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Nota sull’orientalismo

La metodologia utilizzata per lo svolgimento di questa tesi è strettamente legata al lavoro di E. Said, grazie al quale è stato possibile utilizzare uno sguardo non orientalistico nei confronti delle fonti normative e dello stato dell’arte in tema di diritto giapponese145.

Le teorie di E. Said contenute nel saggio “Orientalism”146 non sono molto conosciute dalla dottrina

giuridica europea, nonostante la grande importanza che hanno avuto in tutti gli altri ambiti di ricerca negli anni passati; di conseguenza, mentre nelle altre discipline si è arrivati a superare il dibattito sugli orientalismi (si è parlato anche di post-orientalismo) e, in una certa misura, anche quello sullo strutturalismo e sul postmodernismo, in ambito giuridico è ancora necessario affrontare tale argomento. Infatti, vi sono ben pochi studi che riguardano nello specifico le forme di orientalismo legale e i modi in cui il diritto è stato usato per la narrazione del c.d. Oriente, come nota Teemu Ruskola147. La ragione principale e più ovvia è che le teorie di Said riguardano Paesi il cui diritto,

per molteplici motivi, non è conosciuto o studiato in Europa, e questo stesso fatto potrebbe essere ricompreso all’interno del fenomeno “orientalismo”: mentre all’interno del programma degli insegnamenti di diritto comparato sono largamente trattati i sistemi di common law, il diritto europeo e dei singoli Paesi dell’UE, il diritto dell’Asia e dell’Africa è invece totalmente escluso o relegato a una trattazione marginale. Per questo motivo, i giuristi europei non hanno alcuna conoscenza né della lingua né del diritto in questione, a meno di non aver affrontato un ulteriore periodo di studio specifico all’esterno delle Facoltà di Giurisprudenza o di aver approfondito l’argomento dopo la laurea. Sarebbe necessario, tuttavia, che il problema della colonizzazione attraverso il diritto148 e

altre forme di orientalismo149, anche nel campo del diritto internazionale150, fossero portate

145 Questa nota è basata su un lavoro precedente: GALLESE, Chiara. L’Orientalisme juridique et droit japonais, in:

Zeitschrift für Japanisches Recht, vol. 42, n. 21, 2016, pp. 137-152.

146 SAID, Edward. Orientalism. Vintage, 1979, 1994.

147 RUSKOLA, Teemu. Legal Orientalism. Harvard University Press, 2013.

148 TAYLOR, Veronica. Beyond legal orientalism, in: Asian law through Australian eyes, 1997.

149 MCGEACHY, Hilary. The invention of Burmese Buddhist law: a case study in legal orientalism, in: Australian journal

of Asian law, vol. 4, n. 1, 2002, p. 30.

150 ALLAIN, Jean. Orientalism and international law: the Middle East as the underclass of international legal order, in:

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all’attenzione della dottrina europea, data l’importanza che le teorie di Said hanno rivestito nel modo accademico. In questa tesi, esse sono state tenute in grande considerazione.

Said, rifacendosi alle teorie di Foucault, Gramsci e altri, trattò il concetto di “Oriente” dal punto di vista sociologico e storico, mettendo in luce come le potenze europee, sin dall’alba del colonialismo, avessero concepito e diffuso un’idea astratta e stereotipata delle culture da loro conquistate, identificata con il termine generico di “Oriente” e contrapposta all’“Occidente”, che fu utilizzata per creare e rafforzare la propria identità: Oriente e Occidente non sono quindi indicazioni geografiche o politiche, né hanno confini ben delineati.

L’Oriente, secondo Said, fu dipinto dagli europei come un complesso vago e generale di stereotipi (positivi o negativi) che facilitavano il controllo da parte dei conquistatori e mantenevano le colonie in una situazione di inferiorità politica e culturale, contribuendo allo sviluppo dell’imperialismo e del postcolonialismo; dunque il punto centrale di questa teoria si concentra nel rapporto tra orientalismo e potere (o egemonia in senso gramsciano151). Anche a livello geografico non sono

mai stati definiti i confini spaziali di cosa sia Occidente, che il più delle volte si limita a ricomprendere Europa, Canada, Australia e Stati Uniti, e cosa invece Oriente, che molti hanno identificato come Asia e Africa Mediterranea, a volte ricomprendendo anche Grecia, Turchia ed Ex Unione Sovietica.

L’orientalismo consiste, ad esempio, nell’attribuire all’Islam i caratteri del dispotismo, violenza, fanatismo, all’India quelli della spiritualità e misticismo e così via, sino a dipingere un quadro immutabile contrapposto a tutto ciò che rappresenta l’”Occidente” e mai messo in discussione. Said si concentrò in particolare sui Paesi del Medio-Oriente, ritenendo, ad esempio, che gli interventi militari di conquista fossero stati giustificati dall’idea orientalista secondo la quale, a causa della loro cultura, i popoli di quelle zone non fossero in grado di mantenere la pace e la democrazia; questo atteggiamento divenne tanto diffuso da entrare anche nella mentalità comune, veicolato dai media152.

