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Modifica della formulazione del criterio direttivo Rilievi critici.

Il fulcro del criterio direttivo è rappresentato dal riferimento alla semplificazione, la cui valenza viene poi esplicitata nell’inciso che contempla la previsione di un modulo basato sul contraddittorio eventuale e differito. Così formulata, la direttiva, sotto diversi profili, risulta poco coerente con l’obiettivo dichiarato nella relazione che accompagna il disegno di legge, cioè quello di restituire coerenza e organicità alla disciplina di ordinamento penitenziario. Se, in termini generali, il messaggio che rischia di essere veicolato è quello di un favore per procedure quasi amorfe e dai contorni vaghi, più nello specifico viene del tutto obliterata una fondamentale esigenza sistematica: quella di razionalizzare il quadro normativo.

Si potrebbe obiettare che la semplificazione identifichi un concetto funzionale proprio a riordinare in modo organico la materia. L’assunto è in parte vero ma, se il discorso è impostato secondo questa chiave (che – va ribadito – allo stato la direttiva non recepisce), allora cambia radicalmente la prospettiva metodologica. A segnare la meta da raggiungere non può essere lo scopo di snellire le forme, ma quello – ben diverso – di ricondurre ad unità i moduli procedimentali.

Oggi questi ultimi, per effetto di plurime stratificazioni normative, compongono una sorta di galassia, al cui interno è arduo districarsi: persino farne il catalogo è opera piuttosto faticosa. L’impegno, se vogliamo la sfida, del legislatore deve essere rivolto all’individuazione di pochi e ben definiti modelli procedimentali, intorno ai quali poi costruire un impianto solido e lineare che prenda il posto dell’attuale ginepraio.

Rispetto a tale disegno la formulazione della direttiva è assolutamente inadeguata: è necessario un sforzo analitico, che permetta di “scioglierla”, di svilupparla in una serie di parametri e vincoli per il legislatore delegato.

Comunque, è solo nell’ottica evidenziata che ha senso interrogarsi sulla possibilità di declinare il contraddittorio e quindi il tasso di dialetticità delle diverse procedure.

Da questo angolo visuale, emerge un ulteriore deficit strutturale della direttiva. Finisce per smarrirsi l’importanza del nesso logico che sussiste tra la “posta in gioco”

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(cioè il tipo di decisione che il giudice è chiamato a prendere) e la fisionomia del relativo procedimento.

Il tema delle forme, infatti, non può essere affrontato in modo autonomo e sganciato da quello che attiene al riparto di competenze tra magistrato e tribunale di sorveglianza. In tal senso, occorre individuare la bussola, cioè stabilire il criterio guida che deve orientare le scelte del legislatore; e, nelle dinamiche tra delega e successiva fase di attuazione, a farlo deve essere la prima. Non è un compito agevole; al tempo stesso, però, appare ineludibile.

In parallelo vanno messi a fuoco - come traspare dalla direttiva in cantiere - il cuore del problema sta nel mettere a fuoco gli equilibri tra il paradigma a contraddittorio indefettibile e quello a contraddittorio solo eventuale, con conseguente delimitazione dei relativi ambiti di operatività.

Non vi è dubbio che del ricorso alla procedura semplificata la delega consentirebbe un significativo ampliamento, nella misura in cui la riferisce in termini generali alle decisioni anche del tribunale di sorveglianza, comprese pertanto quelle in tema di concessione delle misure alternative, fatta eccezione per i casi di revoca delle stesse.

In linea di principio, sarebbe irragionevole negare alla procedura semplificata diritto di cittadinanza nell’universo dell’ordinamento penitenziario. Chiarito, dunque, che la previsione di un modulo a cadenze contratte è necessaria, il punto cruciale consiste nel circoscriverne la sfera applicativa.

Importanti indicazioni al riguardo provengono dalla Corte costituzionale, che in due occasioni1 ha dichiarato infondate le censure mosse all’art. 69-bis ord. penit., il

quale – come noto – in materia di liberazione anticipata prevede una decisione assunta dal magistrato di sorveglianza secondo forme non partecipate ma poi suscettibile di reclamo davanti al tribunale. Si tratta di un “classico” modulo a struttura bifasica: all’esito del primo step – che ha natura solo cartolare – il magistrato emette un provvedimento avverso il quale le parti sono legittimate a presentare reclamo al tribunale, che nel caso deve seguire lo schema dell’678 c.p.p., idoneo a permettere il recupero delle garanzie in precedenza perse.

