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Suggerimenti per l’attuazione del criterio: gradualità e progressività.

con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse;

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio: gradualità e progressività.

L’attuazione del criterio, quale riformulato, richiede che le misure alternative siano ordinate secondo una scala crescente di recupero di spazi di libertà nella logica della progressione trattamentale. Si tratta di un paradigma già adombrato dalla disciplina dell’ordinamento penitenziario ove, infatti, liberazione anticipata, permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale delineano un percorso trattamentale appunto progressivo. Quello che si intende proporre è un percorso a passaggi graduali da percorrere necessariamente e senza salti: in ipotesi, permessi premio, lavoro all’esterno, semilibertà (da prevedere espressamente anche per attività di volontariato così da dilatare il ventaglio delle opportunità ricavabili dalla formulazione dell’art. 48 comma 1 ord. penit.: … “per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento del sociale”), licenze e liberazione condizionale.

Al fine di favorire in concreto l’accesso del condannato a simile itinerario e, in sostanza, il suo successo, è preferibile fare leva sui presupposti soggettivi piuttosto che sui limiti della pena: questi diventerebbero pressoché irrilevanti, nel senso che l’entità della pena inflitta non vale – di regola (v. infra) – a delimitare il perimetro applicativo delle alternative; non solo tutti i condannati dovrebbero potersi avvalere del percorso trattamentale progressivo, ma anche e specialmente dovrebbero venire meno l’attuale fungibilità delle misure e la loro parziale sovrapposizione.

Dovrebbe valere, invece, un limite di pena espiata (variabile per ciascun condannato, poiché predeterminato in misura percentuale rispetto alla pena inflitta: es. 1/4; 1/3) quale presupposto per l’accesso sia alla alternativa individuata come prima

nella scala della graduatoria sia quanto alle successive: in altre parole, l’applicazione di ciascuna sarebbe filtrata dalla valutazione positiva dei risultati del trattamento (intramurario/alternativo) svolto per un periodo di tempo (pena espiata) reputato ragionevole al fine. Ciò in considerazione della diversa – prevedibile – composizione della popolazione di detenuti in esecuzione di pena (autori di reati di elevata gravità o con rilevante carriera criminale, condannati a pene di non breve durata). D’altro canto sono le acquisizioni criminologiche ad aver messo in luce la difficoltà, per taluni autori di reati, di programmare il loro comportamento in vista dei traguardi ambiziosi, resi possibili dalle misure alternative di maggiore favore in termini di allentamento della segregazione carceraria. Avendo presente simile condivisibile opinione, la liberazione anticipata (da rimodulare in termini più congrui: es. 20 gg. al semestre con valutazione necessariamente frazionata, relativa cioè al singolo semestre) resterebbe applicabile al solo scopo di rendere più prossimo - incentivando l’integrazione del requisito comportamentale richiesto - l’accesso alla prima tappa del percorso progressivo. Questo, una volta intrapreso, offrendo spazi sempre più ampi di libertà si presta a sostituire di per sé quel premio (riduzione di pena) ora prospettato e conseguito con l’applicazione della liberazione anticipata. Resta da segnalare la necessità di individuare livelli di pena espiata coordinati, così da favorire il passaggio dalla tappa meno favorevole a quella più favorevole secondo lo schema della progressività: il problema (attualmente) si pone in particolare tra semilibertà e liberazione condizionale per le quali i limiti di pena previsti (rispettivamente, metà della pena e trenta mesi) contraddicono la progressione tra le misure; da valutare anche l’opportunità di considerare il quantum di pena residuo nella definizione della progressione trattamentale.

Sul piano dei presupposti soggettivi, proprio la logica della progressione impone la loro taratura secondo un ordine, a sua volta, di sempre più consistente impegno comportamentale di risposta al trattamento e di corretta fruizione della alternativa già applicata. Da non trascurare che sarebbe proprio la conquista della tappa (misura alternativa) meno favorevole a rafforzare simile impegno in vista dell’accesso a quella successiva, di maggiore favore e a rendere conveniente per il condannato praticare il percorso progressivo, ma, prima ancora, rendersi disponibile ad esso. Si può rilevare, inoltre, che, in questa prospettiva, ciascuna misura applicata assumerebbe un ruolo propedeutico a quella ulteriore e valenza sperimentale, idonea a fornire elementi di valutazione in proposito - sempre di tipo soggettivo - al giudice di sorveglianza.

