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1.3 Movimenti sociali come soggetti educativi e agenti di trasformazione

1.3.1 Movimenti sociali come contesti educat

Le pratiche pedagogiche dei movimenti sociali si possono realizzare a livello tanto dell'educazione formale quanto dell'educazione informale o non formale. Esistono movimenti, infatti, che hanno delle scuole proprie, che si impegnano nell'elaborazione di una pedagogia specifica – il caso del MST è, in questo senso, emblematico – o che lottano per garantire l'accesso o il miglioramento dell'istruzione. Come Motta ed Esteves (2014) sottolineano, tuttavia, nei movimenti sociali, i processi di disapprendimento delle logiche dominanti e di apprendimento di logiche altre si realizzano soprattutto attraverso micropratiche quotidiane, che possono includere incontri, assemblee, momenti di socializzazione e narrazione di esperienze, processi di assunzione di decisioni, organizzazione di campagne, distribuzione di compiti, sviluppo di strategie etc. Si tratta di spazi di comprensione critica del mondo (Grzybowski, 1987), momenti di “autoanalisi popolare” in cui si impara partecipando, disseminando interrogativi, potenziando forme di conflitto nonviolento, immaginando da soli e insieme leve per i cambiamenti essenziali (Dolci, 1985). Anche i processi educativi non formali rivestono un ruolo centrale all'interno dei movimenti sociali. Ad esempio, Lutte (2001) insiste sull'importanza dell'amicizia: all'inizio dell'assunzione dell'impegno politico normalmente non c'è un processo intellettuale; piuttosto “è indispensabile l'impulso affettivo che sorge dall'amore reciproco tra amici ed amiche” (p.287).

Gohn (2011) individua alcuni apprendimenti che si realizzano dentro ai movimenti sociali: - apprendimenti pratici: imparare ad unirsi, organizzarsi, partecipare; - apprendimenti linguistici: decifrare temi e problemi e costruire un linguaggio comune che permetta di leggere il mondo; apprendimenti simbolici: riconoscere e risignificare le eterorappresentazioni e produrre rappresentazioni ed autorappresentazioni; apprendimenti riflessivi: riflettere sulla propria pratica, generando sapere; apprendimenti etici: a partire dalla convivenza con altri e altre, coltivare valori quali la condivisione, la solidarietà, l'ascolto reciproco; apprendimenti cognitivi e teorici: imparare nuovi contenuti, concetti, categorie di analisi che consentano di comprendere criticamente la propria realtà; apprendimenti politico-tecnici: riconoscere i propri interlocutori sulla scena pubblica e imparare a relazionarsi con essi; apprendimenti culturali: costruire l'identità comune del gruppo, valorizzando le differenze interne.

I processi di apprendimento che si realizzano all'interno dei movimenti sociali, quindi, mettono in discussione una comprensione ristretta e egemonica di educazione che scinde il sapere dall'esperienza, l'elaborazione teorica dalle lotte, la classe dalla comunità, la mente dal corpo, il soggetto conoscente dall'oggetto della conoscenza e rimandano a forme di pedagogizzazione della politica e di politicizzazione

dell'educazione (Motta e Esteves, 2014). L'educazione che si realizza nei movimenti più che l'assorbimento di contenuti da parte di individui esprime, quindi, un processo interattivo, che si realizza in più spazi e attraverso molteplici soggetti ed è radicato nella partecipazione ad un tessuto sociale più ampio (ibidem).

In Italia, due delle esperienze storicamente più rilevanti in questo senso sono state sicuramente la scuola di Barbiana e il centro educativo Mirto a Partinico, coordinate rispettivamente da don Lorenzo Milani e Danilo Dolci. In esse i soggetti educativi problematizzavano la neutralità dell'educazione, che, così, diveniva una via per conoscere criticamente la realtà e per trasformarla.

A questo punto ognuno se la prende con la fatalità. È tanto riposante leggere la storia in chiave di fatalità. Leggerla in chiave politica è più inquietante: le mode diventano parte d'un piano ben calcolato perché Gianni resti tagliato fuori. L'insegnante apolitico diventa uno del 411.000 utili idioti che il padrone ha armato di registro e pagella. Truppe di riserva incaricate di fermare 1.031.000 Gianni l'anno (Scuola di Barbiana, 1967; pp.67-68).

Domandavamo a ogni persona, in ogni famiglia, a migliaia di famiglie deboli perché isolate: “vuoi l'acqua cara o a buon mercato?”. E lentamente si chiariva come, per costare poco, questa doveva essere acqua democratica, non acqua di mafia: a chi provava organizzarsi con gli altri l'acqua cooperativa via via diveniva leva per un cambiamento anche strutturale, nuova forza che giorno per giorno svuotava il potere del vecchio gruppo clientelare-mafioso locale. Altre valli vicine si svegliavano e altre dighe nascevano. Ma come il nuovo reddito avrebbe potuto sviluppare i valori locali arginando e filtrando i modelli commerciali disseminati dai massmedia? Altre leve occorrevano a rimuovere la situazione più dal profondo. In decine e decine di incontri a cui partecipano soprattutto donne e ragazzi, viene identificata una nuova possibile leva: un nuovo Centro educativo. In altre decine di incontri si chiede a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, giovani, a esperti di ogni tipo, di concepire questo centro: fino che questo comincia ad assumere un volto (Dolci, 1995; pp. 121-122).

