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Modifica alla formulazione del criterio direttivo

La direttiva prevede la << semplificazione delle procedure, anche con la previ- sione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del ma- gistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione >>.

L’indicazione che il delegante si accinge a consegnare all’Esecutivo sembra incanalarsi nella prospettiva di implementazione di quel percorso di semplificazione delle

scansioni procedurali affidate al governo della magistratura di sorveglianza, con

l’obiettivo dell’efficientamento dei tempi di risposta alle istanze e di economia processuale, in ideale prosecuzione del percorso già avviato con precedenti interventi normativi, tra i quali hanno assunto particolare importanza, per le finalità deflative dell’eccessivo numero di presenze negli istituti di pena, le modifiche introdotte nell’art. 656 c.p.p., ad opera dell’art.1, comma 1, lett. b), nn. 1) - 3), d.l. 1° luglio 2013, n. 78, cui sono seguite le modifiche al procedimento di sorveglianza disciplinato dall’art. 678 c.p.p. (apportate dal d.l. n. 146/2013, art. 1, comma 1, lett. b) e c), che ha introdotto il comma 1 bis dell’art. 678, c.p.p., il quale prevede – per specifiche materia, l’adozione del rito de plano di cui all’art. 667, c.p.p.) e le semplificazioni procedurali introdotte in relazione alla disciplina dell’art. 51bis, l. 26 luglio 1975, n.354 (il cui testo, sostituito per effetto dell’art. 3, lett. g), d.l. 23 dicembre 2013, n.146, prevede come meramente eventuale il passaggio procedimentale davanti all’organo collegiale).

Restano tuttora regolate dalle disposizioni del procedimento camerale partecipato le materie di competenza del tribunale di sorveglianza (salve le eccezioni indicate nel comma 1bis, art. 678 c.p.p.); i ricoveri previsti dall’articolo 148 c.p., le misure di sicurezza, la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere (comma 1, art. 678 c.p.p.).

Per quanto concerne le competenze monocratiche, l’intervento del 2013 ha pour

cause sottratto alla semplificazione procedurale materie involgenti profili di estrema

delicatezza, che impongono – o rendono comunque opportuna – la possibilità di interlocuzione diretta del giudice con l’interessato: occasioni di contatto che non pare consentito ulteriormente erodere, se non incidendo sul già essenziale contraddittorio consentito dal rito camerale regolato dall’art. 666 c.p.p., ciò che - a tacere di ogni altra

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considerazione - porrebbe in discussione la compatibilità dell’assetto, che fosse ipoteticamente così riformato, con il diritto presidiato dall’art. 24 Cost.

In definitiva: pur non disconoscendo che << l’esercizio del diritto di difesa è suscettibile di essere regolato in modo diverso, onde adattarlo alle esigenze ed alle specifiche caratteristiche dei singoli procedimenti: purché di tale diritto siano assicurati lo scopo e la funzione>> (Corte cost., ord. n. 291/2005), resta pur sempre attuale il dubbio se, sul piano della ponderazione dei valori in gioco, sia corretto sacrificare sull’altare dell’economia processuale e della massima speditezza il diritto a un contraddittorio pieno, ad un giudizio, cioè, non mortificato nell’aspetto giurisdizionale (in questo senso, ci pare del resto di essere confortati da quanto afferma Corte cost., sent. n. 135/2014 in tema di garanzia della pubblica udienza in materia di misure di sicurezza).

Fatte queste necessarie premesse, rimanendo nell’ambito circoscritto dalla ipotesi di delega, restano aperte alcune circoscritte possibilità di intervento volte a portare

a compimento il processo di razionalizzazione degli attuali assetti procedimentali, sul

duplice versante del governo e della distribuzione della competenza nelle materie attribuite, a normativa vigente, alla competenza del giudice di sorveglianza e della disciplina dell’ordine di esecuzione contenuta nell’art. 656 c.p.p.

Certamente, una più decisiva razionalizzazione del sistema potrebbe aversi se l’oggetto della delega che sarà consegnata al governo fosse implementato per includere, nella lett. a) qui in esame, una direttiva volta alla realizzazione di un riassetto

del riparto di competenze tra magistratura di sorveglianza e giudice penale, con attribuzione a

quest’ultimo di quelle materie, relative a profili dell’esecuzione penale e penitenziaria afferenti alla posizione degli imputati detenuti, che potrebbero essere governate meglio e con maggiore efficacia da parte del giudice che ha la conoscenza del processo e la materiale disponibilità dei relativi atti.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio: l’intervento sull’art. 656 comma 5 c.p.p.

