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Per una revisione dell’affidamento in prova ai servizi sociali Le motivazioni della proposta.

con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse;

2. Per una revisione dell’affidamento in prova ai servizi sociali Le motivazioni della proposta.

La proposta intende fornire alcune coordinate per una rivisitazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali, istituto cardine della legge di ordinamento penitenziario e misura alternativa per eccellenza. La disciplina di cui all’art. 47 ord. pen. ha subito negli anni una nutrita serie di trasformazioni tese a facilitare l’accesso a questa modalità alternativa di espiazione della pena e ad ampliarne la rosa dei possibili fruitori. Le numerose manipolazioni legislative hanno condotto a profondi mutamenti nella natura dello strumento, rendendo non del tutto limpidi taluni tratti della sua fisionomia. Le direttive suggerite sono orientate a eliminare alcune incongruenze delle attuali previsioni, nell’ottica di favorire ulteriormente la concessione della misura mediante un ritocco dei suoi presupposti, dei suoi contenuti e degli interventi di sostegno e controllo che ne accompagnano l’esecuzione.

Si ritiene infatti che la progressiva estensione dei potenziali destinatari dell’affidamento in prova sia da incentivare, al fine di ridurre le presenze in carcere e potenziare le opportunità di esecuzione penale esterna; ma sia al contempo da abbinare a garanzie di affidabilità e tenuta dello strumento alternativo, che non deve tramutarsi di fatto in una sorta di sospensione condizionata della pena.

A rendere maggiormente accessibile la misura in esame hanno, come noto, contribuito l’innalzamento ex lege delle soglie di pena che consentono di avanzare l’istanza di concessione; gli approdi interpretativi – del tutto consolidati – sulla necessità di considerare il limite di legge come riferito alla sanzione in concreto da espiare (tenuto conto dello scomputo dei periodi di custodia cautelare sofferta, di eventuali provvedimenti clemenziali, di pene fungibili), nonché la possibilità di riconoscere anche agli affidati in prova il beneficio della liberazione anticipata1. È

inoltre da condividere appieno l’intento legislativo di superare il rigido sistema di preclusioni fondate su reati ostativi o comportamenti recidivanti (art. 26 co. 1 lett. c della proposta di delega), in grado di estendere ancora la platea dei potenziali destinatari.

1 Sia durante l’esecuzione della misura, per premiare i progressi nel trattamento (art. 47 co. 12 bis,

introdotto dalla l. 277/2002), sia in un momento antecedente la concessione, quando il condannato abbia in precedenza scontato periodi in custodia cautelare o espiato pene fungibili (art. 47 co. 4 bis, aggiunto dalla l. 94/2013).

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A questi interventi facilitatori, che aprono l’accesso all’affidamento in prova anche ad autori di reati di una certa gravità, vanno accostate una serie di previsioni volte a evitare che la misura perda i suoi connotati di esperimento rieducativo e di esecuzione di una sanzione penale. L’istituto, nella sua concreta attuazione, viene non di rado percepito come insufficientemente afflittivo e con scarsa valenza riabilitativa. A ciò contribuisce la vaghezza della legge circa i presupposti da vagliare ai fini della concessione del beneficio; una gamma di prescrizioni calibrate su determinate tipologie delinquenziali, e inadatte a sanzionarne altre; un sistema di controlli giudicato dagli stessi operatori del settore inefficiente, che finisce per far evaporare gli (ineliminabili) aspetti contenitivi della misura.

La proposta che segue intende perciò coniugare l’allargamento astratto dei possibili beneficiari da un lato con integrazioni relative agli elementi valutabili nel giudizio di sorveglianza; dall’altro con modalità di espiazione più rigorose, tanto sul piano delle prescrizioni da impartire che dei controlli esperibili, capaci di rassicurare sulla efficacia special-preventiva dell’affidamento in prova. Intervenire efficacemente su questi profili dovrebbe comportare, quale effetto indotto, una maggiore propensione della magistratura di sorveglianza a concedere la misura, a cui talora viene preferito il carcere proprio per la consapevolezza dei punti deboli dell’istituto; e potrebbe rappresentare il presupposto per successivi, ulteriori allargamenti delle sue potenzialità.

2.1. L’innalzamento generalizzato dei limiti di pena che consentono l’accesso all’affidamento in prova.

Il limite di pena richiesto per poter richiedere la misura alternativa si è negli anni progressivamente elevato: dall’originario tetto di due anni e mezzo, si è passati ai tre anni previsti dalla l. 663/1986, sino all’innalzamento a quattro introdotto, seppur non via generalizzata, dal recente d.l. 146/2013 conv. in l. 10/2014.