Quanto appare sacrificato dalla previsione di un percorso trattamentale a segmenti obbligatoriamente da svolgere, verrebbe recuperato nella delineazione dei contenuti della singola misura applicata; pur attingendo da un arsenale di omogenea attitudine risocializzativa e contenitiva del rischio di recidiva, la loro previsione sarebbe individualizzata, vale a dire prescrizioni, divieti, interventi di sostegno e controlli sarebbero variabili poiché ritagliati sulle specifiche esigenze di reinserimento sociale e sulla pericolosità del condannato. Pure questo versante non si discosta dalla logica della progressione: al recupero dimostrato nell’adempimento degli obblighi inerenti alla misura applicata corrisponde un progressivo ampliato spazio di libertà;

ADONELLA PRESUTTI

alla affidabilità dimostrata nella corretta gestione del quantum di libertà conquistato corrisponde un progressivo allentamento dei controlli.

Ad evitare una caduta di appetibilità del percorso progressivo, che potrebbe disincentivare la “collaborazione trattamentale” del condannato, sarebbe opportuno prevedere che eventuali insuccessi – mancata integrazione dei presupposti soggettivi o riscontrata inidoneità alla applicazione della misura che, nell’ordine immaginato, segue – non determino un arresto tout court del percorso intrapreso, ma semmai l’esigenza di rinnovare quella già applicata per un periodo ulteriore, predeterminato in ragione del tipo di disagio e/o difficoltà palesati, con adattamento delle sue modalità esecutive e incrementando gli interventi trattamentali intramurari.

Non si possono tralasciare conseguenze “sanzionatorie” per i casi di inosservanza delle prescrizioni inerenti alla misura applicata (tra le quali, in particolare, il mancato rientro) e di eventuale commissione di reati durante la sua fruizione: circa la prima ipotesi, pare appropriato stabilire, insieme con la revoca della misura, l’impedimento all’accesso a quella successiva per un arco temporale commisurato alla gravità della violazione, da determinarsi in concreto dal giudice entro limiti minimi e massimi fissati ex lege ; quanto alla seconda ipotesi, potrebbe valere, a lato della revoca, una soluzione analoga a quella contemplata dall’art. 51-bis ord. penit., vale a dire l’esclusione dal computo della pena espiata del periodo per il quale è stata applicata la misura. Riducendo il quantum di pena espiata, il condannato si troverebbe nella situazione di arretrare nel percorso progressivo. Entrambe le “sanzioni”, sebbene aggravino gli effetti della revoca, costituiscono per il condannato “rinforzi positivi” del comportamento preteso dalla misura applicata.

Lo scenario tratteggiato, come è evidente, scalza la funzionalità delle misure alternative alle prevalenti esigenze della istituzione penitenziaria (sfoltimento della popolazione detenuta) a vantaggio di quelle imposte da una esecuzione penale costituzionalmente orientata, utile al condannato e vantaggiosa per la società. Per meglio chiarire, richiedere, ai fini della applicazione delle misure seguendo la progressione trattamentale, la verifica giudiziale di un risultato positivo, nella gestione da parte del condannato della alternativa già acquisita, fornisce dati probatori circa l’efficacia del recupero sociale avviato e, in ultima analisi, produce effetti rassicuranti sul piano della tutela della collettività.

La praticabilità dell’itinerario trattamentale progressivo, tuttavia, si presenta non agevole a fronte di pene detentive di breve durata, che non paiono destinate a scomparire: stando a quanto stabilito dall’art. 1 comma 1 lett. f l. 67/2014, si ammette, infatti, la pena detentiva per sostituzione di quelle domiciliari (reclusione e arresto) in presenza di situazioni che si reputano esigere una risposta detentiva: indisponibilità di un domicilio idoneo ad assicurare la custodia del condannato; violazione delle prescrizioni dettate o commissione di ulteriore reato (lett. f). A prescindere da come concretamente sarà tradotto il criterio direttivo della delega e fermo restando che il fattore causativo del ritorno alla segregazione carceraria, nelle ipotesi prefigurate dalla delega stessa, non è indifferente (peraltro, circa la violazione delle prescrizioni dettate rileva il momento in cui verificatesi, nel senso che la sostituzione in peius potrebbe intervenire in prossimità del fine pena determinando l’incarcerazione per un tempo