La delega – negli ampliati termini sopra suggeriti – includerebbe, pertanto, un intervento sull’art. 656 c.p.p. ed una rimodulazione dell’art. 678 c.p.p.

Con riguardo al primo profilo, una modifica potrebbe, anzitutto, riguardare la

formulazione del comma 5, art. 656 c.p.p., nel senso di generalizzare la previsione della sospensione da parte del p.m. dell’esecuzione delle pene detentive non superiori a quattro anni,

così superando l’attuale assetto che, oltre ad essere immotivatamente discriminatorio in relazione alle soglie di pena che consentono di evitare l’ “assaggio di carcere” ai condannati definitivi, risente di un difettoso coordinamento tra le soglie di pena che consentono la sospensione dell’ordine di esecuzione e la possibilità di concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale per pene detentive non superiori – anche

de residuo - a quattro anni, prevista dal comma 3bis, art. 47 ord. penit.

Con la proposta estensione dell’area di operatività del meccanismo sospensivo

de quo, si accrescerebbero le potenzialità applicative della misura-principe prevista

condizione detentiva); ne risulterebbe migliorata la coerenza del sistema (allineandosi, infatti, la disciplina della sospensione dell’ordine di esecuzione a quella di matrice penitenziaria, relativa ai presupposti di concessione delle misure alternative alla detenzione di cui agli artt. 47, 47-ter ord. penit.); si realizzerebbe, infine, un’auspicabile razionalizzazione, nel senso che il meccanismo sospensivo contemplerebbe - al netto delle ipotesi ostative - due sole soglie-limite di pena: situate, la prima, entro i quattro anni di pena e la seconda fino ai sei anni (quest’ultima, peraltro, continuerebbe ad operare soltanto nei casi di cui agli artt. 90 e 94, d.p.r. n. 309/1990 e sempre che non si tratti di condanne per taluno dei delitti di cui all’art. 4bis, l. n. 354/1975).

In una prospettiva acceleratoria dei tempi procedimentali e di deflazione del carico di lavoro dei tribunali di sorveglianza, potrebbe, inoltre, essere vagliata l’opportunità di completare il percorso di razionalizzazione delle competenze della magistratura di sorveglianza, con riferimento alla posizione dei condannati nei cui confronti il pubblico ministero ha sospeso l’ordine di esecuzione ai sensi del comma 5, art. 656 c.p.p. (c.d. “liberi sospesi”).

L’ipotesi riformatrice potrebbe, precisamente, riguardare la rimodulazione

dell’art. 678 c.p.p. con l’attribuzione in via principale al magistrato di sorveglianza della competenza in tema di applicazione delle misure alternative alla detenzione, con possibilità, da

parte del pubblico ministero e dell’interessato, di impugnazione della decisione assunta dall’organo monocratico davanti al tribunale di sorveglianza (eventualmente ispirato alle scansioni procedurali già introdotte con l’art. 69-bis ord. penit.).

Si tratta, in effetti, di un meccanismo procedurale “bifasico” già ampiamente collaudato – con positive ricadute in termini di efficienza e di tempestività della risposta di giustizia – in materie tra le più delicate e impegnative (quali a es., i ricorsi giurisdizionali in materia di diritti fondamentali del detenuto disciplinati dall’art. 35bis l. n.354/1975; i rimedi risarcitori di cui all’art. 35ter ord. penit., la liberazione anticipata ordinaria e speciale, l’esecuzione domiciliare, solo per citare le più recenti modifiche nel senso indicato).

Rimarrebbe, invece, immutato il differente meccanismo vigente con riguardo ai condannati detenuti, articolato sul vaglio “cautelare” del magistrato monocratico e sulla decisione definitiva assunta dal tribunale di sorveglianza: iter certamente più “faticoso” sotto il profilo procedurale ma giustificato dalla necessità di un vaglio collegiale in relazione a casi di indubbia maggiore complessità e delicatezza (attesa l’entità della pena e/o il titolo di reato che non hanno consentito la sospensione dell’ordine di esecuzione, alla necessità di approfondire l’esame della personalità del soggetto ovvero alla luce delle esigenze preventive che hanno imposto la protrazione della custodia cautelare senza soluzioni di continuità con l’espiazione della pena definitiva).

1.1. La modifica del comma 10, art. 656 c.p.p.

Una seconda modifica possibile della procedura potrebbe coinvolgere la disciplina

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attuale formulazione, che il soggetto, il quale si trovi sottoposto alla misura degli arresti domiciliari al momento in cui la sentenza di condanna diviene definitiva, permane - sempre che i limiti di pena e il titolo di reato lo consentano – nello stato detentivo in cui si trova, fino a che il tribunale di sorveglianza, cui il pubblico ministero trasmette immediatamente gli atti, non provveda sulla eventuale applicazione di una misura alternativa alla detenzione.