La letteratura scientifica mette in luce alcune caratteristiche dei processi educativi che si compiono nei movimenti sociali:

- Il superamento delle visioni che dicotomizzano la trasformazione del mondo e la trasformazione delle persone o che fanno dipendere meccanicamente la seconda dalla prima o la prima dalla seconda. L'impegno per cambiare la realtà, infatti, produce un cambiamento personale, “una ristrutturazione della personalità, del sistema di valori, delle relazioni con gli altri, della visione del mondo” (Lutte, 2001, p.290). A sua volta la trasformazione di sé è sempre in rapporto alla realtà e coinvolge lo sguardo e l'azione su di essa (Ferrando, 2011);

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- La dialogicità, elemento centrale dell'educazione problematizzante concettualizzata da Freire. Per il pensatore brasiliano, infatti, nessuno educa nessuno, neanche se stesso, gli uomini e le donne si educano in comunione con la mediazione del mondo (Freire 1971). Anche Dolci intende il processo educativo come un “reciproco e pluridirezionale potenziarsi”, un “intonarsi per comunicare”, un “cosciente partecipare – individuale, di gruppo, strutturale – al creativo sviluppo del mondo” (p.240), un “laboratorio maieutico in cui ognuno possa risultare levatrice ad ognuno”. Sono formulazioni poetiche che evocano l'imperativo laico del problematicismo pedagogico: “realizza te stesso, realizzando gli altri” come finalità dell'educazione, idea regolativa che mette in discussione le visioni dualiste che oppongono la trasformazione di se stesse e trasformazione delle altre (Bertin, 1995);

- Il riconoscimento e la valorizzazione dell'asimmetria, che, piuttosto che contrapporsi alla dialogicità, costituisce una premessa fondamentale per far emergere potenzialità, bisogni, desideri e metterli in gioco nell'azione di trasformazione della realtà. Il femminismo italiano della differenza ha riflettuto molto sulla disparità nei rapporti tra donne e ne ha fatto base per la pratica politica dell'affidamento, che si esprime generalmente attraverso rapporti di amicizia. “Nel rapporto di affidamento una donna offre alla sua simile la misura di ciò che lei può e in lei vuole venire all'esistenza” (Libreria delle donne di Milano, 1998, p.186). L'affidamento dunque si basa sulla scommessa di un senso libero dell'autorità, nel quale l'identificazione di una mediazione esterna non sottrae nulla di sé, anzi rende possibile grandi aspirazioni.

La dialogicità e l'asimmetria delle relazioni che si stabiliscono all'interno dei movimenti sociali rimandano al tema del rapporto tra leadership e base, che Freire considera un rapporto eminentemente pedagogico, di permanente e reciproca coscientizzazione. Il pensatore brasiliano si sofferma sul rischio che, nella loro azione politico-educativa, le leader adottino gli strumenti propri dell'educazione depositaria, considerando gli altri come pure incidenze della propria azione politica o come vasi vuoti da riempire di slogan e assumendo quindi un atteggiamento dogmatico ed autoritario. Questo accade anche perché, in alcuni casi, i leader sono rappresentanti del polo oppressore che, attraverso un'opzione individuale – che Freire definisce in vario modo come “conversione”, “transfuga”, “suicidio di classe” – hanno compreso la necessità di solidarizzare con gli oppressi e le oppresse e di lottare per la loro liberazione e che, tuttavia, devono essere disponibili a lasciarsi educare da coloro con i quali si impegnano, per assumere il loro punto di vista, comprendere la loro situazione ed entrare in autentica comunione. Nella prassi per la trasformazione radicale della società, il

compito della leader, perciò, è quello di partire dalla lettura del mondo della base del movimento, non per girarvi intorno, ma per superarla attraverso una comprensione più critica (Freire, 2008). Esistono quindi delle profonde affinità tra la figura del leader nella concezione freiriana e quella dell'intellettuale organico gramsciano. Questi, infatti, ha il compito politico-educativo di guidare le masse portandole dal “senso comune” al “buon senso” (Mayo, 2008).

L'equilibrio complesso tra dialogicità e asimmetria e il rischio che questa si cristallizzi in posizioni gerarchiche fisse, piuttosto che circolare in relazioni di autorità in cui la mediazione venga costantemente rinnovata (Tommasi, 1995), è una questione pedagogicamente molto rilevante. Il ruolo nell'organizzazione, infatti, è una delle dimensioni in cui più facilmente può verificarsi la riproduzione di disuguaglianze in seno ai movimenti sociali (Motta e Esteves, 2014). Questi, infatti, pur contribuendo a decostruire soggettività, relazioni sociali e punti di vista sul mondo dominanti e ad elaborarne di alternativi, possono ricalcare varie forme di discriminazione legate al genere, alla classe, all'etnia etc. rispetto ad ambiti quali la struttura dell'organizzazione, la gestione delle risorse, la divisione dei compiti, i processi decisionali etc. (ibidem). Anche nei movimenti sociali, dunque, si possono rintracciare segni di autoritarismo, ogni volta che, ad esempio, “as pessoas e os grupos incorporam a expectativa de que o chefe deve determinar o que os subalternos devem executar. E quando alguém disposto a mandar encontra outro disposto a se sumeter6” (Fleuri, 2008, p.172). Per svelare e superare l'autoritarismo e l'imposizione del silenzio del corpo, della parola, della volontà, della comunità (ibidem), è importante valorizzare le dissonanze che si sperimentano nei margini interni ai movimenti; dare voce e visibilità ai soggetti cui generalmente vengono negate; soprattutto riflettere collettivamente e permanentemente sulle proprie pratiche (Motta e Esteves, 2014).