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Modifica della formulazione del criterio direttivo: la necessità di estendere la delega alla disciplina dell’ordine di esecuzione (art 656 c.p.p.).

con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse;

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo: la necessità di estendere la delega alla disciplina dell’ordine di esecuzione (art 656 c.p.p.).

Il criterio direttivo legittima il legislatore delegato a ridisegnare l’ambito di ope- ratività delle misure alternative, nell’ottica di favorire il ricorso alle stesse.

Si suggerisce di menzionare, oltre ai presupposti, anche le modalità di accesso alla misure alternative, per cui l’incipit della direttiva diventerebbe «revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative». Questa piccola interpo- lazione avrebbe l’importante effetto di fugare ogni dubbio sull’estensione della delega, tale da coprire anche la disciplina dell’ordine di esecuzione regolato dall’art. 656 c.p.p.

Nelle dinamiche applicative dei benefici penitenziari uno snodo fondamentale è rappresentato proprio dall'ordine di esecuzione. Come noto, nel caso di pene detentive brevi, l’ordine è contestualmente sospeso dal pubblico ministero e diventa una sorta di metronomo, perché detta i tempi di accesso alle misure extracarcerarie. Questo nesso funzionale tra ordine di esecuzione e fruibilità delle misure alternative si smarrisce nell’attuale testo della direttiva.

Eppure le distonie – determinate da un difetto di coordinamento – e le ricadute negative sul piano dell’applicabilità delle misure alternative sono oggi sotto gli occhi degli interpreti e degli operatori del diritto.

Secondo l’attuale disciplina dell’art. 656 comma 5 c.p.p., il pubblico ministero sospende l’ordine se la pena detentiva da scontare non supera tre anni ovvero quattro nei casi di detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter comma 1 ord. penit. 1.

Due i principali inconvenienti che derivano da questa disciplina. Il primo ha o- rigini lontane: nell’estendere il meccanismo sospensivo ai casi di detenzione domicilia- re “ordinaria”, il legislatore del 20132 ha colmato una lacuna da più parti denunciata.

Tuttavia, resta problematica la conoscenza in capo al pubblico ministero delle condi- zioni soggettive tali da integrare le ipotesi dell’art. 47-ter comma 1 ord. penit. Come noto, si tratta di fattispecie peculiari, ritagliate sul particolare status in cui versa il con- dannato3: manca un canale di raccordo che consenta al pubblico ministero di accertare

1 Il limite è di sei anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. 2 Il riferimento è al d.l. n. 78 del 2013, conv. in legge n. 94 del 2013.

3 Vale a dire: a) donna incinta o madre di prole di età inferiore a dieci anni, con lei convivente; b)

la sussistenza di una situazione soggettiva rilevante ai fini dell’art. 47-ter comma 1 ord. penit.

Ma è soprattutto il secondo profilo di criticità a rivelarsi foriero di aporie siste- matiche. Dopo la recente modifica4, pensata in un’ottica di deflazione carceraria,

l’affidamento in prova è concedibile senza necessità di un’osservazione intramuraria per le pene detentive fino a quattro anni. Il comma 3-bis dell’art. 47 ord. penit. dispone che l’affidamento in prova possa essere applicato per le pene detentive non superiori a quattro anni qualora nell’anno precedente – trascorso anche in libertà – alla presenta- zione della richiesta il soggetto abbia tenuto un comportamento che permetta di formu- lare, in chiave rieducativa e preventiva, una prognosi favorevole.

Nel complesso, in relazione ai due punti evidenziati, il vizio che affligge l’assetto normativo è chiaro: soggetti che potrebbero essere ammessi ad una misura alternativa dalla libertà si vedono costretti a un transito in carcere per poi chiedere il beneficio dallo status detentivo, nonostante la pena sia considerata breve e quindi ab

origine espiabile extra moenia5.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

Nell’economia della delega, dunque, non può trascurarsi il congegno dell’art. 656 comma 5 c.p.p., spesso dimenticato perché vittima di una collocazione a metà stra- da, in una sorta di limbo: dopo l’irrevocabilità della sentenza, ma troppo presto per es- sere incluso a pieno titolo nelle dinamiche del trattamento penitenziario.

Sebbene tra i due versanti in esame (modalità di accesso alle misure alternative e requisiti applicativi delle stesse) vi è un’autonomia concettuale è indispensabile un approccio che ne favorisca il raccordo.

In chiave metodologica, non avrebbe alcun senso proiettare in avanti, cioè nell’orbita delle condizioni per la fruibilità delle misure extracarcerarie, regole dettate per definire tempi e modi della relativa richiesta. Il ragionamento non vale, però, al contrario. Nell’ottica seguita dall’art. 656 c.p.p., cioè quella di configurare un automati- smo sospensivo temperato da alcune eccezioni, il legislatore non può perdere di vista il piano dei presupposti sostanziali di accesso alle misure alternative; anzi, è quanto mai viva un’esigenza di coordinamento, allo scopo di adeguare gli snodi della procedura esecutiva ai limiti operativi delle diverse misure.

Pertanto, in ossequio a tale schema funzionale, è necessario prima definire qua- le sia la sfera di applicazione delle singole misure extracarcerarie; quindi, in via conse-

da richiedere costante contatto coi presidi sanitari territoriali; d) persona di età superiore a

sessant’anni, se inabile anche parzialmente; e) minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, lavoro, studio o famiglia.

4 Intervenuta con il d.l. n. 146 del 2013, conv. in legge n. 10 del 2014.

5 Pone problemi di coerenza sistematica anche il caso del condannato ultrasettantenne che debba

scontare una pena detentiva non superiore a quattro anni: ove non rientri nelle ipotesi di cui all’art. 47-ter comma 1 lett. c e d, si vede preclusa la possibilità di beneficiare direttamente dalla libertà della detenzione domiciliare prevista dal comma 01 (sempre che il titolo di reato non sia ostativo).

