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Per una revisione della detenzione domiciliare Le motivazioni della proposta.

con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse;

3. Per una revisione della detenzione domiciliare Le motivazioni della proposta.

La misura della detenzione domiciliare ha subito nel tempo un’espansione notevole. Non contemplata originariamente dalla legge di ordinamento penitenziario, questa modalità alternativa di espiazione della pena ha raccolto il favore del legislatore, che l’ha asservita a funzioni molto diverse: umanitarie, rieducative, deflattive. Specie negli ultimi anni, sotto l’incombente emergenza del sovraffollamento, l’ultimo aspetto ha finito per prevalere e sulla detenzione domiciliare si è puntato con forza per alleggerire la pressione sulle carceri. La forte preferenza per questo strumento, che non comporta oneri per lo Stato25 e consente di sottoporre i condannati

22 V. infra, § 4.1.

23 Corte cost. n. 32 del 2014. 24 Legge 21 marzo 2014, n. 67.

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a un regime piuttosto restrittivo, ha condotto al moltiplicarsi delle ipotesi normative26,

cui è corrisposto un notevole incremento dei soggetti che scontano la pena presso il domicilio. La stratificazione legislativa in materia, che riflette tendenze contrastanti, ha dato origine a una disciplina frammentata e di cui si fatica a percepire la direzione.

La proposta mira a riportare coerenza al sistema, agendo in particolare sulla detenzione fruibile dai condannati “ordinari”, ossia non appartenenti alle categorie soggettive meritevoli di particolare tutela e per le quali l’istituto assume finalità di salvaguardia di valori costituzionali da bilanciare con le esigenze di repressione penale. In questo ambito, si suggerisce da un lato di rinunciare alla misura speciale dell’esecuzione della pena presso il domicilio, che sembra avere ormai esaurito la sua specifica funzione; dall’altro di innalzare la soglia di pena necessaria per l’accesso alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter co. 1 bis a quattro anni, in modo da rendere il limite omogeneo a quello proposto in via generalizzata per l’affidamento in prova, oltre a quello già contemplato dall’art. 47 ter co. 1.

L’aumento dei potenziali beneficiari della misura dovrebbe essere accompagnato da un incremento dei dati su cui si fonda il giudizio del tribunale di sorveglianza e da modifiche sul sistema dei controlli esperibili durante l’esecuzione, sul modello di quanto qui suggerito in materia di affidamento in prova ai servizi sociali.

3.1. Il ripristino dell’unità della disciplina in materia di detenzione domiciliare fruibile dai comuni condannati mediante la soppressione della esecuzione della pena presso il domicilio.

Nell’urgenza di decongestionare un sistema penitenziario endemicamente sovraffollato, provvedimenti di emergenza hanno condotto alla creazione e alla stabilizzazione di una sorta di misura gemella, l’esecuzione della pena presso il domicilio, che nonostante lo sforzo compiuto dal legislatore per tratteggiarne le differenze dall’istituto originario, risulta di fatto un suo doppione.

La novità, com’è noto, era giustificata dalla necessità di sgravare le carceri dalle presenze dei recidivi reiterati (art. 99 co. 4 c.p.) che la l. 251/2005 aveva escluso dalla possibilità di fruire della detenzione domiciliare27. La stretta su chi si fosse reso

responsabile di plurime violazioni della legge penale, benché i reati commessi non fossero gravi e le pene da espiare non elevate, aveva provocato un significativo accrescimento della popolazione detenuta, cui si è inteso porre rimedio per vie indirette. Mancando la volontà politica di rivedere in modo deciso le scelte del 2005, il

26 La legge di ordinamento penitenziario prevede la detenzione domiciliare applicabile a una serie di

soggetti “deboli” (art. 47 ter co. 1), quella riservata ai condannati ultrasettantenni (art. 47 ter co. 01), quella rivola ai malati di AIDS (art. 47 quater) e alle madri con prole inferiore a dieci anni (art. 47 quinquies), quella per i condannati “comuni” (art. 47 ter co. 1 bis), quella derivante dalla “conversione” del rinvio obbligatorio o facoltativo della pena (art. 47 ter co. 1 ter). A queste ipotesi deve aggiungersi la misura speciale della detenzione presso il domicilio, introdotta dalla legge 199/2010.

legislatore ha introdotto con la legge 199/2010 una misura eccezionale e temporanea, l’esecuzione presso il domicilio, applicabile anche ai recidivi reiterati: il nuovo istituto si giustificava essenzialmente per questo ampliamento delle categorie dei possibili beneficiari, dato che il limite di pena stabilito per l’accesso (dodici mesi) è stato sin dall’inizio fissato al di sotto di quello dell’ordinaria detenzione domiciliare (due anni). Anche gli altri requisiti (idoneità ed effettività del domicilio, assenza di pericolo di fuga o di commissione di altri reati) non valgono a distinguere la misura di nuovo conio da quella più risalente: si tratta infatti di controlli che la prassi comunque esperisce prima di concedere anche l’alternativa alla detenzione regolata nella legge di ordinamento penitenziario. Quanto ai plurimi binari eccettuativi, si tratta di situazioni che, pur se non fossero previste dalla legge, porterebbero comunque la magistratura di sorveglianza a negare l’alternativa al carcere, a seguito del vaglio concreto sul rischio di recidiva e di pericolosità sociale.