L’ultimo intervento normativo, invece che operare una scelta netta a favore dell’ampliamento dei possibili beneficiari dell’affidamento in prova, ha introdotto una cautela valutativa: se la pena da espiare in concreto ammonta a quattro anni, il comportamento del condannato deve essere vagliato considerando quantomeno l’anno precedente la sua richiesta (art. 47 co. 3 bis ord. pen.). Il giudizio sull’idoneità delle prescrizioni a facilitare il percorso rieducativo e sulla loro efficacia ai fini del contenimento del rischio di recidiva (art. 47 co. 2 e 3 ord. pen.) dovrebbe così, nell’intenzione della legge, risultare maggiormente approfondito e rassicurare sulla serietà dell’accertamento.

Il meccanismo presenta tuttavia incongruenze e ambiguità.

Anzitutto sono le previsioni generali dedicate ai limiti di pena fissati per l’affidamento a non chiarire quale sia il tempo di osservazione cui il condannato debba soggiacere in libertà. L’art. 47 co. 1 ord. pen. prescrive solo una soglia mensile per lo scrutinio da effettuare nell’istituto penitenziario, ma non fornisce indicazioni precise circa l’ipotesi più frequente, quella in cui la misura venga concessa senza assaggio di

carcere. In questo caso, il termine di osservazione è elasticamente ricompreso fra la commissione del reato e il momento della richiesta della misura (art. 47 co. 3 ord. pen.), arco temporale che nella più parte dei casi supera l’anno prescritto dalla recente previsione speciale. Periodi più brevi sono ipotizzabili solo nei casi di giudizi svoltisi con estrema celerità (come ad es. nelle ipotesi di arresto in flagranza seguito da rito direttissimo il cui esito non venga impugnato, o di patteggiamento richiesto e accolto in fasi precoci del procedimento). La disposizione sembra insomma premiare, nella sua attuale configurazione, le lungaggini processuali, che finiscono per avere l’effetto indiretto di consentire, ex post, osservazioni più prolungate – e dunque più affidabili – del comportamento del reo.

D’altra parte, se il tempo di osservazione può avere un’incidenza sulla qualità del giudizio prognostico di cui si anima l’affidamento, a rilevare maggiormente dovrebbero piuttosto essere gli elementi comportamentali di cui tener conto, profilo sul quale la legge trascura di fornire qualunque indicazione. Mentre l’originario assetto dell’istituto individuava nell’indispensabile osservazione scientifica della personalità da condurre collegialmente in istituto la base su cui formulare le previsioni sull’efficacia rieducativa dello strumento (art. 47 co. 2 ord. pen.), da quando l’ipotesi è divenuta un’eccezione la lacuna normativa s’avverte come maggiormente problematica. Poiché nel corso del procedimento penale è bandita ogni perizia sulla personalità indipendente da cause patologiche (art. 220 co. 2 c.p.p.), la prognosi di idoneità delle prescrizioni tende a fondarsi in prevalenza su dati esteriori2, attualmente

indeterminati e lasciati alla oscillante creazione giurisprudenziale.

Si suggerisce pertanto in primo luogo di uniformare i limiti di pena dell’affidamento in prova, portandoli in tutti i casi alla soglia di quattro anni e di concentrare l’attenzione legislativa più che sui tempi di osservazione, sulle informazioni da utilizzare per esprimere un giudizio favorevole3.

L’estensione del più elevato tetto di pena a tutte le ipotesi di affidamento appare in linea con l’esigenza di facilitare il più possibile l’esecuzione penale all’esterno del carcere, anche in ottemperanza ai moniti della Corte europea per i diritti dell’uomo4. È poi dato acquisito che il mancato contatto con il carcere dispieghi

benefici effetti sui rischi di recidiva. L’innalzamento indifferenziato del limite di pena permetterebbe inoltre di sanare alcune discrasie normative.

L’art. 656 co. 5 c.p.p. tralascia attualmente di considerare che all’affidamento in prova il condannato può aspirare a partire da due differenti soglie di pena (tre anni in via generale e quattro anni in caso di valutazione “prolungata” del comportamento). Quando la pena in concreto da espiare supera i tre anni, ma è contenuta entro il limite di quattro, i potenziali beneficiari della misura sono esclusi dal meccanismo sospensivo. La norma andrebbe opportunamente corretta elevando il limite di pena che impone la sospensione d’ufficio dell’ordine di esecuzione a quattro anni5, tetto che

consentirebbe di ricomprendere le misure dell’affidamento in prova riformato, della

2 V. infra, § 2.2.1. 3 V. infra, § 2.2.

4 Sentenza Torreggiani c. Italia (2013), in particolare § 94. 5 V. infra, § 4. 1.

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detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter co. 1 e 1 bis ord. pen.6 ed eventualmente,

secondo i criteri qui suggeriti, anche delle misure concepite per i tossicodipendenti7.