Tra gli argomenti spesi dalla Corte, che ha ritenuto tale procedura compatibile con una serie di princìpi costituzionali, due in particolare vanno richiamati. Il primo è che la portata dell’art. 24 comma 2 Cost. è flessibile e a maggior ragione deve esserlo con riguardo a quei procedimenti in cui il giudice è chiamato ad esprimersi su una domanda presentata dalla stessa parte (e per di più con esiti nella quasi totalità dei casi favorevoli al richiedente) del cui diritto di difesa si discute in termini di effettiva tutela. Il secondo rilievo è volto ad evidenziare come la scelta di una procedura a contraddittorio differito ed eventuale si giustifichi alla luce delle peculiarità che caratterizzano l’istituto della liberazione anticipata. Osserva a questo riguardo la Corte come tale beneficio si differenzi sul piano ontologico dal complesso delle misure alternative alla detenzione: se concesso, comporta in via premiale una mera riduzione quantitativa della pena, che risulta estranea al novero degli interventi modificatrici

dello status detentivo. S’incide sul quantum della pena ma non sulla “qualità” della stessa, perché non viene disposto un regime alternativo a quello carcerario.

Ora, è vero che dal primo assunto potrebbero ricavarsi elementi a sostegno dell’opzione – recepita dalla direttiva – di fare dei soli provvedimenti di revoca delle misure alternative una sorta di enclave a contraddittorio indefettibile; è l’altro passaggio argomentativo, però, a porre un paletto difficilmente aggirabile sulla strada della procedura semplificata per le decisioni in materia di concessione delle misure alternative.

Infatti, se ad essere in discussione sono le modalità qualitative della pena con l’indispensabile bagaglio di valutazioni riguardanti la persona del condannato, allora non può farsi a meno di una delibazione che vada oltre quella meramente cartolare2

del tribunale di sorveglianza e della diversità di saperi che lo caratterizzano.

Se queste devono essere le coordinate di riferimento, sul piano tecnico bisogna poi delineare e costruire i diversi modelli, evitando – su questo aspetto è opportuno insistere – quelle incongrue asimmetrie che oggi segnano il contesto normativo.

Alcuni esempi possono essere utili a chiarire il concetto. Oggi abbiamo procedure che sono scandite da cadenze differenti sebbene la “posta in gioco” sia nella sostanza la medesima. Ne deriva un quadro in cui i diversi schemi procedimentali occupano aree comuni ma sfalsate: la rispettiva disciplina ha un nucleo comune ma alle “estremità” presenta dei profili di specialità.

L’art. 51-bis ord. penit. regola l’ipotesi in cui sopravvengano nuovi titoli esecutivi. Se è in corso una misura alternativa, il magistrato di sorveglianza può disporre che la misura cessi con ordinanza reclamabile davanti al tribunale3. L’art. 51- ter ord. penit. prevede che, se il condannato ammesso ad una misura alternativa

incorre in trasgressioni del regime al quale è sottoposto, il magistrato di sorveglianza con decreto motivato sospende la misura e trasmette gli atti al tribunale, che deve decidere entro trenta giorni perché altrimenti il provvedimento interinale adottato dal magistrato perde efficacia.

Nel primo caso, il momento di controllo davanti al tribunale è solo eventuale e rimesso all’iniziativa del soggetto interessato che deve proporre reclamo; nel secondo, invece, la verifica collegiale è obbligatoria e attivata d’ufficio dallo stesso magistrato che invia gli atti al tribunale. Si potrebbe replicare che le due fattispecie non sono perfettamente coincidenti e presentano alcune differenze: ammesso che sia vero, comunque non fino al punto da giustificare scelte così diverse ove si consideri che il tema decisorio è essenzialmente identico, cioè la persistente applicazione o meno di una misura extracarceraria

2 Sempre con riguardo all’art. 69-bis ord. penit., la Consulta, a conferma dell’assenza di un vulnus al

diritto di difesa, ha sottolineato che, «se la legge riconosce al condannato il potere di richiedere (su base argomentativa e documentale) l’applicazione di una determinata misura, essa lo abilita con ciò stesso (in assenza di una esplicita previsione) anche a successive produzioni a sostegno degli argomenti addotti» (ord., 5 dicembre 2003, n. 352).