Come noto, le soglie di pena per fruire del neo-introdotto strumento si sono innalzate (da dodici a diciotto mesi28, quantum comunque ricompreso nell’alveo dei due

anni di cui all’art. 47 ter co. 1 bis ord. pen.) e la misura è stata infine stabilizzata29.

La differenza che permane, e giustifica la convivenza delle due specie di detenzione domiciliare in ottica deflattiva, è tutta procedurale: sulla concessione dell’esecuzione presso il domicilio decide l’organo monocratico, in luogo di quello collegiale, previa trasmissione diretta degli atti da parte del pubblico ministero, sul quale si addossano gli oneri probatori; la decisione viene presa de plano, nelle forme snelle di cui all’art. 69 bis ord. pen., con un contraddittorio solo eventuale e successivo.

Se questo procedimento speciale poteva giustificarsi nell’urgenza di risolvere una situazione di conclamata emergenza, una volta riportato il tasso di presenze a condizioni accettabili sarebbe opportuno recuperare l’originaria unitarietà della detenzione domiciliare.

Poiché la l. 94/2013 ha soppresso il regime eccettuativo per i recidivi reiterati anche con riferimento alla misura di cui all’art. 47 ter co. 1 bis ord. pen., si suggerisce di eliminare questa alternativa a due teste, riportando la disciplina nell’alveo della legge di ordinamento penitenziario.

Le facilitazioni procedurali lasciano infatti supporre decisioni frettolose o sommarie, rese senza un adeguato vaglio dei presupposti. Già l’ordinario procedimento di sorveglianza appare sin troppo stringato per il rilievo delle decisioni che vi vengono assunte30. Rinunciarvi a meri fini di snellimento arreca pregiudizio agli

interessati e all’intera collettività, che nutre un innegabile interesse a che i provvedimenti sugli spazi di libertà da riservare ai condannati vengano presi con la dovuta ponderazione.

La proposta qui avanzata mira del resto ad ampliare la rosa dei possibili destinatari della detenzione domiciliare in misura ben maggiore rispetto alle attuali previsioni, bilanciando questo ampliamento con meccanismi di più rigoroso vaglio dei presupposti e garanzie di controlli più serrati.

28 Con il d.l. 211/2011 conv. in l. 9/2012. 29 Con il d.l. 146/2013 conv. in l. 10/2014. 30 V. infra, § 4.2.

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3.2. L’ampliamento dei presupposti di accesso alla detenzione domiciliare mediante l’innalzamento della soglia di pena attualmente prevista dalla legge.

La proposta suggerisce di innalzare il tetto di pena per l’accesso alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter co. 1 bis ord. pen. da due a quattro anni.

La modifica si giustifica sotto diversi profili.

Anzitutto risponde all’esigenza, cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha richiamato il legislatore italiano, recepita dalla direttiva b dell’art. 26 d.d.l. 2798. Una scelta decisa a favore dell’elevazione del limite sanzionatorio, invece che un rincorrersi di provvedimenti emergenziali e regimi speciali, sembra nettamente preferibile in termini di tenuta e coerenza del sistema.

L’esperienza fruttuosa delle misure alternative alla detenzione è stata ormai introiettata dalla coscienza collettiva e la detenzione domiciliare è strumento già largamente diffuso, cui si ricorre anche in caso di condanne per reati di spiccata gravità. Questa modalità di espiazione ha subito negli anni una vera e propria espansione, giungendo a superare, fra il 2011 e il 2013, l’affidamento in prova, alternativa al carcere tradizionalmente preponderante, quanto a numeri di condannati che ne hanno beneficiato31.

Occorre poi rilevare come la detenzione domiciliare sia concepita, nello stesso sistema normativo, come idonea a rassicurare dal pericolo di recidiva anche in caso di reati puniti con l’ergastolo o con pena detentiva elevata: il differimento obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena (art. 146 e 147 c.p.) è infatti sostituibile con la detenzione domiciliare, senza che la legge fissi per questi casi alcuna soglia sanzionatoria; le madri con prole inferiore a dieci anni possono a loro volta ambire a questa modalità di espiazione, a prescindere dal quantum di pena ancora da scontare (art. 47 quinquies co. 1 bis ord. pen., introdotto dalla l. 62/2011); il condannato ultrasettantenne può ottenerne la concessione anche in caso di detenzioni di lunga durata (art. 47 ter co. 01 ord. pen.).

È vero che nelle ipotesi richiamate ricorrono requisiti soggettivi peculiari a giustificare il superamento degli ordinari limiti di pena fissati per l’accesso alla misura. Nondimeno, sembra che lo scarto fra detenzioni domiciliari particolari (fruibili anche dai condannati a pene molto elevate o dagli ergastolani) e quella applicabile a detenuti “ordinari” (ove il margine è fissato a soli due anni) sia eccessivo.

