rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del
2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio Generalità.
L’obiettivo della direttiva contenuta nella lett. c), concernente la << eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l'individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell'ergastolo>> involge, in particolare, tre profili di possibile intervento: le preclusioni relative ai condannati per determinati reati (art. 4-bis, ord. penit.); le preclusioni concernenti i condannati “recidivi qualificati”; le preclusioni relative agli ergastolani (c.d. “ergastolo ostativo”).
2.1. Proposte per l’attuazione del criterio: l’intervento sull’art. 4 bis ord. penit.
Sul versante della disciplina penitenziaria riguardante i condannati per taluno dei c.d. “reati ostativi” indicati nell’art.4-bis, ord. penit. , appare molto difficile sul piano politico e sicuramente non opportuno su quello del contrasto alla criminalità di matrice mafiosa un’eliminazione tout court della norma che ha introdotto una più severa disciplina per l’accesso ai benefici penitenziari relativamente ai condannati per determinati delitti.
Epperò: l’attuale formulazione appare fortemente connotata da irrazionalità (comprendendo reati di indole assai diversa, affastellatisi nel corso di una ventennale attività legislativa, priva di una visione coerente, perché frutto di pulsioni securitarie spesso strumentalmente enfatizzate sotto la pressione dell’opinione pubblica) e si pone perdipiù in contrasto con le ragioni poste alla base della sua genesi (che, come pare opportuno rammentare, coincide con l’esigenza di porre un contrasto anche nella fase dell’esecuzione penale al fenomeno mafioso e che, per tale ragione, ha ricevuto l’avallo della Corte edu con la nota sentenza Pantano /c. Italia).
Una possibile soluzione, idonea a contemperare, per un verso, le esigenze preventive (rilevantissime nei casi di condanne per delitti di mafia, ma anche in relazione ad altri illeciti indicati nell’attuale dettato normativo in esame) e, per l’altro verso, ponga al riparo la disciplina restrittiva dalle possibili ulteriori censure della Corte costituzionale e della CEDU, potrebbe indirizzarsi a modificare l’attuale disciplina espungendo le preclusioni di natura assoluta (peraltro
fortemente candidate alle caducazione ope judicis da parte della Consulta) tranne che per i delitti
di criminalità organizzata di tipo mafioso, introducendo, in sostituzione delle attuali ipotesi di
preclusione assoluta relative agli altri delitti indicati nel “catalogo” dell’art. 4bis, ord. penit.,
soglie differenziate di pena che è necessario avere espiato per accedere ai benefici (la cui concreta
applicazione, in ogni caso, resterebbe affidata alla valutazione del giudice di sorveglianza).
2.2. L’intervento in materia di preclusioni per i “recidivi qualificati”.
Sul piano delle preclusioni alla concessione dei benefici penitenziari introdotte nei confronti dei condannati recidivi “qualificati” di cui all’art. 99, comma 4 c.p., dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. “legge ex Cirielli”), la riflessione muove dalla constatazione che tale disciplina presenta non secondari profili di incoerenza con il sistema costituzionale (art.27 Cost.), così come ogni stigmatizzazione normativa incentrata esclusivamente sul titolo di reato, che non consideri gli eventuali elementi individualizzanti della pericolosità soggettiva nel caso concreto (a es., oltre al titolo di reato, la sua intrinseca gravità, o gli altri parametri indicati nell’art. 133, c.p.) e senza alcuna considerazione della condotta successiva, dei risultati del trattamento penitenziario e dell’evoluzione della personalità del reo (Corte cost., sent. n. 257/2006 e sent. n. 79/2007).
Su questo versante, un importante passo è stato compiuto con la conversione del d.l. n. 78/2013, che ha rivisto alcuni automatismi preclusivi introdotti nei confronti dei condannati recidivi “qualificati” di cui all’art. 99, comma 4 c.p., dalla “legge ex Cirielli”.
In particolare, si segnala la rimozione della preclusione assoluta alla concessione della detenzione domiciliare c.d. “generica” (art. 47 ter, comma 1 bis, l. n. 354/1975) nei confronti dei condannati recidivi che, a concorde avviso degli operatori, si era rivelata uno dei più incisivi fattori di crescita della popolazione detenuta (tanto che, con la l. n. 199 del 2010, si era introdotta – per esigenze deflative - una forma di esecuzione domiciliare applicabile, a specifiche condizioni, anche ai condannati recidivi).
Da tale presa d’atto nasce la proposta – che appare coerente con il percorso di sterilizzazione/espunzione delle altre analoghe preclusioni già avviato dal d.l. n. 78/2013 e in linea con quanto auspicato dal Capo dello Stato con il messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013, di soppressione del comma 7 bis dell’art. 58 quater, ord. penit..
Tale modifica, già in origine disposta dall’art. 2, comma 1, n. 4), lett. d), d.l. n. 78/2013), non è, tuttavia, sopravvissuta alla conversione in legge del provvedimento di urgenza. La proposta, pur tenendo conto di tale pregresso orientamento parlamentare, appare coerente con quanto già stabilito, con riferimento alla disposizione in esame, dall’intervento della Corte costituzionale, che si è pronunciata nel senso che l’esclusione dal beneficio opera in modo assoluto solo quando il reato espressivo della recidiva reiterata sia stato commesso dopo la sperimentazione della misura alternativa, avvenuta in sede di esecuzione di una pena, a sua volta irrogata con applicazione della medesima aggravante (Corte cost. sent. n. 291/2010).
2.2. L’ergastolo “ostativo”.
L’ipotesi di una pena detentiva destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato, al quale è prospettata, quale unica via di uscita dal carcere, quella che conduce al cimitero, è certamente un vulnus ai principi di umanità e di rieducazione della pena e non dovrebbe trovare spazio nell’ordinamento di un Paese civile.
