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Un’antropologia “filosofica” in Gv 19,25-27?

PER UN’EDUCAZIONE INTEGRALE?

2. Un’antropologia “filosofica” in Gv 19,25-27?

L’interrogativo è d’obbligo: è possibile rinvenire un’antropologia in Gv 19,25-27 o si rischia di porre una domanda sbagliata anche se sostan-zialmente legittima? Considerato il moltiplicarsi dei metodi e degli ap-procci al testo biblico (analisi retorica, narrativa, semeiotica, sociologica, psicologico-psicanalitica, antropologico-culturale, ecc.), con quale meto-do l’indagine filosofica può avvicinarsi al testo biblico?19

Il mio tentativo – che considero solo un abbozzo appena schizzato – si

18 Cf POLLO, Le sfide educative 52-53.

19 Dopo la costituzione conciliare: Dei Verbum, il documento più qualificato dal punto di vista cattolico a proposito del tema dell’interpretazione della scrittura è senza dubbio quello della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), EV/13 (1995), 2846-3150.

Quale antropologia per un’educazione integrale? 101

inserisce nel quadro di un’ermeneutica metafisica della persona, che non esclude l’ermeneutica del significato esistenziale, pratico, operativo degli aspetti storici ed empirici della realtà, ma che li rilegge dentro la consa-pevolezza critica della natura dell’uomo, costitutivamente aperta ed in-tenzionata alla trascendenza della verità e di Dio.20

Potremmo riprendere così le quattro “coordinate antropologiche” già enucleate sopra (corporeità, relazione, libertà, temporalità/spazialità) e ri-leggerle dentro l’icona giovannea, e scoprire le potenzialità di questa let-tura: la corporeità delle persone coinvolte nella relazione che si istituisce sul fondamento della libertà, nello spazio e nel tempo che nella loro pre-cisa configurazione si aprono ad un’ulteriorità di significati che trascen-dono l’hic et nunc.

Ebbene, dentro queste quattro coordinate, è possibile forse proporre due ulteriori passaggi antropologici, che colgo nelle dimensioni del dono e del limite.

2.1. Antropologia del dono

L’evangelista Giovanni in 19,25-27 ci presenta un quadro composto da Gesù crocifisso, dalla Madre che sta presso la croce con altre tre donne e “il discepolo amato”; l’azione che si svolge in questi tre versetti è sem-plice: Gesù affida (dona) la madre al discepolo, e il discepolo alla madre, così che da quell’“ora” il discepolo la prende “eis ta idia” (lett. fra le sue cose), in casa sua.

È possibile cogliere in questo movimento circolare (che l’esegesi in-tertestuale ci svela essere ancora più profondo: Il Padre che “dona” il Fi-glio, il Figlio che “si dona” al Padre e “dona” con la sua morte, la don-na/Maria – simbolo del nuovo popolo di Dio – al discepolo – simbolo di tutti i credenti in Cristo), una sintesi straordinaria per una antropologia del dono fondata sulla relazione.21

20 Su questa complessa tematica cf MOLINARO A., Metafisica ed ermeneutica in dialogo, in MONDIN B. (a cura di), Ermeneutica e metafisica possibilità di un dialogo, Roma 1996, 144-161. Per la mariologia sono utili le osservazioni di ODASSO G., Er-meneutica biblica in mariologia, in Theotokos 1(1994)1, 37-42.

21 Cf GODBOUT J. T. - CAILLÉ A., Lo spirito del dono, Torino, Bollati Boringhieri 20022; SEQUERI P., Sensibili allo spirito 79-114; MANCINI R., Esistenza e gratuità.

Antropologia della condivisione, Assisi, Cittadella 1996; ID., Il dono del senso. Filo-sofia come ermeneutica, Assisi, Cittadella 1999.

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Jacques Godbout, nell’opera Lo spirito del dono, è riuscito a fornire una giustificazione esemplare della coimplicazione tra reciprocità e gra-tuità. Il dono è sempre una storia, è la memoria delle relazioni che mi co-stituiscono come persona originale. Solo così si sperimenta il riconosci-mento del valore inestimabile di ciascuno, che non può mai diventare un possesso, per cui proprio nel donare le persone si confermano reciproca-mente di non essere delle cose. «D’altra parte, il valore peculiare del dono non è dato né dal valore d’uso, né da quello di scambio, ma è il valore di legame. Questo sta nel riconoscere, al di fuori di ogni calcolo d’interesse, la ricchezza che la relazione con l’altro ha per me e, al tempo stesso, la ricchezza che io rappresento per lui. [...] Va poi sottolineato l’aspetto in-novativo, inaugurale del dono. Esso è un atto di nascita, una novità inatte-sa che genera o rigenera il legame con l’altro in quanto soggetto libero, senza trarlo nella schiavitù del debito. Non per niente la nascita stessa, in tutte le società, rappresenta il dono per eccellenza. La generosità è gene-razione. Perciò un atto oblativo, a suo modo, sollecita la memoria della nostra nascita, invita a sentirci donati a noi stessi».22

