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UN'ETNOGRAFIA COLLABORATIVA CON IL MMC/SC

2.2 Fare ricerca e scrivere: come?

2.2.2 Per chi?

Rispetto a tutte le forme di scrittura non destinate ad un uso esclusivamente personale e soprattutto rispetto alla redazione della tesi, ho fatto i conti costantemente con la questione del “per chi” scrivere (Abu-Lughod, 1993). Questo essenziale interrogativo era tanto più rilevante in ragione della mia collocazione alla frontiera tra più universi accademico-geografici ma anche tra teoria e pratica e tra accademia e movimenti sociali. Rimando ai prossimi paragrafi la discussione circa la restituzione della ricerca al MMC/SC e alle donne che ne sono state direttamente coinvolte. In questo momento, invece, mi focalizzerò sul confronto con plurimi soggetti legati ai due contesti universitari in cui ho svolto il dottorato, mostrando come questo confronto abbia inciso sull'elaborazione della conoscenza etnografica.

Il primo anno di dottorato, che ho trascorso presso l'Università di Verona, è stato fondamentale per la costruzione della prospettiva teorica e per un'ulteriore precisazione dell'oggetto dell'indagine. Sottolineo, in particolare, l'incontro con il pensiero della differenza sessuale legato alla riflessione di Diotima – una comunità filosofica femminile nata in questa città nel 198318 – poiché ha avuto importanti implicazioni nella riformulazione del mio progetto di ricerca. L'approfondimento di questo pensiero, infatti, mi ha indotto ad andare oltre l'iniziale accenno alle pratiche delle donne e ad adottare un più esplicito posizionamento femminista. Ha generato inquietudini e spostamenti teorici, mi ha provocato ad interrogare alcune categorie chiave (potere, oppressione) e ha messo in circolo parole nuove, che hanno influito notevolmente sulla rilevazione e l'interpretazione dei dati, permettendomi di comprendere delle dimensioni del MMC/SC che altrimenti sarebbero rimaste invisibili ai miei occhi di ricercatrice (Cima, 2012a). Ha contribuito, inoltre, a confermare alcuni orientamenti metodologici, incoraggiandomi ad optare per un approccio di ricerca che riconoscesse la giusta centralità alle pratiche politiche. Come la pedagogia freiriana, anche il femminismo italiano della differenza, infatti, capovolge il paradigma scientifico consueto che implica la precedenza dell'elaborazione teorica sull'applicazione, poiché assume le pratiche del movimento politico delle donne come riferimento principale per il pensiero (Piussi, 2011).

Ugualmente significativo è stato il soggiorno presso la UFSC, reso possibile

18 L'incontro con il femminismo della differenza, mediato dalla mia tutor, la prof.ssa Rosanna Cima, si

è nutrito della lettura di molti dei testi di Diotima e di altre autrici di riferimento e dalla mia partecipazione ad iniziative formative proposte dalla Comunità Filosofica e da altre realtà cittadine ad essa legate: la Mag, il Circolo della Rosa, Casa di Ramia.

dall'accordo di co-tutela. In particolare, nella prima parte del 2012, ho svolto in questa istituzione un'intensa attività accademica, che, grazie alla partecipazione a corsi ed eventi e alla frequentazione di biblioteche e gruppi di ricerca, mi ha permesso di entrare in contatto con il mondo universitario brasiliano e riossigenare la mia impostazione teorico-metodologica.