La peculiare situazione in cui si trova il condannato il quale – per espresso disposto di legge: comma 10 art. 656 cit. – inizia automaticamente ad espiare la pena definitiva nello stato anodino di esecuzione domiciliare, suggerisce la possibilità di

modificare la disciplina vigente nel senso di stabilire che, nella fattispecie in esame, il condannato espierà ex lege la pena nella forma della detenzione domiciliare, la cui gestione

rimarrebbe peraltro affidata, come già oggi avviene, al governo della magistratura di sorveglianza, salva sempre la possibilità, per l’interessato, di formulare al giudice di sorveglianza un’istanza per l’applicazione di una più ampia misura (es. affidamento in prova al servizio sociale).

Tale suggerita modifica procedurale – oltre a raccordarsi, sul piano sistematico, alla delega introdotta dalla l. n. 67/2014 in tema di “nuove pene”, tra cui la “reclusione domiciliare” - consentirebbe una deflazione del carico dei tribunali di sorveglianza e la possibilità di evitare soluzioni di continuità tra la definitività del titolo di condanna e l’inizio dell’esecuzione penale, senza per questo intaccare in nulla le esigenze preventive, già valutate dal giudice della cautela e del merito con riferimento alla misura cautelare domiciliare e senza, d’altro canto, incidere la possibilità per il condannato di accedere a benefici più pregnanti sotto il profilo rieducativo.

1.2. L’intervento soppressivo del comma 2 bis, art. 677 c.p.p.

In tema di modifiche procedurali sul codice di rito processuale, sembra, inoltre, opportuna la soppressione dell’ipotesi di inammissibilità prevista dal comma 2 bis, art. 677

c.p.p., introdotto dall’art. 9, d.l. n. 374/2001.

La proposta intende – anche nella prospettiva di favorire un più agevole accesso alle misure alternative alla detenzione - eliminare la previsione della sanzione di inammissibilità della domanda di misura alternativa alla detenzione per la mancata dichiarazione o elezione di domicilio da parte del condannato libero.

Premessa, infatti, la indubbia necessità della dichiarazione o elezione suddetta ai fini della concreta applicabilità della misura alternativa, la sanzione di inammissibilità della domanda pare eccessiva, perché nell’esperienza applicativa è comune il dato per cui l’omissione di tale indicazione per la scarsa dimestichezza con la normativa (l’istanza può essere infatti presentata anche personalmente) o per una lettura rigidamente formalistica del giudice può determinare l’ingresso in carcere – a motivo dell’inammissibilità in questione – di molti condannati che pure dispongono di un idoneo domicilio, e sui quali cala invece l’effetto “ghigliottina” (soprattutto nel caso di domande presentate da soggetti marginali o poco assistiti).

Sul piano della modifica normativa, si propone, pertanto, un intervento di soppressione delle parole “a pena di inammissibilità” contenute nel comma 2 bis, art. 677 c.p.p.

1.3. La rimodulazione delle competenze in materia di imputati detenuti.

Una più incisiva portata riformatrice potrebbe, infine, conseguire alla integrazione della delega nei termini che si sono proposti (v. supra par. 1), in una prospettiva di razionalizzazione delle competenze in materia di esecuzione penale e penitenziaria.

Qualora si ritenesse di percorre questa ampliata direttrice di intervento, è opportuno riflettere sulla possibilità di semplificare l’attuale ripartizione delle competenze tra magistratura giudicante e magistratura di sorveglianza con riguardo alla gestione penitenziaria degli imputati detenuti, attribuendo - secondo un criterio di distribuzione della competenza ispirato al razionale criterio della conoscenza del processo e della materiale disponibilità di relativi atti e documenti – al giudice che

procede nel merito le materie dei ricoveri in luogo esterno di cura (art. 11, comma 1, ord.

penit.), dei colloqui (art.18 ord. penit. e art.37 d.p.r. n.230/2000), della corrispondenza

epistolare o telegrafica (art.18-ter ord. penit. e art. 38 d.p.r. n.230/2000), della corrispondenza telefonica (art. 39 d.p.r. n. 230/2000) nei casi di soggetti imputati detenuti in forza di titolo cautelare.

La suggerita modifica, oltre che a criteri di razionalità, sembra rispondere meglio dell’attuale sistema alle esigenze preventive del caso concreto che - soprattutto con riguardo a imputati per particolari delitti (es. criminalità organizzata) - sono certamente meglio conosciute dal giudice procedente che dal magistrato di sorveglianza dell’istituto presso il quale il soggetto sia temporaneamente ristretto in misura cautelare.

