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1.3 Movimenti sociali come soggetti educativi e agenti di trasformazione

1.3.2 Movimenti sociali come laboratori di decolonizzazione dei saper

Mignolo (apud Ballestrin, 2013), nel rivendicare delle radici teorico-pratiche diverse rispetto agli studi post-coloniali, inserisce i grandi movimenti latinoamericani nella genealogia del pensiero decoloniale. Questo nasce, negli anni '90, come movimento di rinnovamento critico ed utopico delle scienze sociali in America Latina, a partire dalla riflessione di un gruppo di intellettuali latinoamericani riuniti nel collettivo modernità/colonialità (ibidem). In polemica con gli studi post-coloniali, che pure rappresentano uno dei suoi principali riferimenti di pensiero, il pensiero

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decoloniale rivendica autonomia intellettuale rispetto ad autori europei ed eurocentrici e valorizza la specificità dell'America Latina, in quanto primo laboratorio della violenza coloniale/imperiale moderna e vittima più diretta delle attuali politiche neoimperialiste degli Stati Uniti, che pure sono stati una colonia britannica (ibidem).

Il concetto di “colonialità” elaborato da Quijano è centrale nel pensiero decoloniale. Esso identifica il modello di potere che si è affermato a partire dalla conquista dell'America e che si è strutturato intorno a due elementi: la naturalizzazione dell'idea di razza, una supposta distinta struttura biologica che situa alcuni in situazione di naturale inferiorità rispetto ad altri; l'articolazione delle forme storiche di controllo del lavoro intorno al capitale e al mercato mondiale, attraverso la diffusione del capitalismo (Quijano, 2000). La colonialità del potere, dunque, identifica un sistema di dominazione sociale e di sfruttamento capitalista del lavoro della popolazione mondiale, basato su un sistema di classificazione razziale che colloca il bianco maschio europeo (o europeizzato) in cima alla gerarchia razzializzata, seguito dai meticci e, alla fine, da indigeni e neri (Walsh, 2009).

Secondo Mignolo (2000) uno dei meriti principali di Quijano è di aver identificato la colonialità come lato oscuro della modernità, sua dimensione centrale e costitutiva, e di aver situato l'emergenza del sistema mondo moderno-coloniale nell'affermazione del circuito commerciale atlantico. In questo modo l'autore (ibidem) esplicita le peculiarità della categoria “colonialità” in relazione al “colonialismo”, in quanto relazione politica ed economica di dominazione di un popolo o di una nazione su un altro:

El concepto “colonialismo” considera la colonialidad como un derivado de la modernidad. En esa línea de pensamiento, la modernidad se concibe y, después, surge el colonialismo. Por otro lado, el periodo colonial implica que, en las Américas, el colonialismo terminó en el primer cuarto del siglo XIX. Sin embargo, la colonialidad entiende que la colonialidad es anterior a la modernidad, que es un elemento constitutivo de la misma. Y, por consiguiente, seguimos viviendo bajo el mismo régimen. La colonialidad actual podría considerarse el lado oculto de la posmodernidad y, en ese sentido, la poscolonialidad remitiría a la transformación de la colonialidad en colonialidad global del mismo modo que la posmodernidad designa la transformación de la modernidad en nuevas formas de globalización [...] Resumiendo, el colonialismo sale de escena después de la primera ola de descolonizaciones (los Estados Unidos, Haiti y los países latinoamericanos) y de la segunda ola (la India, Argelia, Nigeria, etc.), mientras que la colonialidad sigue viva y fuerte en la actual estructura global7.

7 Il concetto di “colonialismo” considera la colonialità come un derivato della modernità. In questa linea

In continuità con queste riflessioni Walsh (2013) propone l'uso della categoria “decolonial” anziché “descolonial”8. In spagnolo il prefisso “des”, infatti, indica una cessazione, come se fosse possibile il passaggio da un momento coloniale ad uno non coloniale e come se questo passaggio implicasse una scomparsa dei modelli e delle orme coloniali. Le intenzioni dell'autrice, dunque, sono di mostrare che non esiste uno stato nullo della colonialità e di indicare nella categoria decoloniale un cammino di lotta permanente, in cui si possono rintracciare posizioni, orizzonti, costruzioni alternative, progetti di resistenza, trasgressione e creazione (ibidem).