esiguo, appunto, di breve detenzione; quanto alla commissione dell’ulteriore reato, l’incarcerazione ad effetto sanzionatorio potrebbe valere a far rifluire il condannato nel percorso progressivo “ordinario” con limiti di pena espiata, da calibrare), in generale, con riferimento a pene carcerarie di durata contenuta, è lo stesso arco temporale circoscritto della esecuzione a suggerire una diversa articolazione del trattamento progressivo: al riguardo, lavoro all’esterno e semilibertà risultano istituti idonei ad attenuare il rigore della detenzione piena attivando un percorso virtuoso di risocializzazione. La loro applicazione poggerebbe su limiti di pena inflitta – elemento sintomatico della gravità del reato e della capacità a delinquere del condannato – differenziati in relazione al maggior favore (libertà) connesso a ciascuna misura in questo caso da applicare in alternativa; la progressività sarebbe rimessa alla valutazione del caso concreto e attuata con previa sperimentazione di permessi premio con durata da dosare volta a volta anche a prescindere da quella massima stabilita dall’art. 30 ord. penit. e con incremento dei controlli; di natura di per sé sperimentale e propedeutica al recupero della libertà per fine pena, la semilibertà garantisce flessibilità esecutiva mediante la concessione di licenze con annessa libertà vigilata (art. 52 ord. penit.), regime sufficiente a soddisfare istanze di controllo.

Da ultimo, quanto ai condannati per reati della criminalità organizzata, a questi resta destinata la previsione dell’art. 4-bis ord. penit. una volta rivisitata alla stregua del criterio direttivo sub c: al riguardo, è persino superfluo segnalare l’esigenza che il suo ambito prescrittivo sia sfoltito con rimozione delle fattispecie di reati via via aggregate, per le note motivazioni securitarie, al nucleo primigenio, da confermare nella sua esclusiva attinenza ai delitti di “mafia”.

Senza entrare nel merito della opzione legislativa di subordinare la fruizione dei “benefici” penitenziari a condotte di collaborazione processuale, ma tenendo presente che mancate collaborazioni possono essere ricondotte a motivi personali non necessariamente sintomatici di persistente pericolosità, non pare costituzionalmente consentito né conveniente rinunciare al trattamento progressivo: piuttosto sarebbe da individuare un percorso più severo, circa limiti di pena espiata, presupposti soggettivi e misure alternative, rapportati alla gravità del reato per cui sia stata applicata condanna se non addirittura ammettere l’accesso a quello “ordinario” previo accertamento della rottura dei rapporti con l’organizzazione criminale. Si tratta di soluzione mutuabile dal ripetuto insegnamento della Corte costituzionale che, intervenuta a proposito della previsione dell’art. 275 comma 3 c.p.p., ha trasformato in relativa la presunzione assoluta a base della applicazione della cautela processuale più drastica (custodia in carcere); in tale direzione, del resto, si è mossa la recente riforma dell’art. 275 comma 3, secondo periodo c.p.p. (v. d.d.l. n. 1232 approvato in via definitiva dal Senato il 9 aprile 2015).

2.1 Mutilazioni e rettifiche non evitabili.

ADONELLA PRESUTTI

Anzitutto, è estranea alla ipotesi riformatrice indicata, poiché incompatibile con essa, la persistente operatività del congegno di cui all’art. 656 comma 5 ss. c.p.p., momento di autentica crisi nei rapporti tra fase della cognizione e fase della esecuzione poiché la sospensione della esecutività della condanna vanifica la fatica del processo più che non anticipare la fruizione delle misure alternative (specialmente a seguito delle innovazioni apportate dal d.l. n. 78/ 2013 conv. l. n. 94/2013 da cui la configurazione della paradossale categoria di “condannati in attesa di sospensione” che si affianca a quella già imbarazzante dei “liberi sospesi”). Senza indulgere a troppo ottimistiche previsioni, il già accennato e più condivisibile arretramento delle istanze deflative nelle sedi edittale e processuale dovrebbe, almeno nel lungo termine, sottrarre il terreno della esecuzione penale al predominio di preoccupazioni legislative tutte incentrate sull’incremento incontrollato della popolazione penitenziaria e rendere superfluo il ricorso a espedienti di sua irrazionale riduzione a priori per contingenti ragioni utilitaristiche.