1.4. La competenza in materia di applicazione dell’esecuzione domiciliare (l. n. 199/2010).

In un’ottica di semplificazione dei passaggi procedimentali e agevolatrice della deflazione carceraria, che tenga conto in modo equilibrato delle esigenze preventive e di quelle connesse all’opportunità di evitare, per quanto possibile, detenzioni inopportune o il protrarsi delle medesime, potrebbe ipotizzarsi l’attribuzione della

competenza ai fini dell’applicazione dell’esecuzione domiciliare di cui all’art. 1 della l. 199/2010 al giudice del merito, che vi potrebbe provvedere con la sentenza di condanna ovvero di

applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

La proposta sembra, invero, coerente non solo con le finalità di razionalizzazione sopra accennate, ma anche con la natura del beneficio de quo, estraneo alla logica incentrata sul binomio meritevolezza/rieducazione del reo propria delle misure alternative alla detenzione, la cui concessione dipende, sostanzialmente, dal positivo riscontro dei presupposti di legge concernenti i limiti di pena, il titolo di reato ed altre condizioni soggettive (elementi tutti prontamente conoscibili dal giudice

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della cognizione), oltre alla verifica sull’idoneità del domicilio che può agevolmente essere verificata dalla polizia giudiziaria o dallo stesso UEPE.

Contributo di

Carlo Fiorio

Straordinario di Diritto processuale penale Università degli Studi di Perugia

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo –– 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio. Un cambio di prospettiva: verso la ridefinizione della competenza del magistrato di sorveglianza?

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo.

A “naturale” completamento di quella controtendenza legislativa, caratterizzata dall’«abbandono della giurisdizionalità “necessaria” a favore di quella “eventuale” e “posticipata”»1, il punto di delega in commento imporrebbe di proseguire nel

cammino, intrapreso dalla Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione e sostanzialmente recepito dal d.l. n. 146 del 2013, di intervento sulla disciplina del procedimento di sorveglianza, «riservando la procedura a maggiore tasso di giurisdizionalità alle materie per le quali si procede con le più garantite forme di cui all’art. 666 c.p.p. (poiché involgenti più direttamente profili afferenti a diritti fondamentali, quali la libertà personale) ed estendendo alle materia di competenza del magistrato di sorveglianza la più snella e semplificata procedura camerale»2.

Con riferimento alla competenza dell'organo collegiale, gli spazi di intervento risultano, però, obbligati e i ”costi” di un'eventuale operazione legislativa appaiono superiori ai benefici. Fermo il divieto di incidere sulle «procedure […] relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione», gli unici procedimenti suscettibili di “semplificazione” sembrerebbero essere quelli di concessione delle misure alternative alla detenzione, nonché di rinvio, obbligatorio e facoltativo, dell'esecuzione.

Trattasi, però, di àmbiti in cui il contraddittorio “preventivo” costituisce – a parere di chi scrive – una garanzia ineliminabile, anche in considerazione dell’apporto dei giudici “esperti”, il ruolo dei quali perderebbe di significato, se svincolato dal contatto diretto con l’interessato.

Con riferimento, invece, alla competenza del magistrato di sorveglianza, se pare da escludere, in ragione della complessità dell’accertamento, l'operatività del procedimento de plano in riferimento ai procedimenti di riesame della pericolosità; di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca di misure di sicurezza; e di ricoveri

ex art. 148 c.p., lo stesso non è a dirsi con riguardo alle dichiarazioni di abitualità o

1 Così Ruaro, Art. 678, in Conso-Illuminati, Commentario breve al codice di procedura penale, 2° ed.,

Padova, 2015, 2989.

2 Così la Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla

CARLO FIORIO

professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, relativamente alle quali la discrezionalità del giudice potrebbe prescindere dal previo contraddittorio.

Il settore, invece, in cui potrebbe rivelarsi efficace ed opportuno un intervento di semplificazione è quello della liberazione anticipata. Nello specifico, oltre a prevedersi espressamente un'iniziativa officiosa per la concessione del beneficio3,

potrebbe essere soppressa la previsione dell’obbligatoria richiesta del parere al pubblico ministero, al quale residuerebbe comunque il potere di reclamo4.

Alla luce delle rilevanti interpolazioni operate dal d.l. n. 146 del 2013, l'utilità marginale dell'intervento si rivela comunque talmente scarsa, da far pensare che il criterio di delega fosse stato elaborato prima della “triade” post-Torreggiani5.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio. Un cambio di prospettiva: verso la

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