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Per una modifica dei profili procedurali relativi all’accesso alle misure alternative Le motivazioni della proposta.

con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse;

4. Per una modifica dei profili procedurali relativi all’accesso alle misure alternative Le motivazioni della proposta.

La rivisitazione dei presupposti di accesso alle misure alternative dovrebbe essere accompagnata da una serie di interventi sulle previsioni procedurali che ne regolano le modalità di richiesta e concessione.

Le modifiche qui suggerite intendono agire su due livelli: quello della sospensione dell’ordine di esecuzione, la cui disciplina andrebbe emendata in modo da facilitare il più possibile la presentazione dalla libertà delle istanze di affidamento in prova e detenzione domiciliare; e quello del procedimento di sorveglianza, da riportare in linea con alcune garanzie fondamentali, sinora pretermesse, che incrementino l’accuratezza e la trasparenza del giudizio.

L’obiettivo perseguito con tali proposte è in linea con le riforme prospettate in tema di requisiti di ammissione a forme di espiazione extra-carceraria: occorre coniugare la più ampia possibile fruizione delle misure alternative con procedure in grado di assicurare valutazioni affidabili e rigorose.

34 V. supra, § 2.2. 35 V. supra, § 2.4.

4.1. Le modifiche all’art. 656 co. 5 c.p.p.

Il rimaneggiamento dei presupposti applicativi delle misure alternative non può non comportare ritocchi alla normativa correlata e in particolare a quella concernente la sospensione dell’ordine di esecuzione (art. 656 co. 5 c.p.p.). Il meccanismo, come noto, è volto facilitare l’accesso all’esecuzione penale esterna “senza assaggio di carcere” e ad assicurare parità di trattamento fra i condannati. La sospensione obbligatoria e officiosa dell’ordine di carcerazione impedisce inutili passaggi negli istituti di pena da parte di soggetti che presentano i requisiti per ottenere da subito un’alternativa alla detenzione; i contenuti informativi di cui l’atto è corredato garantiscono poi che anche destinatari mal difesi possano conoscere le possibilità offerte dalla legge e le scansioni procedimentali entro cui fruirne.

La garanzia del dovere indiscriminato del pubblico ministero, che ha sostituito il previo sistema delle sollecitazioni dell’interessato e rappresenta il fulcro del congegno sospensivo, ha finito tuttavia per subire attenuazioni a causa dei mutamenti subiti negli anni dalla disciplina delle singole misure alternative. Attualmente la normativa appare frammentata e non priva di incongruenze: la legge ha di recente aggiornato il limite di pena previsto per l’accesso alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter co. 1 ord. pen., sanando una discrasia durata decenni37; non si è tuttavia

provveduto a una corrispondente correzione della cifra fissata per l’affidamento in prova, oggi ottenibile anche con pena superiore ai tre anni (ancora) contemplati dall’art. 656 co. 5 c.p.p.

Le diverse entità sanzionatorie cui è agganciato il temporaneo blocco dell’esecuzione (tre anni in via generale, quattro per la detenzione domiciliare, sei per le misure dedicate ai tossicodipendenti) hanno reso la garanzia dell’attivazione officiosa molto meno pregnante: essendo le pene superiori ai tre anni correlate a specifiche situazioni soggettive che il pubblico ministero potrebbe ignorare (quali lo stato di malattia, la tossicodipendenza, o la maternità), e difettando una regolamentazione delle modalità mediante cui tali informazioni dovrebbero essere reperite, la sospensione finisce per essere ancora rimessa alle segnalazioni del condannato, in spregio alla ratio originaria della norma.

La fissazione di un unico limite di pena per tutte le misure alternative, secondo quanto suggerito in queste proposte, sortirebbe anche il vantaggio indiretto di rendere più agevole la sospensione dell’ordine di esecuzione, in ossequio all’esigenza di semplificazione manifestata dalla legge delega (art. 26 co. 1 lett. a). Il tetto unico di quattro anni, valevole sia per l’affidamento in prova (ordinario terapeutico)38 che per la

37 Prima dell’intervento del d.l. 78/2013 conv. in l. 94/2013, l’unica eccezione al limite fissato in via

generale a tre anni era dettata per i tossicodipendenti. Ciò implicava inutili e dannosi passaggi in carcere per le categorie “deboli” enumerate all’art. 47 ter co. 1 ord. pen., che possono accedere alla detenzione domiciliare quando la pena non superi quattro anni.

STEFANIA CARNEVALE

detenzione domiciliare39, consentirebbe così di ripristinare tanto la coerenza interna

della norma in esame, quanto la sua fedeltà agli obiettivi di parità di trattamento perseguiti dalla riforma del 1998.

Se il legislatore non ritenesse opportuno accogliere questa entità omogenea, si suggerisce di modificare comunque l’art. 656 co. 5 c.p.p. sostituendo il riferimento a specifiche quantità di pena da espiare con un rinvio recettizio alla disciplina delle misure alternative ivi richiamate: l’escamotage permetterebbe di non dover riaggiornare la norma sulla sospensione ogniqualvolta venissero modificate le diverse soglie d’accesso, mettendola al riparo da future dimenticanze.

Sempre in caso di mantenimento di limiti di pena distinti e correlati a peculiari condizioni soggettive, la legge dovrebbe almeno premurarsi di chiarire i tempi e i modi in cui il pubblico ministero è tenuto a procurarsi le necessarie conoscenze sulla situazione del condannato.

Per dare attuazione a quanto suggerito in materia di concessione delle misure alternative, il termine entro cui il tribunale di sorveglianza è chiamato a decidere (art. 656 co. 6 c.p.p.) dovrebbe essere tramutato da acceleratorio in dilatorio e il decreto sospensivo dovrebbe opportunamente avvisare il condannato dell’avvio di indagini sulla personalità, in caso di presentazione della richiesta.

4.2. Le modifiche al procedimento di sorveglianza.

Le proposte sin qui avanzate sembrano incompatibili con la direttiva di cui all’art. 26 co. 1 lett. a del disegno di legge delega (Semplificazione delle procedure, anche

con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle

misure alternative alla detenzione), che andrebbe conseguentemente rivista40. Rendere

l’accesso alle misure alternative risultato di procedure de plano, a contraddittorio soltanto differito è soluzione che mal si attaglia al quadro delle modifiche prospettate.

Le esigenze di accuratezza e ponderazione richieste dalle decisioni volte a sancire il riacquisto della libertà richiedono contesti procedurali adeguati alla rilevanza della questione da affrontare. Più si allarga la rosa dei potenziali destinatari di forme di espiazione alternativa al carcere, più la legge dovrebbe assicurare accertamenti rigorosi e assistiti dalle necessarie garanzie.

Il procedimento di sorveglianza, già nella sua configurazione attuale, appare sin troppo scarno e inadatto al tipo di giudizio che vi deve essere reso (art. 678 c.p.p.). Sono note le critiche che da tempo vengono mosse alle sue incongrue somiglianze con il rito di esecuzione, ove la regiudicanda ruota attorno al titolo esecutivo e non alla personalità del reo e alle sue prospettive di rieducazione. Rinunciare all’udienza in contraddittorio per ridurre il vaglio sulla richiesta di misura alternativa a un esame solitario di materiale cartaceo, senza l’apporto diretto delle parti interessate, sembra

39 V. supra, § 3.2.

una scelta da respingere fermamente. L’opzione verrebbe avvertita come una sorta di ammissione di scarsa profondità del giudizio sul comportamento del condannato e alimenterebbe la sensazione che la concessione delle alternative al carcere sia frutto di cripto-automatismi, volti al solo scopo di deflazionare la popolazione penitenziaria.

La proposta qui suggerita va infatti in una direzione opposta: oltre all’incremento del materiale probatorio su cui fondare la decisione41, si suggerisce di

accrescere le garanzie del rito, assicurando quantomeno il diritto alla presenza del condannato e la pubblicità, a sua richiesta, dell’udienza.

Le attenuazioni al diritto di partecipare personalmente all’udienza (art. 666 co. 4 c.p.p.), sebbene temperate dal criterio di competenza legato al locus detentionis (art. 677 co. 1 c.p.p.) - che potrebbe tuttavia mutare a seguito di trasferimenti successivi alla presentazione dell’istanza - non sembrano tollerabili in un rito volto a vagliare la personalità del reo e della cui libertà si dibatta. Se il procedimento di esecuzione, per il suo tecnicismo, può giustificare compressioni di questa fondamentale componente del diritto di difesa, quello di sorveglianza, per le sue peculiari caratteristiche, dovrebbe in ogni caso salvaguardare tale garanzia. Non parrebbe nemmeno criticabile una previsione che andasse nel senso di imporre la presenza dell’istante, come accade in materia di misure per i tossicodipendenti42: presentarsi all’udienza dovrebbe essere

segno tangibile di responsabilità e fermezza d’intenti.