Il secondo rilievo attiene all’affidamento in prova al servizio sociale, misura alternativa dai contenuti risocializzativi evanescenti e non proposta nell’ambito del panorama delle alternative partecipi della logica progressiva dalla quale, comunque, deve prescinde la sua applicazione. La sua esclusione si giustifica, infatti, in ragione dalla legislativamente ipotizzata – e già accennata – riduzione dell’impiego della detenzione in carcere Ove la sostituzione non fosse consentita ex lege o fosse stata esclusa per apprezzamento discrezionale del giudice (ritenendo inappropriato persino avvalersi delle modalità del controllo elettronico ex criterio direttivo lett. d), l’applicazione, ad opera del giudice di sorveglianza, dell’affidamento in prova (misura che recide i legami con il carcere operando di fatto come sua sostituzione) suonerebbe a smentita, della valutazione di gravità del reato e di capacità a delinquere del condannato, rispettivamente, predeterminata legislativamente o formulata dal giudice della cognizione con rischi, non irrilevanti, di tenuta del rinnovato sistema punitivo. Inoltre, una volta previsto (pur con le tensioni riscontrate sul piano della sua conformità costituzionale1) l’istituto della messa alla prova in sede processuale, sarebbe

difficile giustificare in sede esecutiva un omologo con adempimenti e con finalità risocializzative meno consistenti (con i correlativi effetti di minor attrattiva del primo). Pare, nondimeno, che il terreno di naturale operatività dell’affidamento in prova possa essere quello riferito ai condannati tossico/alcooldipendenti con preordinazione alla finalità terapeutica2 che, unitamente a prescrizioni e controlli, darebbe spessore

risocializzativo al suo contenuto.

1 V., in dettaglio, CESARI, sub art. 464-bis c.p.p., in Conso-Illuminati, Commentario breve al codice

di procedura penale, seconda edizione, Cedam, 2015, 2122 ss.

Contributo di

Paolo Renon

professore associato di procedura penale Università degli Studi di Pavia

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo. –– 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo.

Si propone di sostituire la formulazione contenuta nel disegno di legge con la seguente: “razionalizzazione del sistema delle misure alternative alla detenzione, restituendo

allo stesso una sua interna coerenza”.

Il criterio direttivo in oggetto tocca uno dei punti nevralgici di una qualsiasi riforma, che, come si legge nella Relazione di accompagnamento del disegno di legge AC n. 2798, si prefigga una “risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario”.

L'innovazione preannunciata, appare, però, sul punto, unidirezionalmente orientata nel senso di “facilitare il ricorso” alle misure alternative, da realizzarsi – si precisa – attraverso una ridefinizione dei presupposti, sia con riferimento ai profili soggettivi, sia con riferimento ai limiti di pena.

Ora, anche volendo prescindere dalla considerazione che ad ostacolare il ricorso alle misure de quibus in molti casi non paiono essere oggi tanto le presunte rigidità della disciplina riguardante le relative condizioni di ammissibilità, quanto fattori extra-giuridici (quali, per intere fasce di soggetti, la difficoltà di procurarsi un alloggio adeguato o una fonte di sostentamento economico), va rilevato come un (ulteriore) allentamento degli standard di accesso agli strumenti di esecuzione extra- muraria della pena, non accompagnato dalla predisposizione di un più ampio corredo di interventi, rischi di essere, ad un tempo, inopportuno e inefficace, finendo per riproporre, di fatto, l’idea, ampiamente coltivata dal legislatore in passato, di puntare sulle misure alternative in chiave meramente deflativa della popolazione carceraria.

Sono noti gli effetti collaterali che l’adesione a siffatta impostazione ha, negli anni, determinato. Nella specie, essa ha finito inevitabilmente per determinare una svalutazione dell’istituto stesso delle misure alternative, individuato dal legislatore del 1975 quale via electa per dare attuazione al finalismo rieducativo della pena sancito dall’art.27 Cost.

La scelta si è dimostrata, inoltre, alla lunga distanza inidonea a realizzare gli stessi obiettivi perseguiti.

In proposito, è opinione, largamente e autorevolmente sostenuta, che non sia possibile immaginare di superare quella visione carcero-centrica, che ancora oggi connota il nostro sistema di giustizia penale, soltanto attraverso interventi che si limitino a toccare la materia dell’esecuzione penale. A tale fine si richiede, in una prospettiva non parcellizzata e settoriale, un’azione a più ampio raggio che tocchi,

PAOLO RENON

prima ancora che il diritto penitenziario, quello penale e quello processuale penale. Sotto il primo profilo, si allude alla necessità, per un verso, di un’opera di effettiva depenalizzazione e, per l’altro, di una ridefinizione del catalogo sanzionatorio; sotto il secondo aspetto, il riferimento va alla introduzione di forme di diversion fondate su meccanismi di probation anticipata ovvero di giustizia riparativa o mediativa. Lungo entrambe le suddette direttive si registrano, da ultimo, sul piano legislativo, alcune interessanti novità, già operative (come nel caso dell’istituto del proscioglimento per particolare tenuità del fatto o di quello della sospensione del procedimento con messa alla prova per imputati maggiorenni) o in fieri (per quanto attiene alla delega in tema di depenalizzazione, contenuta nella l. 28 aprile 2014, n.67 e non ancora esercitata), la cui effettiva portata deve essere ancora pienamente valutata.