Lugones (2008) complessifica il concetto di colonialità da un punto di vista femminista, introducendo la nozione di colonialità del genere per comprendere l'oppressione di genere, razzializzata e capitalista. Questo concetto non esprime l'aggiunta dell'asse del genere alla comprensione delle relazioni coloniali, piuttosto una rilettura della modernità capitalista coloniale, che include le dimensioni dell'economia, dell'ecologia, delle relazioni con il mondo spirituale, del governo, del sapere, delle pratiche quotidiane. Secondo l'autrice (ibidem), infatti, il pensiero che concepisce il genere, la razza, la classe in quanto categorie separate che oppongono dicotomicamente uomini e donne, bianchi e neri, borghesi e proletari, separa ciò che in realtà non è separabile, occultando le intersezioni e cancellando, di fatto, l'esperienza delle donne di colore, che sono pensate come un'aggiunta a quanto accade alle donne bianche o ai maschi neri. Nella rilettura proposta da Lugones (ibidem), dunque, il genere – in quanto sistema binario di separazione degli esseri umani in uomini e donne in base a tratti biologici, associato all'eteronormatività – è una costruzione normativa coloniale, razzialmente differenziata e fittizia alla stregua della categoria di razza.

In questo modo l'autrice (2011) argomenta che la nozione di colonialità del genere integra il concetto di colonialità del potere elaborato da Quijano ma allo stesso tempo lo critica e lo supera. In particolare, secondo Lugones (ibidem) la gerarchia binaria tra umano e non umano costituisce la dicotomia centrale della modernità coloniale. In base ad essa il maschio europeo, bianco, borghese è stato assunto come

implica che, nelle Americhe, il colonialismo è finito nel primo quarto del XIX secolo. Senza dubbio, la colonialità intende che la colonialità è anteriore alla modernità, che è un elemento costitutivo della stessa. E, di conseguenza, continuiamo a vivere sotto lo stesso regime. La colonialità attuale potrebbe essere considerata il lato occulto della postmodernità e, in questo senso, la postcolonialità rimetterebbe alla trasformazione della colonialità in colonialità globale allo stesso modo che la postmodernità designa la trasformazione della modernità in nuove forme di globalizzazione [...] Riassumendo, il colonialismo esce di scena dopo la prima onda di decolonizzazioni (gli Stati Uniti, Haiti e i paesi latinoamericani) e della seconda ondata (l'India, l'Algeria, la Nigeria, etc.) mentre la colonialità continua viva e forte

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ideale di civiltà ed espressione di piena umanità. In riferimento a lui, le donne bianche sono state giudicate come l'inversione umana degli uomini; i maschi colonizzati come non umani, perché non uomini; le donne colonizzate come non umane, perché non-non uomini. La disumanizzazione ha reso possibile la soggezione dei colonizzati e il dominio sui loro corpi, attraverso lo sfruttamento, le violenze sessuali, il controllo della riproduzione e il terrore sistematico. La sua imposizione e interiorizzazione sono frutto di processi discontinui di lunga durata, basati sulla creazione di alleanze tra uomini colonizzatori e colonizzati. A differenza della colonizzazione, la colonialità del genere continua ad essere operante, facendo dell'intersezione genere-classe-razza un costrutto centrale del sistema di potere del mondo capitalista.

In questo senso, la colonialità attraversa tutti gli ambiti dell'esistenza, anche se la sua azione può essere compresa a partire da alcune aree principali (Walsh, 2009). Ad esempio, la colonialità dell'essere si esercita attraverso l'inferiorizzazione, la subalternizzazione, la disumanizzazione, mettendo in dubbio il valore umano, la ragione e le facoltà cognitive dei soggetti colonizzati (Maldonado-Torres, 2007). La colonialità cosmogonica – ancora poco esplorata – si fonda sulla divisione binaria tra natura e società e la conseguente eliminazione delle componenti magico-spirituali che sono alla base della sfera sociale e dei sistemi integrali della vita (Walsh, 2009). La colonialità del sapere coincide nell'imposizione dell'eurocentrismo come ordine esclusivo di pensiero e con l'esclusione di altre razionalità epistemiche e altri saperi (Quijano, 2000). Essa, inoltre, identifica la penetrazione della colonialità nelle prospettive epistemologiche, accademiche e disciplinari (Walsh, 2009).

Il concetto di colonialità del sapere è particolarmente importante all'interno del pensiero decoloniale. Secondo Quijano (ibidem), infatti, la repressione delle forme di produzione della conoscenza dei colonizzati, dei loro sistemi di senso, del loro universo simbolico, delle loro forme di espressione è stata la forma più profonda e duratura di violenza nei confronti dei popoli indigeni, soprattutto d'America e d'Africa. I colonizzati sono stati costretti ad apprendere la cultura dei dominatori in tutto ciò che fosse utile alla riproduzione della dominazione. A lungo termine, ciò ha implicato la colonizzazione delle prospettive cognitive, dell'immaginario, dell'universo delle relazioni intersoggettive. Attraverso il mito della civilizzazione come una traiettoria umana, che parte dallo stato di natura e culmina con l'Europa, la modernità e la razionalità sono state immaginate come esperienze e prodotti esclusivamente europei. Inoltre le relazioni intersoggettive e culturali tra l'Europa – soprattutto l'Europa Occidentale – e il resto del mondo sono state codificate non come differenze storiche ma attraverso la naturalizzazione di categorie quali Oriente-Occidente, primitivo- civilizzato, magico/mitico-scientifico, irrazionale-razionale, tradizionale-moderno.