FABIO FIORENTIN
Fatta questa necessaria premessa, resta tuttavia problematica l’individuazione di una soluzione che tenga insieme, da un lato, le istanze preventive e retributive collegate alle ipotesi di ostatività assoluta previste dal comma 1, art. 4bis ord. penit., nel caso di soggetti che – condannati per gravi delitti – non abbiano collaborato con la giustizia e, dall’altro, l’esigenza di orientare la (ogni) pena al recupero sociale del reo, evitando il cortocircuito di una “pena perpetua”. Immaginando realizzata la proposta di trasformazione delle attuali preclusioni assolute codificate nell’art. 4bis ord. penit. in ostacoli di natura soltanto relativa, o qualora si introduca un sistema imperniato sull’espiazione di quote predeterminate di pena, il problema rimarrebbe circoscritto alle ipotesi concernenti le condanne per i c.d. “delitti di mafia”, in relazione ai quali – con l’avallo della Corte di Strasburgo – il sistema potrebbe rimanere sostanzialmente caratterizzato dalla subordinazione dell’accesso ai benefici penitenziari alla prestata collaborazione con la giustizia. In rapporto a tali fattispecie, la pena dell’ergastolo si configurerebbe, in effetti, quale ultima fattispecie di pena perpetua. Certamente, occorre considerare che, in tali residue ipotesi, l’ordinamento non preclude(rebbe) in termini assoluti uno sviluppo esecutivo di tipo extramurario, poiché tale favorevole percorso resta (e resterebbe) pur sempre consentito a seguito della accertata collaborazione del condannato. Vi sono, tuttavia, ipotesi in cui tale presupposto – a prescindere dalle già codificate ipotesi di collaborazione “impossibile” o “inesigibile” – si ravvisa come un requisito eccessivamente gravoso per il soggetto interessato, soprattutto nei casi in cui egli, di fronte alla prospettiva di una condanna all’ergastolo, si trovi nella drammatica alternativa tra la collaborazione con la giustizia (con i correlati rischi per la sorte dei propri cari esposti alle “vendette trasversali”) e il silenzio, che tuttavia equivale - a normativa vigente - alla pena perpetua. Una soluzione potrebbe, allora, intravedersi nella strutturazione di un percorso graviore di accesso ai benefici per gli ergastolani “non collaboratori” (prevedendo, a es., soglie più elevate di pena da espiare per l’ammissibilità di misure extramurarie rispetto alle altre fattispecie contemplate nell’art. 4bis ord. penit.); ovvero nella possibilità di riservare a tali soggetti l’accesso alla liberazione condizionale alla duplice condizione della intervenuta espiazione di un congruo periodo di detenzione normativamente predeterminato e dell’accertamento, da parte del giudice, della dissociazione del soggetto dal sodalizio mafioso di appartenenza.
2.3. L’intervento soppressivo dell’art. 47-ter, comma 9-bis, ord. penit.
Ad analoghe ragioni risponde la proposta di soppressione dell’art. 47ter, comma 9-bis, ord. penit. , che importa un divieto assoluto di concessione di qualsiasi misura penitenziaria al condannato il quale abbia subito la revoca della detenzione domiciliare di cui all’art. 47ter, comma 1bis ord. penit. Tale preclusione appare, infatti, incompatibile con il dettato costituzionale in materia di finalità rieducativa della pena, al pari di ogni altra preclusione di natura assoluta all’accesso ai benefici penitenziari che non lasci al giudice di sorveglianza alcun margine di autonomia nel valutare se – nel caso concreto - le caratteristiche della condotta e la personalità del condannato impongano il diniego all’accesso ad ulteriori benefici penitenziari in seguito alla revoca di una precedente misura alternativa al carcere.
La proposta abrogativa della disposizione in esame riprende una analoga ipotesi elaborata dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Giostra, istituita nel 2013 presso l’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia. Secondo l’avviso di tale organo consultivo, invero, << il divieto assoluto di concessione di qualsiasi misura penitenziaria al condannato che ha subito la revoca della detenzione domiciliare. Tale divieto si connota per numerose criticità, tanto sul piano tecnico e criminologico (l’inammissibilità configurata dal disposto normativo si riferisce
incongruamente alla pena residua, e non già alla persona), quanto su quello applicativo (il riferimento alle "misure sostitutive" che formano oggetto della preclusione sembrerebbe lasciare fuori dall’ambito di operatività il beneficio della semilibertà, che propriamente non si configura quale misura sostitutiva o alternativa alla detenzione). Infine, occorre considerare che anche la più recente giurisprudenza costituzionale ha ribadito l’incompatibilità con la finalità rieducativa della pena di ogni preclusione di natura assoluta all’accesso ai benefici penitenziari che non lasci al giudice di sorveglianza la possibilità di verificare se le caratteristiche della condotta e la personalità del condannato giustifichino la regressione trattamentale imposta in seguito alla revoca di una precedente misura alternativa al carcere (Corte cost., sent. n. 189/2010). In tale prospettiva, pare in definitiva auspicabile l’espunzione della disposizione in esame che, introducendo una preclusione assoluta e insuperabile all’accesso a qualsivoglia beneficio penitenziario appare irragionevole rispetto alla stessa preclusione introdotta con riferimento ai reati gravissimi di cui all’art. 4-bis, comma 1, che pure recede a fronte di condotte collaborative del condannato.>> (relazione allo schema di modifiche normative allegato alla Relazione finale della Commissione “Giostra”).
CARLO FIORIO
Contributo di
Carlo Fiorio
Straordinario di Diritto processuale penale Università degli Studi di Perugia
SOMMARIO: 1. Modifiche alla formulazione del criterio direttivo. 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio