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Modifica della formulazione del criterio direttivo: semplificazione e razionalizza zione.

Sembrano passati secoli da quando il legislatore processuale delegato traduceva, negli artt. 678 e seg., la direttiva (n. 96) che esigeva «garanzie di giurisdizionalità nella fase della esecuzione, con riferimento ai provvedimenti concernenti le pene e le misure di sicurezza; obbligo di notificare o comunicare al difensore, a pena di nullità, i provvedimenti suddetti; necessità del contraddittorio nei procedimenti incidentali, in materia di esecuzione; necessità di un giudizio di effettiva pericolosità ove questa debba essere accertata per l'applicazione, l'esecuzione o la revoca delle misure di sicurezza; impugnabilità dei provvedimenti del giudice». Ha un vago sapore vintage anche l’ulteriore direttiva (n. 101) che imponeva la «previsione del contraddittorio nel processo di riabilitazione; giudizio senza formalità e in camera di consiglio; acquisizione d'ufficio della documentazione processuale».

Per fronteggiare il crescente carico di lavoro in quotidiana entrata negli uffici di sorveglianza a seguito delle riforme post-Torreggiani, la delega in oggetto pare voler introdurre un nuovo concetto di giurisdizionalità “sostenibile”: la semplificazione delle procedure viene principalmente intesa, più che come razionalizzazione dei molteplici modelli attualmente presenti (come fu, a suo tempo, per la direttiva n. 98 della legge delega del c.p.p.), o in termini di snellimento processuale (sempre per tornare alla legge delega del c.p.p., «eliminazione di ogni atto o attività non essenziale»), come vera e propria contrazione dell’attività giurisdizionale cum et coram partibus, da realizzare «anche» - ma più verosimilmente «soprattutto» - con l’incremento dei modelli differenziati “per difetto” rispetto al procedimento di sorveglianza.

Se, in merito a quest’accezione del termine «semplificazione», l’obiettivo si sposta sulle modalità di attuazione del criterio (v. infra, § 2), si potrebbe anzitutto prendere in considerazione l’idea di introdurre nella legge di delega un esplicito riferimento alla «riduzione» e alla «razionalizzazione/riassetto» delle procedure. Per chiarire meglio il senso di questa considerazione, basta ricordare che, attualmente, mentre il giudice dell’esecuzione giudica o in contraddittorio ex art. 666 c.p.p., oppure

de plano, salva successiva opposizione, ex art. 667 comma 4 c.p.p., il magistrato di

sorveglianza, quando non giudica in contraddittorio (ad es., art. 679 c.p.p.), adotta provvedimenti che possono essere a volte oggetto di reclamo (ad es., art. 54 ord. penit.), altre volte di opposizione (ad es., art. 660 c.p.p.), altre volte ancora di ricorso per cassazione (ad es., art. 47-ter comma 4 ord. penit.). E anche quando adotta la procedura camerale, la sua ordinanza può essere oggetto di appello (art. 680 c.p.p.), reclamo (art. 35-bis comma 4 ord. penit.), o ricorso per cassazione (ad es., art. 148 c.p.).

Ad ulteriore testimonianza del fatto che la previsione del contraddittorio differito non necessariamente è sinonimo di semplificazione, basti ricordare che il settore dei reclami giurisdizionali in ambito penitenziario offre un campionario fin troppo ricco, con modelli caratterizzati da livelli crescenti di garanzie: quello “semplificato” ex art. 14-ter ord. penit., quello “misto” previsto in materia di censura sulla corrispondenza (art. 18-ter comma 6 ord. penit.) e quello che sfocia nel procedimento di sorveglianza (ad es., artt. 35-bis e 69-bis ord. penit.).

Se, poi, si tenta di associare ciascun modello allo specifico settore nel quale esso dovrebbe trovare applicazione, emergono incongruenze macroscopiche: così, nel procedimento conseguente al reclamo in materia di applicazione del regime di sorveglianza particolare (che presuppone una rilevante pericolosità penitenziaria del detenuto), il reclamante non ha diritto di partecipare all’udienza, mentre nel procedimento che si instaura a seguito di reclamo avverso una lieve sanzione disciplinare tale diritto, seppur con i limiti di cui all’art. 666 comma 4 c.p.p., è riconosciuto. Lo stesso avviene in materia di corrispondenza: se il detenuto sporge reclamo perché una lettera a lui inviata è stata trattenuta con provvedimento dell’ a.g. non ha diritto di comparire davanti al giudice; facoltà che può invece esercitare se il suo reclamo riguarda un semplice ritardo nella consegna, imputabile alle negligenze dell’amministrazione penitenziaria.

In sostanza, se non si specifica che la semplificazione dovrebbe passare attraverso la riduzione e la riconfigurazione – in funzione della specificità dell’oggetto di accertamento – delle procedure adottate dalla magistratura di sorveglianza (si può trarre qualche spunto, mutatis mutandis, dalla delega per il riassetto del processo amministrativo, contenuta nell’art. 44 legge 18 giugno 2009 n. 69), può sorgere il rischio che il legislatore delegato si limiti ad un ulteriore “declassamento” di taluni settori d’intervento: vale a dire, ad un arricchimento delle ipotesi attualmente contemplate dall’art. 678 comma 1-bis c.p.p. Con la conseguenza che, da un lato, si finirebbe inevitabilmente per coinvolgere nel cammino “a ritroso” anche le misure alternative alla detenzione e le misure di sicurezza (v. infra, 1.3); dall’altro, che alcuni istituti – il pensiero va, in particolare, al lavoro all’esterno, ai ricoveri ex art. 11 ord. penit., ma anche all’espulsione quale sanzione alternativa – resterebbero esclusi, per la loro natura asseritamente amministrativa, dalla complessiva opera di “redistribuzione” della giurisdizione.

MASSIMO RUARO

1.2. Contraddittorio differito e contraddittorio eventuale.

Benché l’inserimento della congiunzione «anche» sembrerebbe lasciare il legislatore delegato libero di perseguire l’obiettivo della semplificazione attraverso percorsi alternativi rispetto alla de-giurisdizionalizzazione – ferma restando l’impossibilità di operare una ridistribuzione delle competenze tra giudice monocratico e collegio, profilo che non viene in alcun modo menzionato dalla disposizione in esame – pare evidente che il perno sul quale dovrebbe ruotare la riforma della giurisdizione penitenziaria sia l’abbandono della corrispondenza biunivoca tra misure alternative e procedimento di sorveglianza, che resiste dal 1975.

Per la verità, tale simmetria è già stata indebolita da un’opera di “erosione ai fianchi”, iniziata nel 1998, con l’introduzione dell’art. 656 comma 10 c.p.p. (riguardante la concedibilità de plano della detenzione domiciliare a chi si trovasse agli arresti domiciliari al momento del passaggio in giudicato della condanna a pena infratriennale), e proseguita con l’introduzione dell’art. 69-bis ord. penit., che ha sdoganato il modello a contraddittorio eventuale e posticipato, applicato poi all’indultino e all’esecuzione presso il domicilio. Ultima vittima della de- giurisdizionalizzazione è stata la declaratoria di cessazione/prosecuzione della misura alternativa per sopravvenienza di nuovo titolo (art. 51-bis ord. penit.).

Prima di verificare se sia o meno il caso di assestare il colpo di grazia, vale la pena di riflettere sull’accezione dei due attributi che definiscono il contraddittorio “debole”: «differito» significa successivo all’adozione del provvedimento che decide sulla domanda, mentre «eventuale» significa attivabile soltanto in base ad una specifica iniziativa della parte (interessato o p.m.). La precisazione è d’obbligo perché i termini dell’endiadi, accostati nella disposizione in esame, restano concettualmente distinti: si può avere contraddittorio differito ed eventuale nei casi previsti dagli artt. 69-bis comma 3 ord. penit. e 667 comma 4 c.p.p. (di fronte al provvedimento emesso de plano, le parti propongono reclamo od opposizione, dal che consegue la fissazione dell’udienza); il contraddittorio è differito ma non eventuale nei casi previsti, ad esempio, dagli artt. 47 comma 4 ord. penit. art. 684 c.p.p., in cui il provvedimento interinale del magistrato di sorveglianza che applica provvisoriamente la misura è sottoposto alla necessaria verifica in udienza camerale da parte del collegio, entro un termine previsto dalla legge. In teoria, si può verificare anche un’ipotesi di contraddittorio eventuale ma non

differito: ai sensi dell’art. 69-bis comma 5 ord. penit., «ove nel corso dei procedimenti

previsti dall'articolo 70, comma 1, sia stata presentata istanza per la concessione della liberazione anticipata», il tribunale di sorveglianza può decidere di esaminarla

contestualmente in udienza, anziché trasmetterla al giudice monocratico.