L’uniformità delle soglie di accesso alle misure fruibili senza assaggio di carcere renderebbe il sistema dotato di maggiore coerenza, grazie all’individuazione di un comune limite astrattamente idoneo a segnare una preferenza normativa per l’esecuzione penale esterna. Una misura unica faciliterebbe al contempo gli automatismi sospensivi volti ad evitare inutili transiti negli istituti di pena. Il pubblico ministero dovrebbe infatti limitarsi a verificare il quantum di detenzione da espiare in concreto, senza soffermarsi su ulteriori requisiti soggettivi non agevolmente scrutinabili in questa fase preliminare e sulla sola base dei dati offerti dalla sentenza definitiva8.

2.2. L’individuazione dei comportamenti valutabili al fine della concessione della misura e l’indispensabile osservazione “esterna” della personalità.

L’ampliamento dei limiti di pena che consentono l’accesso all’affidamento in prova, cui dovrebbe auspicabilmente affiancarsi una caduta dei meccanismi preclusivi (art. 26 co. 1 lett. c della delega), andrebbe bilanciato con opportune integrazioni sul piano dei presupposti soggettivi che il tribunale di sorveglianza è chiamato a verificare in sede di giudizio sulla richiesta della misura.

La legge, a causa delle trasformazioni progressivamente subite dall’istituto, risulta sul punto del tutto lacunosa.

L’art. 47 co. 2 ord. pen. indicherebbe nei risultati dell’osservazione scientifica della personalità, condotta in istituto ad opera di un collegio di esperti, il fondamento conoscitivo sulla cui scorta stabilire se il provvedimento di concessione possa contribuire alla rieducazione del reo e assicurare la prevenzione dal pericolo di commissione di ulteriori reati. L’ipotesi, come noto, è divenuta residuale da quando, opportunamente, la misura può essere concessa senza passare per uno stato detentivo9.

Tuttavia, per questi casi maggiormente frequenti, la legge si limita a prevedere, laconicamente, che l’affidamento può essere disposto quando «il condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2» art. 47 co. 3 ord. pen.). La previsione, criptica, tradisce le difficoltà di fornire una solida base valutativa in assenza di qualsivoglia indagine sulla personalità ad opera di esperti, preclusa durante il processo e di rado esperita nella fase di passaggio fra l’irrevocabilità della sentenza e l’effettivo avvio dell’esecuzione.

Il ruolo degli U.E.P.E., pur opportunamente ricalibrato ad opera della legge 154/2005, resta infatti circoscritto, in questo ambito preliminare, all’espletamento di

6 Per un innalzamento del quantum di pena relativo alla detenzione domiciliare, v. infra, § 3.2. 7 V. infra, § 2.5.

8 V. ancora infra, § 4.1.

9 I dati forniti dal Ministero della Giustizia (reperibili in www.giustizia.it) certificano che

indagini socio-familiari (art. 72 co. 2 lett. b ord. pen.), che forniscono informazioni sul contesto esterno, ma non sul foro interno del condannato. L’art. 118 co. 6 del regolamento esecutivo, nel descrivere in dettaglio i compiti dell’ufficio, si limita sul punto a prevedere generici interventi di «osservazione» extra-murari. L’opzione normativa è del resto comprensibile: occorre infatti tener conto delle specifiche professionalità e competenze degli assistenti sociali, attrezzati per compiere esami sull’ambiente di provenienza del condannato (la situazione familiare, lavorativa, abitativa, economica e via dicendo), ma non su profili personologici e criminologici.

È questo uno dei maggiori punti deboli della disciplina dedicata alle misure alternative, che la legge di ordinamento penitenziario prevedeva come applicabili solo previo soggiorno in carcere. Per tale ragione le attività di osservazione della personalità venivano previste in via obbligatoria, e minuziosamente descritte, solo per i condannati presenti in istituto (artt. 13, 63, 80 ord. pen. e artt. 27 e 28 reg. esec.). Le modifiche che nel corso degli anni hanno investito l’originario assetto del sistema, agevolando la fruibilità immediata degli strumenti di espiazione extracarceraria, hanno mancato di adattare alla nuova situazione questo profilo cruciale, deputato a fornire al giudice la base conoscitiva su cui rendere la sua decisione.