L'esperienza della co-tutela e la decisione di discutere la tesi alla UFSC piuttosto che nella mia università di origine, tuttavia, mi hanno anche posto di fronte alla necessità di prendere in esame le significative distanze teoriche che intercorrono tra le due realtà accademiche che ho attraversato e i rapporti di potere che le legano. Nonostante rispetto alla geopolitica della conoscenza scientifica esistano pochi centri realmente egemonici a livello globale, infatti, le categorie interpretative che l'accademia crea ed utilizza per rappresentare l'Altro hanno una natura essenzialmente nazionale (Bourdieu, 2003). Bourdieu (ibidem) definisce “inconscio accademico” l'insieme di strutture cognitive comuni ai prodotti di una certa carriera scolastica o a coloro che si occupano di una stessa disciplina in un dato momento, all'interno di un sistema universitario nazionale. L'inconscio accademico determina cosa merita attenzione, cosa è importante discutere e influenza decisioni cruciali quanto alla scelta dei soggetti, alle teorie di riferimento e al metodo. Esserne consapevoli attraverso “l'oggettivazione partecipante” (ibidem) implica considerare riflessivamente la posizione della ricercatrice nell'universo accademico e nel campo della disciplina, le categorie nazionali di conoscenza scientifica, le problematiche obbligatorie, le tradizioni, i particolarismi, i rituali, gli obblighi rispetto alla pubblicazione dei risultati. Questa forma di oggettivazione della relazione soggettiva con l'oggetto di studio esamina le condizioni di possibilità della conoscenza, critica la rappresentazione dei produttori culturali come liberi da determinanti sociali, contrapponendosi ad una visione della riflessività come ritorno intimista nella persona privata della ricercatrice e includendo la realtà accademica come “campo” di ricerca (ibidem). Vorrei soffermarmi in particolare su alcuni elementi:

- Esplorare le dimensioni pedagogiche di un movimento sociale è molto diverso in Brasile e in Italia, sia per le caratteristiche che i movimenti tendono ad assumere nei due paesi, sia a causa di differenti tradizioni in questo campo di studi. Mentre in Italia, infatti, attualmente dominano soprattutto forme partecipative “leggere”, basate su un'adesione individuale e spesso fluttuante e sulla creazione di coordinamenti e reti di mobilitazione ad hoc (Daher, 2012); in Brasile svolgono un ruolo molto rilevante movimenti e articolazioni di movimenti (soprattutto la

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nazionale e da una significativa istituzionalizzazione19, che a mio avviso rende problematica l'adozione della categoria, peraltro teoricamente ampia, di “nuovi movimenti sociali” (Masson, 2009). Inoltre, in Brasile, lo studio pedagogico dei movimenti sociali ha una storia notevole, soprattutto perché la pedagogia popolare di ispirazione freiriana, che qui è fiorita e che costituisce un riferimento teorico irrinunciabile, si configura sin dalle sue origini come una pedagogia dei movimenti (Streck, 2009). Al contrario, in Italia lo studio di questo importante fenomeno ha mobilitato soprattutto l'interesse della sociologia, della storia, delle scienze politiche e dell'antropologia; mentre si registra un'attenzione sporadica da parte delle Scienze dell'Educazione, nonostante la riflessione sul nesso tra pedagogia e politica, tematizzato dalle esperienze storiche di pedagogia popolare (il centro educativo di Mirto a Partinico, le iniziative di nonviolenza attiva, la scuola di Barbiana) e dalle pedagogie critiche (per citarne alcune: il pensiero gramsciano, il problematicismo, la pedagogia della differenza sessuale), costituisca un importante antecedente teorico. Le discrepanze tra le tradizioni della pedagogia dei movimenti sociali nei due contesti accademici in cui ho svolto il dottorato mi hanno spinto frequentemente a giustificare la conciliabilità tra la mia affiliazione disciplinare e il mio oggetto di studio. Non c'è dubbio, tuttavia, che si tratti di un argomento intrinsecamente interdisciplinare;

- Queste differenze, inoltre, mi hanno posto continuamente di fronte alla questione della traduzione, intesa come processo complesso, culturale e politico, oltre che linguistico (Lima Costa e Alvarez, 2009). Per esempio, anche se l'incontro fecondo con il pensiero della differenza sessuale mi ha disposto positivamente verso punti di vista femministi originati in luoghi geografici diversi (femminismo decoloniale e postcoloniale; teologia femminista della liberazione; ecofemminismo), non sempre è stato semplice praticare contaminazioni tra differenti prospettive. Il lavoro di Diotima, infatti, si è concentrato soprattutto sulla dimensione simbolica, pertanto le categorie che ha elaborato non sono di facile traducibilità, a volte sono considerate ermetiche, si prestano a fraintendimenti e rifiuti (il caso emblematico è il concetto di autorità)20. I problemi di traduzione si sono presentati anche rispetto a questioni

19 Come dimostrano le manifestazioni critiche agli ultimi mondiali di calcio, tuttavia, si stanno

diffondendo sempre di più forme di protesta estemporanee, centrate su un ampio utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione.