L’importante è evidenziare che la formulazione della direttiva suggerisce implicitamente l’adozione del paradigma che presenta entrambi i connotati. Di talché, nulla vieterebbe che i modelli in esame venissero combinati tra loro: si pensi alla richiesta di provvisoria applicazione dell’affidamento in prova, seguita da ordinanza emessa de plano dal magistrato di sorveglianza e trasmessa al collegio, chiamato a decidere, sempre de plano, se disporre in via definitiva la misura, con possibilità per l’interessato e il p.m. di presentare opposizione, all’esito della quale (finalmente)

verrebbe instaurato il contraddittorio. Viceversa, il legislatore delegato potrebbe ridurre, senza rischiare di violare l’art. 76 Cost., il sistema dei provvedimenti “interinali” previsto in materia di misure alternative, sostituendolo con l’immediata devoluzione della regiudicanda al collegio, chiamato a pronunciarsi ex art. 667 comma 4 c.p.p. Considerata, tuttavia, l’utilità di tali meccanismi – ancor più dopo la novellazione dell’art. 47 comma 4 ord. penit. ad opera del decreto legislativo 23 dicembre 2013 n. 146 – e la discutibile assenza di un analogo sistema “cautelare” nel settore delle misure di sicurezza, si potrebbe considerare l’eventualità di prevedere l’impiego di modelli a contraddittorio «differito o eventuale», in modo da non precludere al legislatore delegato l’opzione volta a conservare le garanzie processuali più evolute in una fase successiva, ma pur sempre necessaria.

1.3. Verso una concessione de plano delle misure alternative?

Venendo al punctum dolens della previsione, dopo la riscrittura dell’art. 678 c.p.p. ad opera del decreto legge n. 146 del 2013 non restano molti settori in cui il legislatore delegato dovrebbe procedere al passaggio dal contraddittorio “pieno” a quello eventuale e differito. Come risulta anche dalla lettura a contrario della clausola eccettuativa, l’operazione che si vorrebbe compiere con il criterio in esame trova il suo naturale sbocco nel settore della concessione delle misure alternative alla detenzione.

E’ sinceramente difficile, per chi si è avvicinato allo studio del diritto penitenziario proprio iniziando dal raccordo con la disciplina processualpenalistica, calarsi in questa nuova prospettiva senza mettere in discussione molte delle proprie convinzioni, a partire dal “dogma” della giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale.

Bisognerebbe rimuovere dalla memoria gli insegnamenti della Consulta (sent. n. 204 del 1974), secondo cui la rinuncia alla pretesa punitiva nei confronti del condannato deve avvenire «con tutte le garanzie sia per lo Stato che per il condannato stesso». Anche ragionando in termini più attuali, bisognerebbe far finta di non sapere che il modello previsto dall’art. 667 comma 4 c.p.p. trova da sempre applicazione residuale nell’ambito dell’esecuzione penale, lasciando opportunamente il posto, per tutte le questioni di maggiore complessità oggettiva e più incisiva rilevanza sul piano dei diritti del condannato (ad esempio, artt. 671 e 673 c.p.p.), all’incidente di esecuzione. A tal punto che la giurisprudenza di legittimità non ritiene sanzionabile in alcun modo la scelta del giudice che, di fronte ad una questione particolarmente complessa (ad esempio in tema di confisca ex art. 676 c.p.p.) scelga di scartare la procedura de plano a favore di quella partecipata; ed anzi ritiene ammissibile l’opposizione anche avverso il provvedimento emesso in contraddittorio (orientamento che, detto per incidens, nel settore in esame vanificherebbe tutti i propositi di semplificazione alla base della delega).

Anche allargando la prospettiva d’analisi, verrebbe però da domandarsi per quale ragione un modello processuale che, nell’ambito del procedimento di cognizione, ha un perimetro applicativo circoscritto, non sconfinante nel settore della libertà

MASSIMO RUARO

personale (si allude ovviamente al procedimento per decreto), debba invece essere elevato al ruolo di vedette nella giurisdizione di sorveglianza. A chi invocasse le immancabili esigenze di contrazione dei tempi di risposta giurisdizionale, si potrebbe obiettare che nel settore de libertate, caratterizzato dalla medesima situazione di urgenza, l’istanza di revoca della custodia cautelare sfocia in un procedimento solo apparentemente de plano, poiché il giudice deve sentire il pubblico ministero e, quel che più importa, assumere l’interrogatorio dell’indagato che ne abbia fatto richiesta ogni qual volta emerga un quid novi (art. 299 c.p.p.).