Un limite così rigoroso, comprensibile per i primi anni di sperimentazione della misura, appare oggi irragionevolmente restrittivo e troppo distante da quello fissato per l’affidamento in prova ai servizi sociali. Quest’ultima misura comporta invero spazi di libertà superiori rispetto alla detenzione domiciliare, che si configura come strumento di espiazione maggiormente contenitivo. Non si vede pertanto perché le soglie di pena che consentono l’accesso all’affidamento debbano risultare il doppio di quelle che permettono di fruire della misura qui in esame.

È da ricordare infatti come la detenzione nel domicilio venga concepita dalla stessa legge come alternativa all’affidamento in prova, potendo essere applicata quando non ne ricorrano i presupposti e sempre che la cattività domestica sia idonea ad evitare la commissione di ulteriori reati. L’art. 47 comma 1 bis ord. pen. istituisce così una chiara relazione fra i due istituti, demandando al tribunale di sorveglianza la scelta di quello più adeguato alla personalità del reo e al suo grado di pericolosità: se le prescrizioni sono sufficienti a rassicurare sul rischio di recidiva e appaiono idonee alla rieducazione, l’opzione cadrà sul regime meno restrittivo; in caso contrario sulla misura a carattere «detentivo».

È dunque il modo in cui sono costruiti i requisiti di accesso a questa modalità di espiazione, ricavabili grazie a un rinvio a quelli all’affidamento, a suggerire di livellare i due istituti alle stesse soglie di pena. L’ordinamento ne guadagnerebbe in coerenza, oltre che in deflazione penitenziaria: accade oggi che per condanne fra i due e i quattro anni il tribunale non possa disporre di questa soluzione intermedia, dovendo necessariamente optare per il carcere qualora il regime dell’affidamento in prova appaia troppo morbido; e ciò sebbene la permanenza nel domicilio potrebbe apparire idonea a prevenire il rischio di commissione di altri reati. Non pare un caso che i dati sulla popolazione penitenziaria rivelino una percentuale di detenuti particolarmente elevata (in rapporto ad altre fasce di pena considerate), proprio fra i quattro e i due anni di pena residua32.

Un ulteriore beneficio in termini di compattezza e simmetria del sistema deriverebbe dall’uniformità, quanto a entità della pena ancora da espiare, che risulterebbe fra le detenzioni domiciliari previste dai co. 1 e 1 bis dell’art. 47 ter ord. pen.: anche le ipotesi di misura applicata a “soggetti deboli”, come noto, pongono come limite i quattro anni. Le due funzioni della detenzione domiciliare, umanitaria e rieducativa, verrebbero così riportate a un’unica soglia di ammissione, da leggere come confine normativamente prescelto fra la necessità del carcere e la praticabilità di espiazioni esterne.

In tal modo, supponendo di portare al medesimo limite anche l’affidamento in prova al servizio sociale, nonché le misure per i tossicodipendenti, risulterebbe positivamente facilitato il meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione: il pubblico ministero dovrebbe limitarsi, com’era nella concezione originaria dell’istituto, a verificare l’entità della pena da espiare in concreto, sospendendo l’ordine di esecuzione quando essa non giunga a superare i quattro anni. I continui interventi normativi hanno reso l’adempimento officioso, pensato come un automatismo, operazione piuttosto complicata, che la riforma qui proposta potrebbe appianare33.

32 Al 31 dicembre 2014 risultavano in carcere 7.242 detenuti con pena residua da scontare fra i due e i

quattro anni, fascia sanzionatoria che annovera, comparata alle altre, il numero più elevato di ristretti (dati consultabili in www.giustizia.it).

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3.3. Previsioni compensative (rinvio).

A rassicurare sulla idoneità della misura a contenere la pericolosità sociale del reo dovrebbe sopperire un più accurato esame della personalità, da condurre in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza.

Come suggerito per l’affidamento in prova34, occorrerebbe prevedere indagini

prodromiche alla decisione, da espletare fuori dal carcere ma con l’intervento di educatori o esperti: non solo dunque l’inchiesta socio familiare sul contesto e le condizioni di vita del condannato, ma una preliminare disamina sulla personalità, effettuata – sul modello di quanto dispone l’art. 27 reg. esec. – mediante colloqui, test ed eventuale coinvolgimento delle figure di cui all’art. 80 ord. pen. Anche in questo caso, la proposta punta sul trasferimento di risorse dal carcere all’esterno, grazie all’ottenuto decremento della popolazione penitenziaria.

I controlli sulla detenzione domiciliare, più agevoli di quelli previsti per l’affidamento, potrebbero anche in questa ipotesi venire assegnati, oltre che a strumenti elettronici (presumibilmente insufficienti), alla polizia penitenziaria, con i vantaggi già evidenziati in precedenza35.

Sarebbe infine necessario prevedere più precise modalità di intervento dei servizi sociali nel corso dell’esecuzione della misura36, che non potrebbe – una volta

applicata per periodi più lunghi – ridursi ad una mera permanenza domestica, scevra da attività rieducative e risocializzative.

4. Per una modifica dei profili procedurali relativi all’accesso alle misure alternative.

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