Si avverte così uno iato molto profondo fra l’accuratezza delle previsioni dedicate all’osservazione in carcere, che si soffermano sui soggetti coinvolti nella valutazione, sui suoi tempi e sulle sue modalità, e quelle dettate per l’area esterna, pressoché prive di regolamentazione a riguardo.

Per ovviare a questo vuoto di disciplina, i criteri direttivi suggeriti investono il legislatore delegato del compito di determinare con maggiore precisione quali profili debbano essere considerati, e quali di riflesso esclusi, dal tribunale di sorveglianza per determinare se il condannato sia meritevole d’essere messo alla prova. La proposta punta inoltre a predisporre, a questo scopo, una chiara base conoscitiva su cui fondare la prognosi comportamentale, mediante la previsione di una necessaria osservazione della personalità da condurre collegialmente e con l’intervento di esperti all’esterno del carcere.

L’intervento normativo su questi aspetti potrebbe contribuire alla serenità delle valutazioni della magistratura di sorveglianza, rassicurare l’opinione pubblica sulla ponderatezza delle decisioni e sortire positivi riflessi sull’individuazione di un idoneo programma di trattamento extramoenia.

2.2.1. Suggerimenti per l’attuazione dei criteri proposti.

In assenza di una solida base di conoscenze su cui esprimere il giudizio sulla richiesta di affidamento dalla libertà, è la giurisprudenza a farsi interprete della reticente previsione legislativa, individuando una serie di parametri rilevanti ai fini della prognosi di recupero sociale (il lavoro, le pendenze penali, la situazione familiare e sociale, la revisione critica). Gli orientamenti della prassi applicativa, non di rado censurati dal giudice di legittimità, aprono tuttavia numerosi scorci problematici, cui l’intervento della legge potrebbe porre rimedio.

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Ancorare l’accesso alla misura ad aspetti puramente esteriori, legati ad una buona integrazione sociale (come il contesto familiare ed economico di provenienza, gli strumenti culturali, le concrete possibilità di svolgere attività lavorative), conduce ad indebite sperequazioni fra possibili fruitori della misura, dando risalto a profili indipendenti dal «comportamento serbato» dal condannato dopo la commissione del reato (come invece vorrebbe l’art. 47 co. 3 ord. pen.). Le modalità di espiazione della pena finiscono così per derivare da fattori esogeni, che prescindono dal senso di responsabilità del destinatario del provvedimento.

D’altro canto, anche imperniare il giudizio sulla così detta «revisione critica», autentico fulcro di gran parte delle decisioni in materia, appare opinabile. La legge non sembra presupporre simile approdo interiore in tempi ravvicinati rispetto alla conclusione dell’accertamento penale. A differenza della liberazione condizionale, misura “finale” ove effettivamente si prescrive di decretare un «ravvedimento» compiuto (art. 176 co. 1 c.p.), l’affidamento, accessibile dalla libertà e senza assaggio di carcere, non segna un traguardo rieducativo raggiunto. Si tratta piuttosto di una messa alla prova, dove sono le prescrizioni a dover contribuire al cambiamento degli atteggiamenti o delle propensioni del reo. Non dovrebbe pertanto richiedersi, ex ante, un requisito pensato per una diagnosi, ex post, di successo dell’azione rieducativa10. La

revisione critica, spesso intesa come sinonimo di pentimento o rimorso, attinge peraltro ad aree della coscienza che dovrebbero restare intangibili. Anche l’accettazione incondizionata della condanna, che penalizza chi persista nel considerarsi innocente, rende problematici i casi in cui è la stessa legge processuale a tollerare ambiguità (si pensi alla pena comminata all’esito di un patteggiamento, o di un processo celebrato in assenza).

Di tutti questi profili dovrebbe tener conto il legislatore nel delineare con più chiarezza i requisiti soggettivi di accesso all’affidamento in prova. L’art. 47 co. 3 ord. pen. andrebbe perciò riformulato chiarendo meglio su quali aspetti del comportamento e della vita del condannato occorra soffermarsi. Dovrebbe trattarsi preferibilmente di fattori legati all’affidabilità, al senso di responsabilità, alla capacità di comprendere il senso delle regole e rispettarle, oltre alla volontà di porre rimedio alle conseguenze del reato.

Per sondare queste qualità, la legge dovrebbe prevedere, come necessario passaggio ai fini della concessione della misura, una previa analisi della personalità, da espletare in via collegiale e con l’apporto di diverse professionalità, fuori dal carcere invece che all’interno delle sue mura.