La modifica andrebbe del resto non solo a vantaggio dell’interessato, ma della serietà dello scrutinio sui suoi comportamenti: il ruolo dei membri esperti del collegio sembra del tutto svilirsi a fronte di un’assenza del soggetto attorno alla cui personalità verte il giudizio. Anche nel breve tempo concesso dalle udienze di sorveglianza, i giudici non togati hanno l’occasione di poter verificare con immediatezza atteggiamenti e motivazioni del reo.

Proprio la natura non tecnica del giudizio, e la posta in gioco concernente il bene della libertà, dovrebbe indurre il legislatore a prevedere anche la pubblicità dell’udienza su richiesta dell’interessato, già imposta dalla Corte costituzionale in materia di misure di prevenzione e di sicurezza43. Il coinvolgimento del pubblico

sarebbe un ulteriore sprone alla conduzione di accertamenti accurati e non frettolosi, che non si riducano a una delibazione sommaria e quasi automatica dei presupposti.

41 V. supra, § 2.2, 2.2.1 e 3.3. 42 Art. 92 t.u. stup.

MARIA GRAZIA COPPETTA

Contributo di

Maria Grazia Coppetta

Professore associato di Diritto processuale penale Università di Urbino “Carlo Bo”

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo. –– 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo.

“Revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, e ridefinizione dei contenuti rieducativi” 1.

La revisione dei presupposti soggettivi e oggettivi di accesso alle misure alternative con il dichiarato fine di facilitarne la fruizione, se non accompagnata da contestuale ridefinizione e arricchimento dei contenuti trattamentali risocializzativi delle stesse, finisce per esaltarne precipuamente, se non esclusivamente, la funzione di decarcerizzazione, portando così a compimento la loro “mutazione genetica” in meri strumenti di deflazione della popolazione penitenziaria, mutazione già iniziata alla fine del secolo scorso. In altre parole, senza un intervento sui contenuti delle misure alternative, la riforma, seppur riesce a razionalizzare, sotto il segno di una maggiore decarcerizzazione, gli interventi in materia registrati nell’ultimo quinquennio, rischia di configurarsi come l’ennesima legge “tampone” volta a fronteggiare l’emergenza sovraffollamento, solo parzialmente risolta. Ma una riforma che tenda ad ampliare il campo di applicazione di benefici, per un verso, senza intervenire sugli scarsi contenuti risocializzanti delle singole misure, e, per l’altro, allentando le preclusioni alla loro adozione, mostra al contempo aspetti di pericolosità e di fragilità. Infatti, le misure alternative solo se configurate come strumenti di rieducazione potranno produrre risultati positivi e duraturi nel tempo; in caso contrario, permettendo liberazioni talvolta indiscriminate, saranno avvertite come sanzioni ineffettive, inadeguate a garantire la collettività contro la commissione di nuovi reati e pertanto destinate a restrizioni, attraverso il ripristino dei meccanismi preclusivi, ad ogni emergenza criminale.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

Premesso che la descrizione dei contenuti delle misure alternative deve essere effettuata in termini generali, in modo da consentire di dare attuazione alle previsioni a seconda delle esigenze del caso concreto, in particolare dovrebbero essere rimodellati nei contenuti l’affidamento in prova e soprattutto la detenzione domiciliare. Il primo

attraverso l’integrazione dell’attuale catalogo prescrittivo carente di prestazioni positive (ad esempio, potrebbero prevedersi iniziative nel campo del volontariato sociale, prescrizioni di carattere riparatorio, partecipazioni ad attività sportive e culturali); la seconda, essendo quasi del tutto sfornita di un corredo di prescrizioni ascrivibili all’area della rieducazione, necessita di una loro introduzione ex novo e anche in questo caso esse dovrebbero consistere per lo più in obblighi di fare che abbiano valore risocializzante.

Ovviamente il rafforzamento di misure prescrittive implica un maggiore impiego di risorse umane qualificate. Da un lato occorre incrementare i magistrati di sorveglianza, chiamati ad esprimere i giudizi prognostici a fondamento delle misure in esame. Ai fini dell’elaborazione di tali prognosi i giudici dovrebbero poter contare sull’apporto qualificato di psicologi e criminologi. La gestione di tali benefici richiede, inoltre, un potenziamento, assolutamente consistente di assistenti sociali specificamente preparati per seguire il condannato destinatario del trattamento in libertà nel percorso di rinserimento. Una riforma votata al recupero dei principi fondanti l’esecuzione penitenziaria (l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la tutela dei diritti dei detenuti) non può dimenticare che il successo delle misure alternative dipende in massima parte dal modo concreto con cui vengono gestite.