Ovviamente, il discorso riguarda l’opportunità della scelta, e non – almeno all’apparenza – la sua legittimità costituzionale: premessa la «piena compatibilità con il diritto di difesa dei modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito», ribadita dalla Consulta con le ordinanze n. 291 del 2005 e n. 352 del 2003, ci si potrebbe però legittimamente interrogare sulla validità, con riferimento alle misure alternative, delle considerazioni, espresse dalla Consulta (ord. n. 291 del 2005) a proposito della liberazione anticipata, secondo cui «la previsione del procedimento de plano giov[a] senz'altro alla rapidità della decisione in rapporto al complesso delle istanze in parola, rispetto alle quali, come accennato, è in fatto nettamente preponderante la percentuale dei

provvedimenti di accoglimento». D’altronde, la stessa Consulta ha opportunamente

puntualizzato che «la previsione di una procedura a contraddittorio differito, in materia di liberazione anticipata, si giustifica difatti - sulla scorta di una valutazione legislativa non irrazionale - alla luce delle peculiarità e delle particolari esigenze operative

dello specifico istituto: istituto che, tra l'altro - per diffuso convincimento - si differenzia, già sul piano strutturale, dal complesso delle misure alternative alla detenzione in senso stretto».

Resterebbe, in ogni caso, il problema legato al rispetto dell’art. 3 Cost.: per evitare irragionevoli disparità di trattamento, la nuova configurazione dovrebbe abbracciare anche la concessione della liberazione condizionale e del rinvio dell’esecuzione della pena, nonché la revoca delle misure di sicurezza (tutte caratterizzate dalla medesima natura di “giudizio sull’uomo” e dall’incidenza diretta sulla libertà personale).

Sul piano dell’opportunità, non si può non evidenziare che la procedura a contraddittorio differito produce risultati deteriori, in termini di completezza ed attendibilità dell’accertamento, rispetto al modello giurisdizionale più evoluto, in quanto ne sterilizza le peculiarità più salienti. Tant’è vero che il reclamo ex art. 69-bis ord. penit. è stato impiegato in relazione ad istituti caratterizzati da pseudo- automatismi applicativi, come l’indultino e l’esecuzione presso il domicilio, ed anche il modello semplificato ex art. 667 comma 4 e 678 comma 1-bis c.p.p. è associato a provvedimenti che, almeno nella maggior parte dei casi, possono essere emessi a seguito di istruttorie non particolarmente complesse.

La conclusione è ovvia con riferimento alla fase de plano. Ipotizziamo che un’istanza di affidamento in prova sia esaminata con la procedura ex art. 667 comma 4 c.p.p.: il tribunale di sorveglianza perviene alla decisione senza che il difensore e il p.m. possano interloquire sulla sussistenza dei requisiti per ottenere la misura e, quel che è più importante, senza che i componenti “esperti” siano messi in condizione di cogliere,

attraverso la partecipazione personale del condannato, quelle sfumature caratteriali che avrebbero suggerito spunti di riflessione sia ai fini di un supplemento istruttorio, sia in sede deliberativa. Quanto al possibile “recupero” di tali momenti argomentativi nella fase successiva, vale la pena di ricordare che essa è prevista solo come eventuale, e che qualsiasi decisione già assunta determina su chi riesamina la stessa regiudicanda – ancor più se si tratta del medesimo organo in tutti i suoi componenti – una naturale propensione a non smentire le proprie precedenti conclusioni.

Per evitare di concludere che la direttiva in esame potrebbe essere migliorata … rimuovendola, ci si deve porre allora nell’ordine di idee secondo cui si tratta di una rinuncia dolorosa ma in qualche modo inevitabile, e tentare di individuare, tra i possibili modelli a contraddittorio posticipato, quello che si discosti il meno possibile – quanto a livello di garanzie e idoneità all’accertamento dei presupposti applicativi della misura – dall’originario paradigma. Non prima, però, di aver interpretato il senso dell’inciso «fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione».