3 Si deve al d.l. n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014 l’estensione del modulo previsto dall’art.

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Ove si guardi al versante che concerne la tutela dei diritti del detenuto, il panorama appare ancor più frastagliato. Di recente, è stato opportunamente introdotto l’art. 35-bis ord. penit.4, che disciplina il reclamo giurisdizionale. Si tratta di un rimedio

che opera in materia disciplinare nonché di fronte all’inosservanza di disposizioni della legge di ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da cui sia derivato al detenuto un pregiudizio grave attuale all’esercizio dei diritti (art. 69 comma 6 ord. penit.).

L’istituto dell’art. 35-bis ord. penit. convive con quelli omologhi, già contemplati – come noto – dalla legge di ordinamento penitenziario. Un’altra ipotesi di reclamo è prevista dall’art. 14-ter ord. penit. avverso: il provvedimento che disponga o proroghi il regime di sorveglianza particolare dell’art. 14-bis ord. penit.; quello che limiti il diritto del detenuto alla libertà e segretezza della corrispondenza ovvero di ricevere in carcere pubblicazioni a stampa (art. 18-ter comma 6 ord. penit.). Inoltre, è reclamabile il provvedimento che disponga o proroghi il regime del “carcere duro” (art. 41-bis comma 2-quinquies ord. penit.).

Nel sistema, dunque, convivono tre diverse forme di reclamo. E’ per certi versi paradossale che a presentare il più elevato livello di garanzie sia l’articolo 35-bis ord. penit.5, sebbene riguardi anche la tutela di posizioni soggettive il cui peso specifico può

essere anche inferiore a quello dei diritti menomati dai provvedimenti ex art. 18-ter ord. penit. o con i quali si sospendono le regole ordinarie del trattamento.

In un simile contesto, lo sforzo deve tendere ad individuare il paradigma del reclamo giurisdizionale, vale a dire una procedura standard, cui possono fare eco alcu- ni tratti peculiari a seconda dello specifico oggetto6. Al di là di eventuali differenze ri-

guardanti aspetti di contorno, il nucleo e la struttura dell’istituto dovrebbero essere so- stanzialmente i medesimi, perché comunque analoga è la materia: la tutela dei diritti del detenuto.

1.1. Riformulazione del criterio direttivo.

Come già detto, è necessario un sforzo analitico volto a definire un complesso di principi direttivi capaci di vincolare in misura più stringente la discrezionalità del legislatore delegato. In questa direzione si muove la proposta di un testo normativo destinato a sostituire integralmente quello attuale:

4 Ad opera del d.l. n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014.

5 La decisione del magistrato di sorveglianza (che procede secondo le cadenze a contradditorio pieno:

art. 35-bis ord. penit. comma 1) è suscettibile di reclamo al tribunale (comma 4), il quale adotta un’ordinanza soggetta a ricorso per cassazione (comma 4-bis). A presidiare, poi, l’effettività dei provvedimenti emessi è il giudizio di ottemperanza, attivabile dall’interessato (commi 5-8).

6 Per esemplificare, nel caso del reclamo ex articolo 41 bis ord. penit., è opportuno prevedere – come

ora fa il comma 2-sexies – che un rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero titolare delle indagini preliminari ovvero di quello presso il giudice che procede sia legittimato ad intervenire, perché possono emergere profili suscettibili di interferire o comunque avere rilevanza ai fini

a) ripartizione delle competenze tra magistrato e tribunale di sorveglianza con conse- guente razionalizzazione delle procedure per l’adozione delle rispettive decisioni, sulla base dei seguenti criteri direttivi:

1. attribuzione al tribunale di sorveglianza, salva la competenza del magistrato di sorveglianza per l’adozione di provvedimenti provvisori, delle funzioni in materia di misure alternative, liberazione condizionale, rinvio dell’esecuzione nei casi previsti da- gli artt. 146 e 147 c.p., appello nei casi previsti dall’art. 680 c.p.p.;

2. disciplina del procedimento in camera di consiglio, con facoltà dell’interessato di chiedere che si proceda in udienza pubblica, per l’adozione delle decisioni di compe- tenza del tribunale di sorveglianza ad esclusione dei casi di dubbio sull’identità fisica del condannato, secondo i principi del contraddittorio, dell’obbligo di motivazione e della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti;

