figlio è di assumere anche Lei il male – come il figlio – e di investire ogni energia perché, pure da quella situazione obiettivamente ingiusta, possa emergere la gloria di Dio. Mentre compiva il tempo del prendersi cura del Figlio alimentandone sino in fondo la vita, la Madre ri-ceveva da Lui un’offerta inedita di vita: essere madre, cioè prendersi cura e sostenere, la comunità dei credenti16. Questo evento segna realmente un’ora (nel senso giovanneo), il compimento cioè di un percorso del-l’avventura umana perché possa aprirsi ad accogliere nuove sollecitazioni dello Spirito.

Rispetto a noi, Maria rappresenta il compimento di un modello cultu-rale e la possibilità di comportamenti inediti. Non dimentichiamo che, per realizzare questa forma di generatività, Maria di Nazaret ha espresso di fatto comportamenti inconsueti, se non addirittura innovativi: che una donna ebrea, presumibilmente ritenuta vedova e con il figlio morto, non vada in casa del più anziano dei parenti maschi equivale, dal punto di vi-sta di un certo ebraismo, ad una trasgressione al costume e, da un altro punto di vista, ad un’innovazione. Che Giovanni l’abbia presa tra le “cose sue” è una grossa innovazione. La tradizione prescriveva, infatti, che la donna rimasta sola andasse ad abitare con il figlio maggiore o con il pa-rente maschio più anziano, restando perciò comunque all’interno della sua famiglia. Anche oggi, la tradizione ebraica più rigorosa difficilmente capirebbe una scelta diversa. Non sappiamo quali risonanze abbia provo-cato il modo di agire di Maria, solo rileviamo la libertà e la novità della sua condotta. La narrazione evangelica ci propone anche un altro evento, da cui emerge questa linea innovativa rispetto ai modelli tradizionali: il raccogliersi attorno a Lei dei credenti, presi da paura. Sembra quasi una riunione di preghiera sul modello sinagogale, che però appare in qualche modo presieduta da una donna, della quale peraltro, quasi a sottolinearne con forza solo la presenza, non viene riportata alcuna parola.

16 Cf Orazione dopo la Comunione della Messa della B.V. Addolorata (15 sett.), Messale proprio O.S.M., , Roma, Curia Gen. dei Servi di S. Maria [s.d.].

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