20 Per questa ragione in alcuni casi è stato necessario spiegare nelle note il senso di parole e concetti,

che ho utilizzato frequentemente nel corso della tesi e che hanno mediato la mia conoscenza della realtà sociale.

apparentemente più spicciole: come nominare le partecipanti al MMC/SC? Il termine attivista/activista non è usuale nei movimenti sociali brasiliani e non è mai stato utilizzato dalle mie interlocutrici; d'altra parte la traduzione in italiano del termine molto comune di integrante (letteralmente “membro”) non appare adeguata all'adesione ad un movimento sociale; ho deciso, perciò, di ricorrere preferenzialmente al termine “militante” – nonostante non ne condivida l'accezione bellica e non sia frequentemente utilizzato dalle donne che costituiscono la base del MMC/SC – per indicare modi di socializzazione profondi e globali all’interno della comunità politica di riferimento (Apostoli Cappello, 2012). Tradurre in altri contesti pensieri e proposte politico-educative, profondamente localizzati e coscienti del loro luogo di enunciazione, ha richiesto molte volte di sperimentare lo scarto tra ciò che desideravo dire e ciò che riuscivo a dire; tra ciò che dicevo e ciò che poteva essere accolto, compreso, condiviso. Allo stesso tempo la traduzione è indispensabile per creare alleanze politiche ed epistemologiche (Lima Costa e Alvarez, 2009) e per promuovere spostamenti di pensiero;

- le due università che ho attraversato vivono un momento storico molto diverso. L’accademia brasiliana, infatti, attraversa un periodo di apertura, democratizzazione e crescita significativa, che stimola i giovani ad investire nella formazione superiore come garanzia di un lavoro soddisfacente e di ascesa sociale. Questa condizione si traduce anche in un importante processo di selezione di una classe accademica in espansione, che porta l'università brasiliana ad adeguarsi a standard di qualità definiti nei centri globali della geopolitica conoscitiva della colonialità capitalista (Motta, Esteves, 2014). In termini di pratiche di ricerca e di scrittura ciò si traduce in un più forte presidio dei confini tra scientifico e non scientifico (Haraway, 1988). Al contrario, in Italia, la riduzione significativa degli investimenti all'università, che si registra soprattutto negli ultimi anni, e la massificazione della formazione superiore hanno contribuito ad acuire storiche pratiche di nepotismo e clientelismo, che hanno contratto sensibilmente la possibilità delle giovani ricercatrici di fare carriera in università. In questo quadro decidere di intraprendere un percorso dottorale risponde, almeno per i neo-laureandi, alla passione personale per la ricerca e all'esigenza di risolvere per alcuni anni il problema della disoccupazione piuttosto che ad una realistica progettualità professionale. Nel mio caso, proprio la precarietà e la mancanza di prospettive che contraddistinguono la condizione dei dottorandi in Italia hanno funzionato come una motivazione in più per