Si ritiene, quindi, che, fatti salvi alcuni specifici e circoscritti interventi (al fine di superare quelle preclusioni soggettive, all’accesso agli strumenti della c.d. area penale esterna, previste dalla vigente disciplina sulla base di una pericolosità del condannato, presuntivamente dedotta dal titolo di reato commesso o dai precedenti), il problema dell’attuale ancora ampio utilizzo della pena carceraria (in una percentuale molto più alta in Italia rispetto a quanto accade in altri Paesi europei) non richieda, nell’immediato, nuove modifiche alla normativa penitenziaria nel segno dell’ampliamento delle condizioni di accesso alle misure alternative.

Il settore delle misure in oggetto richiede, senz’altro, una rivisitazione, anche profonda, ma impostata su altre e diverse basi.

Il sistema delle misure alternative al carcere, uno dei due pilastri sui quali era destinata a reggersi la riforma realizzata nel 1975, appare oggi – a seguito delle interpolazioni venute a incidere, durante i successivi quaranta anni, sull’originario tessuto normativo – polverizzato in una molteplicità di fattispecie e sotto-fattispecie, difficilmente riconducibili entro coordinate comuni.

Alla luce di tali considerazioni, si avverte l’esigenza di una revisione della vigente disciplina relativa alla c.d. area penale esterna ai fini della razionalizzazione di un quadro normativo che appare oggi alquanto sconnesso e disordinato.

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

L’obiettivo di una razionalizzazione del settore de qua deve passare – si ritiene – attraverso una preliminare distinzione – seguendo una linea per il resto recentemente tracciata dalla Corte costituzionale nella pronuncia n.239 del 2014 – tra le misure alternative, stricto sensu intese, connotate da una finalità oggettivamente rieducativa (da riqualificare, in una prospettiva de iure condendo), e quelle fattispecie di esecuzione extra-muraria della pena (anch’esse, oggi, etichettate, normativamente, quali ipotesi di misure alternative) che sono, in realtà, prioritariamente ispirate all’esigenza di tutela di altri interessi, anche costituzionalmente rilevanti (come, ad esempio, il diritto alla salute), che possono, in determinate situazioni, risultare incompatibili con la detenzione in carcere.

La diversità, sotto il profilo delle finalità perseguite, non può non riflettersi anche sulla regolamentazione, tanto dei presupposti di accesso quanto del contenuto, dei rispettivi istituti. Le problematiche e il relativo approccio non possono infatti, come bene hanno osservato i giudici di Palazzo della Consulta, che mutare a seconda che si tratti di “misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita” ovvero “quando al centro della tutela si collochi un interesse “esterno” ed eterogeneo” (Corte cost. n.239 del 2014, § 9).

DANIELA VERRINA

Contributo di

Daniela Verrina Magistrato di sorveglianza

SOMMARIO: 1. Modifica della formulazione del criterio direttivo. – 2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio

1. Modifica della formulazione del criterio direttivo.

b) revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con

riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, individuazione di forme dedicate di accesso all’esecuzione

penale esterna per i condannati portatori di infermità psichica e coordinamento dei presupposti di sospensione dell’ordine di esecuzione ex art.656 comma 5 c.p.p. con i presupposti di

ammissibilità delle misure alternative1

2. Suggerimenti per l’attuazione del criterio.

La genericità della delega, in materia di revisione dei presupposti di ammissibilità delle misure alternative, e l’assoluta discrezionalità del legislatore nella determinazione dei limiti di pena per l’accesso alle misure stesse costituiscono altrettanti limiti alla possibilità di specificamente interloquire sul punto.

Possono comunque formularsi alcune osservazioni.

Sarebbe d’uopo, innanzitutto, un intervento di razionalizzazione e riordino delle diverse ipotesi di espiazione presso il domicilio previste tanto dall’ordinamento penitenziario quanto da leggi speciali (l. n. 199/2010).

La destinazione al circuito penitenziario dei condannati ai quali sia sopravvenuta un’infermità psichica, ai sensi dell’art. 148 c.p., valutata anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in materia di incompatibilità degli stati di

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