1.4. La clausola eccettuativa.

La revoca delle misure alternative alla detenzione è l’unico settore che, pur potendo essere interessato dall’opera di semplificazione procedurale, non potrebbe perdere la garanzia della giurisdizionalità “piena”. A prescindere dalle considerazioni di merito, sarebbe più opportuno limitare la portata della clausola al contraddittorio «eventuale»: per come è strutturato il meccanismo di revoca delle misure alternative (art. 51-ter ord. penit.), già attualmente il contraddittorio di fronte al collegio è «differito», ancorché sia previsto come necessario a seguito della trasmissione degli atti da parte del giudice monocratico.

La ratio sottostante alla previsione è facilmente decifrabile: nel procedimento di revoca il condannato deve rispondere di due “accuse”, senza nemmeno lo scudo della presunzione di non colpevolezza (basti pensare che, sempre nell’art. 51-ter ord. penit., egli è fin da subito etichettato come «trasgressore»): quella – diretta e oggettiva – di aver violato le prescrizioni e quella – indiretta e soggettiva – di non meritare la prosecuzione in forma extramuraria della pena. Per di più, in caso di revoca, al ripristino dello status detentionis si accompagnano – si spera, ancora per poco – gli automatismi preclusivi previsti dall’art. 58-quater ord. penit.

Sulla base di tali premesse (necessità di una difesa anche “in facto”; incidenza in senso fortemente peggiorativo sullo status libertatis), appare allora conforme ai parametri costituzionali e sovranazionali riconoscere al condannato la pienezza del contraddittorio, con compiuta esplicazione della difesa sia personale che tecnica. Tuttavia, analoghe esigenze si ripropongono in relazione ad altri provvedimenti, come la revoca della liberazione anticipata, la declaratoria di esito negativo dell’affidamento in prova (ad oggi già discutibilmente inserita tra i provvedimenti a contraddittorio posticipato), la conversione delle sanzioni sostitutive e, soprattutto, l’applicazione o la sostituzione in peius delle misure di sicurezza: con particolare riferimento a queste

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ultime materie, un eventuale intervento in senso restrittivo da parte del legislatore delegato, pur conforme all’art. 76 Cost., determinerebbe una violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.

Ad ogni buon conto, mantenere il contraddittorio “pieno” per la revoca delle misure alternative potrebbe rivelarsi un’operazione di facciata se, contemporaneamente, non si provvedesse a rimuovere le più vistose incrostazioni inquisitorie della procedura: si allude all’attivazione ex officio da parte del magistrato di sorveglianza (da sostituire con l’iniziativa del p.m., così come è stato fatto in relazione all’art. 51-bis ord. penit.) e alla mancata previsione di una causa di incompatibilità dello stesso in relazione alla fase camerale di fronte al collegio.

Quel che non convince del tutto, però, è la linea di demarcazione così netta che si vorrebbe tracciare fra concessione e revoca delle misure alternative: pensando soprattutto a chi abbia beneficiato della sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656 comma 5 c.p.p., non è azzardato sostenere che la mancata concessione della misura extramuraria da parte del tribunale di sorveglianza, cui consegue la revoca del provvedimento sospensivo, equivale ad una perdita dello status libertatis non dissimile da quella conseguente alla revoca dell’affidamento in prova. Per non parlare della situazione di chi si trovi agli arresti domiciliari ex art. 656 comma 10 c.p.p. e violi una delle prescrizioni: è evidente che la decisione sulla mancata concessione della misura alternativa è, nella sostanza, un provvedimento ablatorio, tant’è vero che parte della giurisprudenza ammette che la detenzione domiciliare possa essere revocata … ancor prima di essere concessa. Per chi si trovi in vinculis va ricordato che, in ragione dell’operatività del “giudicato esecutivo” di cui all’art. 666 comma 2 c.p.p., la mancata concessione di una misura alternativa ha come ulteriore effetto quello di rendere inutile la riproposizione di una nuova istanza fino a quando gli operatori trattamentali – oberati da carichi di lavoro spesso insostenibili – non abbiano attestato un mutamento in melius del profilo psico-sociale del condannato.

In sostanza, una volta eliminate le odiose preclusioni di cui all’art. 58-quater ord. penit., la distanza che separa la privazione della libertà personale (a seguito di revoca della misura alternativa) dal mancato riacquisto, anche parziale, della stessa (a seguito di mancata concessione) pare oggettivamente destinata ad assottigliarsi.

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