Cogliere in quest’icona giovannea uno spunto per un’antropologia del dono, credo voglia dire anche risalire alla relazione che ci ha costituiti e recuperare la consapevolezza che ciascuno esiste ricevendo, dentro una trama complessa di relazioni: siamo donati a noi stessi come dono viven-te. «Ritrovare in sé la via del proprio radicamento apre al futuro, porta a scoprire il non-ancora del nostro essere. A partire da qui intravediamo la nostra vocazione personale, la strada che conduce, attraverso la libertà, al-la possibile destinazione delal-la vita. È allora che al-la finitezza del sé appare come potentia passiva nel senso indicato da Tommaso d’Aquino: ‘la di-sposizione degli enti a ricevere la propria perfezione’. La persona non si identifica più con il self made man, ma rinviene nel proprio nucleo essen-ziale e incompiuto, questa potentia che è passività feconda, capacità di ri-cevere la propria pienezza».23

22 MANCINI, Il dono del senso 178-179.

23 Ivi 182-183.

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2.2. Antropologia del limite

L’icona giovannea, ci dicono gli esegeti, «riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli “atti” di Gesù in croce»24 si tratta quindi di un evento che si iscrive in un contesto di sofferenza e di morte.

Ritrovare, nella profondità di questa scena, l’importanza di un’antro-pologia che non “salti” la dimensione del limite (sofferenza, male, morte) ma ne colga tutte le potenzialità in vista di un’educazione integrale della persona. È interessante a questo proposito riflettere sul verbo heistékeisan (Gv 19,25a), usato da Giovanni: si tratta di uno “stare”, di un permanere che permette, attraverso le parole di Gesù, la rivelazione di una nuova identità e per la madre e per il discepolo.

È una sfida da raccogliere: la finitezza in chiave filosofica non è un dato empiricamente bruto in cui ci si imbatte, ma è un’interpretazione della condizione umana nelle sue relazioni costitutive25 che può essere colta secondo due dimensioni fondamentali: quella del finito che si apre all’Infinito e quella di cercare il significato del finito nel finito stesso. Ha ragione allora V. Melchiorre quando scrive: «L’uomo d’oggi, come mai in passato, va infatti sperimentando il proprio potere nei recinti dell’ente, ma proprio per questo mai come oggi diviene soggetto alla tentazione di sentirsi, nell’ente, signore dell’essere. Il sintomo maggiore di questa hy-bris o di questa contraddizione sta forse proprio nella mendace raffigura-zione della morte, di cui l’uomo contemporaneo si è fatto sempre più esperto: una morte occultata e quasi sempre rimossa dai recinti domestici, persino ‘proibita’ nei luoghi della vita familiare, se non addirittura trucca-ta con gli stereotipi belletti del vivente. La strategia di queste finzioni ser-ve, certo, all’affaccendarsi industrioso delle opere, ma il suo prezzo è poi nello smarrimento della verità. Ne va infine dell’ultimo senso che pur do-vrebbe stare a salvaguardia e regola di tutte le opere, ne va della possibile speranza che pur dovrebbe sostenere il soggiorno della vita».26

Conclusione

24 VALENTINI A., La madre di Gesù nel mistero dell’«ora», in Theotokos 7(1999) 2, 320.

25 Cf FERRETTI G.(a cura di), Ermeneutiche della finitezza. Atti del VII colloquio su filosofia e religione, Macerata, Università degli Studi di Macerata 1998.

26 MELCHIORRE V., Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Milano, Vita e Pensiero 1998, 12.

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Ho cercato, in modo sintetico, di presentarvi una possibile traccia di quello che io ritengo un quadro di riferimento antropologico aperto alle prospettive di un’educazione globale della persona umana “oggi”. Il bre-ve percorso compiuto, sicuramente insufficiente, ci ha portati ad ana-lizzare il punto di partenza nella corporeità, che è la prima percezione che ciascuno ha di se stesso/a, cioè quella di essere un vivente, per arrivare at-traverso l’esercizio della libertà a cogliere la persona nel suo essere rela-zionale, dove la differenza diviene la condizione stessa della sua dicibili-tà, e lo spazio-tempo la condizione della sua autenticità.

I due brevi punti antropologici, legati al tema di questo seminario, non hanno invece alcuna pretesa di aver centrato il bersaglio: sono solo sug-gestioni che potrebbero forse essere di aiuto per una discussione e meto-dologica e contenutistica.

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ALMA REDEMPTORIS MATER