FABIO FIORENTIN

Contributo di

Fabio Fiorentin

Magistrato di sorveglianza

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo –– 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo

Nessuna osservazione .

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

L’oggetto della delega sembra riferirsi a due distinti ambiti di possibile intervento: il primo volto a modificare i presupposti applicativi dei benefici penitenziari; il secondo mirato a modificare i limiti di pena che attualmente circoscrivono l’ambito applicativo dei medesimi. Il primo profilo sembra, peraltro, strettamente connesso all’oggetto di cui alla lett. d), così che pare più opportuno trattarne in quella sede (v. infra contributo sub lett. d) ).

Riguardo alla seconda direttrice di riforma, potrebbe essere esaminata l’ipotesi di modifica dell’art. 47 l. n.354/1975, nel senso di estendere l’area applicativa

dell’affidamento in prova al servizio sociale a tutte le condanne a pena non inferiore ai quattro anni (beninteso, al netto delle preclusioni e delle ipotesi ostative vigenti: art. 4bis e art.

58quater ord. penit.).

Tale opzione pare rispondere sia a esigenze di coerenza sistematica, attesa la proposta di modifica del meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione (su cui v. sub lett. a), p. 2), sia all’opportunità di ampliare le chances di accesso dei condannati ad una misura di forte valenza risocializzante, come testimoniano le statistiche sulla recidiva degli ex-affidati in prova al servizio sociale.

Sul piano del drafting normativo, la modifica proposta dovrebbe involgere il comma 1, art. 47 della l. n. 354/1975, con la sostituzione della parola “tre” con la parola

“quattro”, e la contestuale soppressione del comma 3 bis della medesima norma. Quest’ultima

disposizione, invero, era stata introdotta dall’art.3, comma 1, lett. d) del d.l. 23 dicembre 2013, n.146, suscitando critiche da parte della dottrina. A bene considerare, infatti, la condizione introdotta dal d.l. n.146/2013 cit., per l’applicazione della misura nel limite ampliato (consistente nell’avere, il condannato << serbato, successivamente al reato e fino alla presentazione della domanda, per almeno un anno, una condotta tale da consentire di esprimere il giudizio di cui al comma 2 >>), finisce per sovrapporsi alla prognosi di concreta efficacia rieducativa e di idoneità preventiva del beneficio che il giudice di sorveglianza è tenuto a compiere al fine della concedibilità della misura in questione. Nel caso di istanza di affidamento in prova al servizio sociale formulata da condannato a pena detentiva, anche residua, superiore ai tre anni, la valutazione

effettuata dal magistrato o dal tribunale di sorveglianza finisce, infatti, per coincidere con quella che lo stesso giudice avrebbe compiuto qualora la condanna fosse risultata inferiore alla soglia ordinaria (tre anni), dal momento che – in entrambi i casi – è ovviamente necessario che il condannato, il quale aspiri alla concessione della misura alternativa in questione, mantenga una condotta tale da indurre il giudice a sciogliere una prognosi favorevole sull’efficacia rieducativa del beneficio che verrà concesso e sull’idoneità specialpreventiva della stessa. Del tutto priva di ragionevolezza e soprattutto eccessivamente generica pare, inoltre, l’indicazione temporale contenuta nella disposizione di cui si suggerisce la soppressione (<<quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta >>) che il giudice dovrebbe considerare al fine di ritenere superata la condizione di ammissibilità dell’istanza. Non può, infine, essere trascurato il disallineamento che si verifica sul piano sistematico, laddove il più ampio limite di pena stabilito per l’applicazione della misura ex art. 47, ord. pen., potrà concretamente riguardare solo i condannati in stato di detenzione, in quanto il d.l. n. 146/2013 non è intervenuto in termini coerenti sul limite di tre anni, stabilito dall’art. 656 comma 5 c.p.p., ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati in stato di libertà al momento della sopraggiunta definitività del titolo esecutivo. Tale distonia, rilevata fin dai primi commenti, comporta infatti << un’ingiustificata disparità di trattamento tra condannati liberi e condannati detenuti in carcere, in favore di quest’ultimi, tanto più se vista alla luce della recente modifica introdotta dal d.l. n. 78/2013 all’art. 656 co. 5 c.p.p., con la quale è stata estesa la possibilità di sospensione dell’ordine di esecuzione alle pene non superiori a quattro anni, qualora ricorrano le ipotesi di detenzione domiciliare di cui all’art. 47ter comma 1 O.P. >> (Gaspari, in Guida al diritto online).