In tempi recenti, e grazie a una serie di sovvenzioni ad hoc, sono stati già avviati progetti volti a integrare la composizione degli Uffici dell’esecuzione penale esterna

10 L’ordinamento penitenziario si guarda dal prevedere simile requisito come presupposto d’accesso

all’affidamento in prova. L’unica traccia normativa di tale indice compare nella fonte regolamentare: fra i compiti dei servizi sociali vi è anche quello di sollecitare – ma durante l’esecuzione di una misura già disposta – una «valutazione critica adeguata» degli atteggiamenti alla base della condotta

mediante la presenza di psicologi11. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria

ha inoltre stabilmente destinato alcuni di questi esperti ad affiancare, in determinate sedi, l’opera degli assistenti sociali. Si tratta però di interventi ancora episodici e non generalizzati, anche per l’assenza di limpidi obblighi normativi12.

Per non lasciare questo fondamentale passaggio a prassi differenti o a virtuose sperimentazioni a natura locale, si suggerisce di disciplinare per via legislativa l’«osservazione dalla libertà», traslando, con opportuni adattamenti, le previsioni dettate per quella in carcere. Sarebbe essenziale a questo fine non lasciare ai soli assistenti sociali il compito di svolgere l’inchiesta preliminare al giudizio di sorveglianza. Figure come gli esperti di cui all’art. 80 ord. penit. e gli educatori dovrebbero entrare a far parte di un’equipe composta da specialisti con competenze differenti, capaci di integrarsi in una sorta di relazione di sintesi, da inviare al tribunale. Le inchieste sulla personalità, passaggio necessario al programma di trattamento individualizzato del detenuto, potrebbero essere adeguate, seppur in forma più sollecita, all’esecuzione penale esterna, in modo da fornire agli organi di sorveglianza materiale più solido su cui fondare la prognosi di rieducabilità e pericolosità del reo. Potrebbero così statuirsi come obbligatori, in sede legislativa o regolamentare, una serie di colloqui preliminari, con educatori e psicologi, in grado di fornire informazioni sulle inclinazioni e gli atteggiamenti del condannato che, anche prescindere dalle sue condizioni socio-economiche di partenza e dal rimorso provato per le azioni compiute, consentano di esprimersi sull’efficacia della misura. Si potrebbe ipotizzare di espletare questo esame preliminare nel lasso dei 45 giorni previsto dalla legge (ma assai spesso superato) per la decisione del tribunale (art. 656 co. 6 c.p.p.): il termine potrebbe essere trasformato da acceleratorio in dilatorio, mentre le sedi deputate all’indagine potrebbero essere quelle degli U.E.P.E.

L’apporto di educatori e psicologi dovrebbe inoltre contribuire positivamente all’elaborazione di programmi di trattamento più adeguati a una «esecuzione penale» e a depurare la misura dai connotati puramente assistenzialistici, che ne oscurano le finalità sanzionatorie13.

La proposta si fonda sulla considerazione che le risorse impegnate per un’analoga attività all’interno degli istituti di pena, grazie al progressivo decremento della popolazione detenuta, potrebbero essere proficuamente impegnate extramoenia. Seppure appaiano necessarie risorse aggiuntive, a causa delle endemiche carenze di personale che affliggono il settore, gran parte dei nuovi interventi in esterno dovrebbero semplicemente sostituire quelli da svolgere nello stabilimento penitenziario.

11 Progetto Mare Aperto, sovvenzionato dalla Cassa delle ammende, ma attualmente non più

finanziato (reperibile in www.giustizia.it). In quest’ambito il ruolo degli esperti era tuttavia principalmente incentrato sull’avviamento al lavoro dell’affidato in prova e non sull’analisi della sua personalità, prodromica alla concessione della misura.

12 L’art. 118 del regolamento penitenziario prevede l’inserimento di esperti ex art. 80 ord. pen. come

una mera possibilità.

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2.3. Integrazione delle prescrizioni impartibili e ripensamento del ruolo degli uffici dell’esecuzione penale esterna, anche al fine di tener conto delle differenze economico-sociali fra possibili fruitori della misura.

Le prescrizioni, che delineano il concreto contenuto dell’affidamento in prova e ne determinano i caratteri afflittivi e rieducativi, risentono di una precisa concezione circa le tipologie delinquenziali cui la misura dovrebbe rivolgersi: persone provenienti da contesti sociali disagiati, con difficoltà economiche e problematici rapporti familiari.

L’identikit si ricava facilmente leggendo in controluce gli ordini impartiti di cui si compone il trattamento esterno (art. 47 co. 5-7 ord. pen.). L’accento sulla valenza riabilitativa del lavoro e dell’adempimento agli obblighi di assistenza familiare lascia desumere che il condannato fatichi a svolgere attività lavorative stabili e non provveda ai bisogni della famiglia. Il divieto di recarsi in determinati locali o di tenere certi

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