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ricerca marginale nel panorama degli studi pedagogici ma molto significativo per me. L'adesione ad una prospettiva teorica femminista mi ha incoraggiato ad intraprendere percorsi interdisciplinari e metodologicamente indisciplinati (Potente, 2011), per esempio, legittimandomi a considerare il mio corpo sessuato non come un fatto da mettere da parentesi nel processo scientifico ma come una risorsa da rigiocare per la riflessione (Piussi, 2011). Inoltre la sfiducia nei confronti del mondo accademico italiano, insieme al mio profondo coinvolgimento esistenziale e politico rispetto all'oggetto di studio, hanno fatto sì che io mi sentissi responsabile innanzitutto nei confronti delle mie interlocutrici di ricerca. Ho avuto, però, delle difficoltà importanti a motivare le mie scelte metodologiche con alcuni colleghi e professori incontrati alla UFSC. La co-residenza di lungo periodo a fondamento della mia etnografia, per esempio, è stata spesso giudicata non necessaria, essendo una pratica inusuale tra i dottorandi del mio corso, che, anche in ambito antropologico, optano in genere per visite di campo più brevi. In alcune circostanze questa e altre pratiche sono state giudicate come espressione di un desiderio ingenuo e non teoricamente fondato di “mettersi nella pelle dell'altra”, di identificarsi con il movimento e di coscientizzare le donne del MMC/SC. A volte teorie femministe e postcoloniali sono state utilizzate per smascherare o mettermi in guardia da possibili tendenze imperialiste insite nel mio progetto di ricerca. Considero questi suggerimenti di fondamentale importanza. Allo stesso tempo, non ho mai potuto accettare di essere associata ad un ideale di femminista accademica bianca ed europea. Questa etero-rappresentazione mi sembrava discordante rispetto alla mia condizione esistenziale, alle mie scelte teoriche e metodologiche. Innanzitutto, infatti, diversamente dai miei interlocutori – in genere professori ordinari, con una posizione consolidata all'interno di un contesto universitario che solo di recente si sta emancipando dal suo storico elitismo razziale e borghese – la mia collocazione nell'universo accademico è marginale e precaria. Inoltre la scelta di recarmi in Brasile, non solo per la ricerca di campo ma anche per studiare in un'Università voleva esprimere, da un lato, disobbedienza rispetto a rotte più consolidate, che portano i giovani studiosi a spostarsi verso mete accademiche prestigiose in Europa e negli Stati Uniti; dall'altro un riconoscimento di autorità nei confronti di pratiche, epistemologie e metodologie del Sud. La bibliografia della mia tesi, infine, chiarisce il mio profondo debito di riconoscenza nei confronti di un pensiero che rivendica la sua autoctonia brasiliana e latinoamericana (la pedagogia popolare, la TdL, la Teologia Femminista della Liberazione, la Teologia Ecofemminista Latinoamericana e il pensiero

decoloniale). Credo, dunque, che questi conflitti siano rivelatori soprattutto dei complessi rapporti di potere che legano le due istituzioni coinvolte nella cotutela. Infatti la mia Università di origine, seppure non mondialmente egemonica, è pur sempre inserita in una realtà accademicamente dominate; mentre l'accademia brasiliana, attualmente in ascesa, è molto impegnata ad affermare la sua credibilità scientifica a livello internazionale (Sobrinho, Salvaterra, 2014). Decidere di studiare un movimento sociale femminista e contadino a partire da una posizione di frontiera mi ha dato a volte la sensazione sgradevole di non sentirmi mai a casa e di non avere punti di riferimento stabili ma la frontiera è anche un luogo di lucidità, criticità e creatività, un luogo parziale che autorizza coraggiosi gesti di rottura e letture altre illuminate da sguardi diversi. In questo senso, sono molto grata agli incontri, agli scambi e ai conflitti più o meno espliciti che ho vissuto sia all'Università di Verona sia alla UFSC: mi hanno spinto ad adottare un atteggiamento riflessivamente vigilante; ad impegnarmi in una decolonizzazione permanente (bell hooks, 1994) della metodologia della ricerca; ad esplicitare accuratamente il mio posizionamento politico ed epistemologico. Anche quando mi hanno fatto sentire vulnerabile, sono stati parte di un percorso ricco ed intensamente vitale21.

2.3 Collaborare

Come ho anticipato, le mie opzioni teorico-politiche mi hanno spinto ad impegnarmi in un percorso metodologico che valorizzasse la dialogicità della costruzione della conoscenza. L'elemento che distingue con più forza la prospettiva della pedagogia popolare in relazione al lavoro scientifico con le comunità impoverite, infatti, è il superamento della contraddizione tra ricercatrice e soggetti della ricerca. Rispetto al lavoro di Freire, per esempio, si può cogliere, già a partire dall'incarico al SESI (Servizio Sociale dell'Industria), la preoccupazione di rapportarsi ai partecipanti delle indagini in quanto interlocutori e di coinvolgerli in tutte le tappe dello studio (Freire, 2008). D'altra parte gli sforzi di molte ricercatrici femministe sono stati orientati a mettere a tema le relazioni interpersonali nel processo scientifico, interrogando le asimmetrie di potere e problematizzando con particolare efficacia aspetti solitamente dati per scontati (Bondi, 2003).