In continuità con queste riflessioni, Santos (2010) definisce il pensiero moderno- occidentale un “pensiero abissale”, nella misura in cui stabilisce divisioni radicali tali che i saperi che restano “dall'altro lato della linea” – i saperi popolari, femminili, contadini, indigeni etc. – sono resi inesistenti e espulsi anche da ciò che è legittimato come conoscenza alternativa all'interno dell'universo simbolico dominante. La categoria Oriente, di fatto, è l'unica con la dignità sufficiente per essere l'Altro, anche se inferiore per definizione. D'altra parte gli indios e i neri sono associati a saperi incommensurabili e incomprensibili: credenze, opinioni, magia, idolatria, comprensioni intuitive e soggettive. La negazione epistemologica, dunque, si articola alla negazione ontologica (ibidem). Inoltre ha anche una connotazione di genere: l'emotività è un costrutto femminilizzato, associato ad un dimensione irrazionale, indisciplinata, vergognosa, che deve essere controllata per evitare la distruzione dell'ordine sociale normale e razionale. In questo modo l'alienazione assume una dimensione incorporata, impoverendo le relazioni corporee con l'altro e se stessi, e distorcendo le emozioni (Motta e Esteves, 2014).

In questa cornice, le pratiche pedagogiche decoloniali sono quelle che spiazzano la ragione unica della modernità occidentale, che si sforzano di trasgredire e trasformare la negazione ontologico-esistenziale, epistemica, cosmogonico-spirituale, che pensano

da e con genealogie, razionalità, saperi, sistemi di civiltà e di vita radicalmente altri (Walsh, 2013). Queste pedagogie sono prodotte in contesti di lotta, marginalizzazione e resistenza. Le lotte sociali, infatti, costituiscono lo scenario pedagogico per eccellenza dove i partecipanti esercitano le loro pedagogie di apprendimento, disapprendimento, riapprendimento, riflessione e azione (ibidem).

In particolare la vocazione decoloniale-pedagogica dei movimenti sociali si articola in due momenti: uno decostruttivo delle pedagogie dominanti, che si basano sul silenziamento epistemologico e sulla negazione ontologica di tutto ciò che non si inquadra nella monologica e violenta geopolitica della conoscenza capitalista-coloniale e nel suo soggetto conoscente individualizzato, europeizzato, mascolinizzato e razionalmente capace di controllare emozioni e desideri (Motta e Esteves, 2014). L'altro costruttivo delle alternative che emergono dalle comunità e dai soggetti e che esprimono saperi incarnati, orali, popolari, spirituali, locali e altri modi di relazionarsi con l'io, la terra, l'altro, il cosmo (ibidem). La pratica della teorizzazione, che emerge e comincia a prendere forma nelle lotte di trasformazione sociale, politica e culturale, non corrisponde ad una lotta congiunturale, piuttosto è una pratica di lunga durata, che implica la mobilitazione di tutte le risorse intellettuali possibili tanto per avanzare nell'analisi e nella comprensione, quanto per dare impulso ad azioni di cambiamento (Walsh, 2013).

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In particolare, un esempio di tessitura tra pedagogico e decoloniale nella pratica è individuato da Walsh (2013) nella memoria collettiva. Il riferimento specifico dell'autrice è all'uso della memoria collettiva tra le comunità afrodiscendenti del Pacifico ecuadoriano danneggiate dall'estrattivismo, dalla coltivazione della palma, dalla violenza causata dalla regionalizzazione del conflitto colombiano e dalle complicità costruite tra narcotrafficanti, interessi capitalisti ed estrattivisti nell'indifferenza dello Stato.

Recuperar, reconstruir y hacer re-vivir la memoria colectiva sobre territorio y derecho ancestral, haciendo esta recuperación, reconstrucción y revivencia parte de procesos pedagógicos colectivos, ha permitido consolidar comprensiones sobre la resistencia-existencia ante el largo horizonte colonial y relacionarlas al momento actual. Tam- bién ha contribuido a reestablecer y fortalecer relaciones de aprendizaje intergeneracionales y, a su vez, emprender reflexiones sobre los caminos pedagógico-accionales por construir y recorrer. Escribir esta memoria colectiva, es decir, poner en letra las memorias y enseñanzas que vienen de la tradición oral para su uso [...] ha sido componente clave en la pedagogización afro-decolonial [...] El propósito [...] es postular y posicionar el significado profundo y vivido de la diferencia afro-an- cestral, no como reliquio o patrimonio del pasado, sino como existencia actual enraizada en el territorio desde donde todavía confluyen saberes, cosmovisión, espiritualidad y el estar bien colectivo9 (pp.64-65).