3. estensione del procedimento di cui al punto 2 ai casi di decisioni del magistrato di sorveglianza in materia di riabilitazione, misure di sicurezza, infermità psichica del condannato nelle ipotesi previste dall’art. 148 c.p., dichiarazione di abitualità o profes- sionalità nel reato ovvero di tendenza a delinquere;

4. previsione di una procedura a contraddittorio differito ed eventuale, articolata nella decisione assunta dal magistrato di sorveglianza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti e nella facoltà delle parti di presentare opposizione decisa dal tribunale di sorveglianza secondo il procedimento di cui al punto 2;

5. disciplina del reclamo giurisdizionale in materia di tutela dei diritti del detenu- to e dell’internato, compresi i casi di limitazioni all’applicazione delle regole di tratta- mento o di sospensione delle stesse, secondo i principi del contraddittorio, del riesame anche nel merito dei provvedimenti oggetto di reclamo, dell’obbligo di motivazione, dell’effettività dei provvedimenti adottati e della ricorribilità per cassazione degli stes- si.

1.2. La fisionomia delle competenze e delle relative procedure.

La premessa metodologica da cui partire è quella di saldare la disciplina delle procedure al tema del riparto di competenze tra magistrato e tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo versante assume rilievo pregiudiziale rispetto al disegno di un’organica riforma dei moduli procedimentali.

In tale ottica, la scelta trasfusa nel punto 1 della direttiva qui suggerita si fonda sull’elencazione tassativa delle materie da affidare al tribunale di sorveglianza, con l’effetto di configurare in capo al magistrato una competenza di risulta. Le funzioni esclusive del tribunale sono individuate sulla base di connotati che postulano: l’esame della personalità del condannato, con ricadute sulla “qualità” della pena (misure alternative; liberazione condizionale) ovvero sui tempi dell’esecuzione (rinvio nei casi degli artt. 146 e 147 c.p.); un controllo sulla compressione della libertà per effetto di una misura di sicurezza (appello ex art. 680 c.p.p.).

E’ utile sottolineare che, nel campo delle misure alternative, la competenza del tribunale s’intende onnicomprensiva: dai provvedimenti di concessione a quelli di

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revoca, fino – nel caso dell’affidamento ai servizi sociali – al giudizio sull’esito della prova. L’identità della “posta in gioco” non lascia spazio a soluzioni diversificate.

In chiave derogatoria rispetto a tale schema operativo, è prevista l’attribuzione al magistrato di sorveglianza del compito di adottare decisioni urgenti7 e internali,

comunque da sottoporre al successivo e indispensabile vaglio del tribunale.

Una volta delineato nei termini sopra chiariti il quadro delle competenze, deve essere rivisto l’assetto delle procedure. In questo ambito, gli obiettivi di razionalizzazione sono perseguiti sulla base di una logica binaria, che si traduce nella previsione di due soli paradigmi: uno a contraddittorio indefettibile (punto 2); l’altro a contraddittorio eventuale e differito (punto 4).

In via generale, il primo rappresenta il modulo tipico per tutte le decisioni che spettano al tribunale di sorveglianza (punto 2)8; il secondo identifica la regola per

l’adozione dei provvedimenti che sono di competenza del magistrato. Su quest’ultimo versante, sono tuttavia isolate delle ipotesi eccezionali nelle quali il magistrato deve osservare le forme più garantite. L’ampiezza contenutistica di tale “finestra” è determinata in virtù della particolare rilevanza e complessità del thema decidendum (punto 3)9.

L’ultimo criterio direttivo (punto 5) mira a consentire la riduzione ad unità delle diverse forme di reclamo oggi previste. La ratio è quella di equiparare, sul piano dei rimedi, l’area multiforme della tutela dei diritti e quella settoriale delle limitazioni alle regole ordinarie del trattamento ovvero di sospensione delle stesse.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

Alla luce dei tratti essenziali che devono caratterizzarlo (punto 2), il procedimento tipico di sorveglianza si colloca nel solco tracciato dagli artt. 666 e 678 c.p.p.

E’, tuttavia, doveroso recepire il dictum della pronuncia che, di recente, ha dichiarato in parte qua illegittima l’attuale disciplina: all’interessato deve essere riconosciuta la facoltà di chiedere che vengano osservate le forme dell’udienza pubblica10.

7 Si tratta delle fattispecie che, allo stato, trovano la relativa disciplina negli artt. 47 comma 4, 47-ter

comma 1-quater e 50 comma 6 ord. penit.; 684 comma 2 c.p.p.; 51-bis e 51-ter ord. penit.