CARLO FIORIO

Contributo di

Carlo Fiorio

Straordinario di Diritto processuale penale Università degli Studi di Perugia

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo –– 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo.

Nessuna osservazione

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

Premesso che qualsivoglia intervento sull’assetto delle misure alternative alla detenzione richiede una previa armonizzazione con i princìpi contenuti nella legge- delega 28 aprile 2014, n. 67, sembra comunque necessario disincagliare l’attuale sistema dalle secche di una consolidata prassi caratterizzata da un’eccessiva “amministrativizzazione” trattamentale, non disgiunta da una pilatesca ipocrisia nella decodificazione degli elementi del trattamento stesso.

Quanto al primo profilo, è necessario che si pervenga all’affermazione del diritto (costituzionale) alla rieducazione. In altri termini, il passaggio alla misura alternativa non dovrà più essere considerato un evento eccezionale, bensì il naturale sviluppo dell’esecuzione penale, ispirato al principio di «progressività trattamentale». Quale corollario di detto principio, inoltre, si pone la previsione che eventuali modificazioni in peius delle condizioni di accesso ai benefici o alle misure alternative alla detenzione non abbiano efficacia retroattiva. In tale prospettiva, l’esperienza dei permessi premio, in quanto «parte integrante del programma di trattamento», assume una rilevanza fondamentale ed è necessario che la magistratura di sorveglianza vigili costantemente su tempistica ed instaurazione (anche ufficiosa) del relativo procedimento, al fine di garantire l’effettività della progressione trattamentale.

Con riferimento al secondo profilo, le statistiche ministeriali evidenziano un dato paradossale: al 31 dicembre 2014, il 56% dei detenuti definitivi doveva espiare una pena residua inferiore ai tre anni di reclusione. Il dato dimostra una sconfortante sottoutilizzazione delle alternative a disposizione della magistratura di sorveglianza, non certamente imputabile alla disciplina dettata dall’art. 4-bis ord. penit.

Con riferimento al vigente assetto normativo appare imprescindibile:

- proseguire nell’opera di “bonifica” della legge n. 251 del 2005 attraverso l’abrogazione degli artt. 30-quater e 58-quater, comma 7-bis ord. penit.;

- coordinare l’art. 656 c.p.p. con il testo novellato dell’art. 47 ord. penit., al fine di consentire anche al condannato libero di proporre istanza di affidamento in prova “allargato”;

- stabilizzare ed estendere ai condannati ex art. 4-bis ord. penit. la liberazione anticipata speciale;

- stimolare le iniziative del consiglio di disciplina (art. 57 ord. penit.) e l’attivazione ex

officio per le misure alternative in genere e per la liberazione anticipata in particolare;

- adottare le azioni necessarie ad assicurare l’accessibilità per tutti i detenuti di una modulistica unica su base nazionale per la formulazione delle istanze;

- sviluppare modalità di trasmissione telematica delle istanze e della documentazione a corredo delle istanze, prevedendo, all’interno di ogni istituto penitenziario e dell’Uepe, l’individuazione di un referente unico, responsabile del procedimento di trasmissione. Prevedere altresì l’automatico corredo delle istanze con relazioni comportamentali presenti nella cartella del detenuto, al fine di evitare, per quanto possibile, richieste istruttorie ad hoc;

- ridurre i tempi dell’istruttoria giurisdizionale, attraverso la previsione (anche tramite circolare) che il DAP disponga l’invio per posta elettronica delle sentenze di condanna e di tutta la documentazione utile, in possesso del carcere, per la decisione;

- prevedere uscite dallo Stato temporanee durante l'esecuzione dell'affidamento in prova, quando ciò sia indispensabile per esigenze di lavoro, di studio, di salute o di famiglia;

- introdurre l'affidamento in prova in casi di disagio psichico o sociale, per intervenire sulla c.d. detenzione sociale, di cui fanno parte persone tossico e alcooldipendenti, immigrati e, in minore, ma significativa misura, persone con disagio psichico e sociale. Trattasi, invero, di soggetti con problemi psichiatrici, che non hanno situazioni stabili

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