DANIELE VICOLI

guenziale, va individuato il tetto sanzionatorio che regola il meccanismo sospensivo dell’art. 656 c.p.p.

Per esemplificare, nell’attuale scenario, le incongruenze sopra messe in luce verrebbero evitate ove si stabilisse che il pubblico ministero deve sospendere l’ordine di esecuzione quando la pena detentiva da espiare, anche se residuo di maggior pena, non superi quattro anni.

Con ciò, non si vuole dire che quattro sia il “numero magico”, cioè la soglia ide- ale di concedibilità delle misure alternative e, in particolare, dell’affidamento in prova: questa è una valutazione che, nei limiti della ragionevolezza, risponde ad opzioni di politica legislativa. Il punto è un altro: una volta fissata quella soglia, serve coerenza nel modellare i presupposti ai quali viene subordinato l’obbligo del pubblico ministero di sospendere l’ordine ex art. 656 c.p.p. Soprattutto se, come recita la direttiva, l’obiettivo di politica legislativa è quello di facilitare il ricorso alle misure alternative.

L’occasione riformatrice sarebbe propizia anche per rivedere il regime delle ec- cezioni all’obbligo di sospensione. E’ stata abrogata quella riguardante i recidivi cosid- detti reiterati (art. 656 comma 9 lett. c c.p.p.): scelta senza dubbi meritoria nonché salu- tare per i riflessi positivi sul fenomeno del sovraffollamento carcerario. 6

A risultare controversa è la fattispecie derogatoria dell’art. 656 comma 9 lettera

a c.p.p. Nell’ottica qui considerata, a rilevare non è la scelta di richiamare l’art. 4-bis

ord. penit. Il rinvio ai delitti ivi elencati, di per sé, garantisce un rapporto di simmetria tra l’immediata esecutività dell’ordine e quei condannati che, sul piano del trattamento

in executivis, subiscono regole più severe, tali da limitare l’applicabilità delle misure

alternative ovvero giustificarla solo grazie agli esiti dell’osservazione nell’istituto di pena.

Il problema che si vuole evidenziare sta a monte e rimanda al grado di coerenza interna al catalogo normativo: figure criminose diverse, al fine di essere accomunate sono un’unica insegna, devono presentare tratti strutturali omogenei rispetto al para- metro selettivo. Nel caso dell’art. 4-bis ord. pen., ad essere in crisi, per effetto dei conti- nui innesti, è proprio la logica di fondo, che s’ispira – o meglio dovrebbe ispirarsi – alla gravità del fatto quale canone da cui ricavare la presunzione di un autore socialmente pericoloso.

Analogo è il discorso per quanto concerne la menzione, accanto a quelli dell’art. 4-bis ord. penit., di specifici delitti7. Per alcuni di essi (ad esempio l’art. 624-bis c.p.), gli

indici di gravità astratta si rivelano piuttosto deboli: sembra «“agevole” formulare ipo- tesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa»8. La gamma di condotte idonee ad integrare il paradigma legale è molto varia-

bile e possono ricorrere fatti tipici che non denotino una accentuata pericolosità dell’autore. In tal senso, appaiono superati quei confini che delimitano la ragionevolez-

6 Per effetto del d.l. n. 78 del 2013, conv. in legge n. 94 del 2013.

7 Si tratta dell’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.); dei maltrattamenti in famiglia nell’ipotesi dell’art.

572 comma 2 c.p.; dello stalking aggravato ex art. 612-bis c.p.; del furto in abitazione o con strappo (art. 624-bis c.p.).

za delle scelte differenziatrici, che pertanto sembrano scivolare verso i lidi della discri- minazione lesiva dell’art. 3 Cost.

L’assunto, inoltre, si irrobustisce alla luce di un ulteriore dato: in ogni caso, per le ipotesi di reato in esame, le misure non detentive sono fruibili in base alla disciplina ordinaria. Questa sfasatura rafforza i dubbi d’illegittimità: nel tessuto dell’art. 656 comma 5 c.p.p., si apre una breccia alla quale, però, non corrispondono maglie più strette per l’applicazione dei benefici. Così, il piano delle modalità di accesso e quello sostanziale tendono a confondersi, tanto che il risultato sembra essere una surrettizia modifica dei requisiti per la concedibilità delle misure alternative: sulla carta ‘ordinari’, ma – di fatto – più stringenti.

Per queste ragioni, l’ampiezza della deroga all’obbligo di sospendere l’ordine di esecuzione dovrebbe ricalcare i confini dell’art. 4-bis ord. pen.9, a sua volta da riscrivere

in chiave razionalizzatrice per restituirgli una rinnovata organicità.

9 Tenendo ferma la fattispecie del soggetto che, quando la sentenza diviene irrevocabile, si trovi in

custodia cautelare per il reato in ordine al quale è intervenuta la condanna (art. 656 comma 9 lett. b c.p.p.). Tale condizione non determina, di per sé, requisiti più stringenti rispetto a quelli ordinari che governano l’accesso ai vari benefici del sistema penitenziario. Eppure, non vi possono essere dubbi sulla congruenza dell’indice prescelto dal legislatore per giustificare la deviazione dalla regola: il giudizio in chiave di pericolosità ha basi solide. Il persistere, fino al termine della fase cognitiva e nel massimo grado, delle esigenze cautelari riflette un periculum ancorato alla libertà della persona e superabile solo grazie ai risultati dell’osservazione intramuraria. Non solo, quindi, il parametro è ragionevole, ma sembra anche attenuarsi di molto la matrice presuntiva che, comunque, permea la disposizione derogatoria.

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