8 Ad esclusione dei casi di dubbio sull’identità fisica della persona: in questa peculiare ipotesi può

farsi ricorso a una decisione assunta de plano.

9 Sulla scorta di tale premesse, si potrebbe obiettare che le materie in questione, a ben vedere,

dovrebbero essere assegnate alla competenza del tribunale di sorveglianza (per la riabilitazione come oggi previsto dall’art. 683 c.p.p.). Queste le repliche: per le misure di sicurezza, il tribunale è competente in grado d’appello (art. 680 c.p.p.); in una prospettiva analoga, in tema di accertamento dell’infermità psichica ex art. 148 c.p., al tribunale si attribuisce il ruolo di giudice di “seconda istanza”; nei casi della riabilitazione e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato ovvero di tendenza a delinquere, è vero che rilevano valutazioni sulla persona ma l’esito non è suscettibile di determinare conseguenze dirette sulla “qualità” della pena.

La procedura semplificata si connota per una struttura bifasica che ricalca quella dell’art. 69-bis ord. penit.: il magistrato di sorveglianza adotta, secondo modalità non partecipate, un’ordinanza avverso la quale i destinatari sono legittimati a presentare opposizione al tribunale, che nel caso deve seguire lo schema tipico, idoneo a favorire il recupero delle garanzie in precedenza perse (punto 4).

Simile articolazione viene preferita a quella che, oggi, descrive l’art. 667 comma 4 c.p.p. In base a quest’ultimo, la decisione viene assunta de plano dal magistrato di sorveglianza ed è opponibile davanti allo stesso giudice11. Sebbene le materie da

trattare in ossequio ad un modulo snello possano considerarsi d’importanza secondaria, appare comunque opportuno garantire la diversità strutturale dell’organo suscettibile di essere adito in seconda battuta.

Si ritiene utile, inoltre, l’espresso richiamo, per la fase che si svolge davanti al magistrato, alla «camera di consiglio». Viene così sottolineata la natura pur sempre triadica dell’iter procedimentale, che ricade nella sfera di applicabilità dell’art. 127 c.p.p.12, sebbene derogato in misura significativa in forza del favore per un

contraddittorio solo cartolare («senza l’intervento delle parti»). All’esplicarsi di quest’ultimo, risulta funzionale, in particolare, il deposito del fascicolo nella cancelleria del giudice, con facoltà delle parti di visionarlo e di estrarne copia13.

Sul versante dei reclami, la recente esperienza normativa da cui è scaturito l’art. 35-bis ord. penit. può fungere da termine di riferimento. Nell’ottica di un’estensione di tale paradigma all’area dei provvedimenti che, a vario titolo, incidono sulle regole ordinarie del trattamento penitenziario14, due aspetti meritano di essere sottolineati.

Uno è quello dell’effettività della tutela che venga accordata al detenuto15; l’altro rinvia

in quanto suscettibile di abbracciare ogni «procedimento all’esito del quale il giudice è chiamato ad

esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su un bene primario dell’individuo, costituzionalmente tutelato, quale la libertà personale».

11 L’art. 678 comma 1-bis ord. penit., inserito dal d.l. n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014,

stabilisce che la procedura de plano è osservata: dal magistrato di sorveglianza nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito, all’esecuzione delle semidetenzione e della libertà controllata; dal tribunale nelle materie relative alla richiesta di riabilitazione ed alla valutazione sull’esito, anche in casi particolari, dell’affidamento in prova.

12 Ad avviso di Cass., Sez. un., 28 maggio 2003, Di Filippo, in Cass. pen., 2003, 2978, «[…] quando nella

disposizione di specie si preved[e] che la decisione del giudice debba essere emessa “in camera di consiglio” (secondo l’incipit del primo comma dell’art. 127 c.p.p.) e non sia diversamente stabilito, trovano applicazione per relationem la procedura e le forme di base stabilite dall’art. 127 c.p.p.».

13 In questo senso, si è espressa Corte cost., ord. 13 dicembre 2000, n. 558, che ha dichiarato non

fondata – in quanto basata su un erroneo presupposto interpretativo – la questione di legittimità dell’art. 127 c.p.p. nella parte in cui non avrebbe previsto il deposito degli atti trasmessi dal pubblico ministero al giudice ai fini della decisione.

14 In particolare, possono menzionarsi: il provvedimento che disponga o proroghi il regime di

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