In ambito etnografico, è stata soprattutto la rivoluzione epistemologica introdotta dall'antropologia femminista e postmoderna a mettere al centro la relazione tra

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ricercatrice e soggetti della ricerca (Grossi, 1992). Nelle etnografie classiche, infatti, questa relazione aveva un'importanza periferica, essendo relegata generalmente ai capitoli introduttivi o a libri-diari specificatamente dedicati all'argomento e considerati, più che vera antropologia, racconti “letterari” di esperienze personali. I difensori del paradigma dialogico hanno criticato la tendenza degli etnografi, allo stesso modo dei critici letterari, ad organizzare i significati in un testo dotato di un'unica intenzione coerente (Clifford, 1999a). In questo modo, i dati costruiti in condizioni discorsive perdono la loro dialogicità attraverso forme testualizzate; gli eventi e gli incontri si trasformano in evidenze di una realtà culturale inglobante; gli autori ed attori specifici sono separati dalle loro produzioni, estromessi dalle etnografie legittime e sostituiti da un unico autore generalizzato (ibidem).

Per correggere questa esclusione, Clifford (ibidem) propone di “concepire l'etnografia non come esperienza e interpretazione di una circoscritta realtà «altra» ma come una transazione costruttiva coinvolgente almeno due, e di solito di più, soggetti consapevoli e politicamente intenzionati” (p.58). La categoria di polifonia che l'autore utilizza porta al centro l'intersoggettività e il contesto performativo dell'esperienza etnografica e, allo stesso tempo, supera una visione statica della realtà sociale come internamente omogenea a favore di una visione più dinamica.

Le provocazioni della prospettiva dialogica sono diventate molto popolari in ambito accademico, anche semplicemente in quanto bersaglio di aspre critiche (Rossi, 2003). Tuttavia non è frequente imbattersi in tentativi di articolarle all'interno di concreti disegni di ricerca. Questo è vero soprattutto per i percorsi iniziatici, in cui la necessità di affermarsi disciplinarmente induce i ricercatori ad un maggiore conformismo metodologico (Behar, 1993). Rispetto alla mia indagine con il MMC/SC, l'etnografia collaborativa elaborata da Lassiter (2005) mi è sembrata molto utile a rispondere a queste sfide e a legittimare teoricamente alcune cruciali scelte metodologiche. Spesso, infatti, i tentativi di presidiare i confini tra scientifico e non scientifico sottostimano l'eterogeneità interna all'universo accademico (ibidem) e, in particolare, l'esistenza di un corposo pensiero scientifico che legittima opzioni epistemologiche e metodologiche ex- centriche. Ovviamente l'etnografia è dialogica per definizione, non esiste interpretazione etnografica senza comunicazione e condivisione (Piasere, 2002). Tuttavia la prospettiva collaborativa si distingue poiché pone al centro quello che, in genere, è solo uno scenario, consultando esplicitamente il punto di vista dei soggetti della ricerca lungo tutto il processo di produzione della conoscenza (Lassiter, 2005).

È importante evidenziare che l'impegno nella collaborazione implica notevoli rischi, imprevisti e difficoltà. Per esempio, la mia ricerca ha preso avvio proprio con un

rifiuto alla collaborazione da parte dei soggetti che avevo inizialmente ipotizzato di coinvolgere22. Bisogna considerare, infatti, che la disposizione della ricercatrice è una condizione necessaria ma non sufficiente: le storie istituzionali, accademiche e geopolitiche contribuiscono notevolmente a definire le modalità di interazione tra i soggetti della ricerca e, in definitiva, la possibilità stessa di realizzare l'indagine (Schramm, 2013).