151 GRAMSCI, Antonio. Quaderni del carcere. Editori riuniti, 1971.

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Il saggio di Said, pubblicato nel 1978 e rivisto nel 1985153, diede vita a un dibattito sterminato154 che

ne evidenziò anche alcuni aspetti critici, ma che ebbe un’eco grandissima in tutte le aree di ricerca riguardanti soprattutto le aree asiatiche e africane. Poiché l’atteggiamento descritto riguardava anche gli accademici e la loro metodologia, fu necessario adottare un nuovo approccio critico alla ricerca che tenesse conto delle considerazioni svolte dall’autore, e, addirittura, l’intera area fu rinominata in quasi tutto il mondo da “Studi Orientali” a “Studi sull’Asia”, data la connotazione negativa che il termine “orientalista” aveva ormai assunto.

Oggi si preferisce parlare di “Orientalismi” al plurale, poiché si ritiene che questo fenomeno si esplichi in più modi e in più direzioni: una cultura può essere rappresentata sia in senso negativo che positivo e lo stesso Paese che in passato ne è stato vittima può adottare esso stesso, consapevolmente o inconsapevolmente, un atteggiamento orientalista155. Per quanto riguarda il

Giappone, ad esempio, rientra nell’auto-orientalismo il cosiddetto nihonjinron (letteralmente: “teorie sui giapponesi”), ossia quel filone di testi di varie discipline, pubblicati principalmente dal dopoguerra in poi, che riguarda l’illustrazione della “cultura giapponese” sotto diversi punti di vista, sul presupposto che esista un’unica “mentalità giapponese”, diversa da quella europea e statunitense. Alcuni studiosi 156 ritengono che questa forma di orientalismo possa essere vista come

un’esplicazione del nazionalismo culturale, volto a rafforzare l’identità nazionale.

L’intuizione di Said fu quella di collegare concettualmente la costruzione identitaria di Oriente ed Occidente ai concetti di egemonia e potere, ma l’origine del fenomeno ha in realtà radici molto più antiche. Il fenomeno orientalista può essere definito innanzitutto come etnocentrismo157, ossia la

tendenza a giudicare le culture diverse dalla propria attraverso la lente della scala di valori a cui si è abituati, con conseguente svalutazione di tutto ciò che non vi rientra158, sebbene possa avere anche

153 SAID, Edward. Orientalism reconsidered. Cultural Critique, 1985, pp. 89-107.

154 Soltanto il testo originale ha, ad oggi, superato le 29,500 citazioni, visionabili all’indirizzo:

http://scholar.google.it/scholar?espv=2&bav=on.2,or.r_qf.&bvm=bv.79184187,d.d2s&ion=1&biw=1366&bih=64 3&um=1&ie=UTF-8&lr=&cites=12699967708756522477 (url consultato da ultimo il 19/03/2017).

155 MIYAKE, Toshio. Mostri made in Japan. Orientalismo e auto-Orientalismo nell’epoca della globalizzazione, in:

Matteo Casari (ed.), Culture del Giappone contemporaneo. Manga, anime, videogiochi, arti visive, cinema, letteratura, teatro, architettura, 2011, pp. 161-193.

156 DALE, Peter. The Myth of Japanese Uniqueness. Taylor & Francis, 1986.

157 ROSEN, Steven L. Japan as other: orientalism and cultural conflict, in: Intercultural Communication, vol. 4, n. 3,

2000, pp. 237-245.

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connotazioni “positive” nel dipingere una cultura in maniera romantica e idealizzata. Durante la colonizzazione delle Americhe, si riscontra un atteggiamento etnocentrico nei testi di Bartolomeo de Las Casas e Juan Ginès de Sepùlveda nei confronti dei nativi americani, ma si possono trovare esempi in tutte le culture di qualsiasi epoca. Già nell’antichità si possono trovare esempi simili: nella Germania di Tacito, in cui si descrivono i popoli germanici come non dotati di intelligenza, nelle fonti greche, in cui gli stranieri erano considerati barbari, in quelle egizie, in cui gli asiatici e i Nubiani erano disprezzati, e in quelle cinesi, nei confronti delle popolazioni Hmong159. Considerando le

dimensioni dei regni e degli imperi antichi e i rapporti di potere tra le popolazioni conquistatrici e quelle conquistate, non si può dire che l’orientalismo sia un fenomeno unico nella storia, come ammette lo stesso Said definendo il concetto di “proto-orientalismo”. Alcuni studiosi hanno tuttavia notato come l’orientalismo sia penetrato anche nelle discipline che si occupano di antichità classica160.

Per quanto riguarda l’ambito giuridico, l’orientalismo si esplica nella narrazione che vuole definire cosa possa essere definito “diritto” e cosa no, secondo le categorie note alla tradizione giuridica di civil law o common law, in modo da escludere o sminuire il diritto asiatico. Cina e Giappone hanno a lungo subito l’atteggiamento orientalistico degli studiosi europei, una situazione che, in forme più o meno esplicite, è durata sino ad oggi. Secondo Teemu Ruskola, parte del problema risiede nell’approccio funzionalista del diritto comparato161, che tende ad applicare le stesse categorie

giuridiche a tutti i diritti stranieri, anche quando questo si traduce in una forzatura; per evitare questo problema, in questa tesi è stato ritenuto molto importante ripercorrere lo sviluppo del diritto giapponese dalle origini a oggi.

Per ragioni storiche, che verranno esposte più avanti, il diritto giapponese non aveva sviluppato gli stessi istituti giuridici presenti in Europa e derivati dal diritto romano e non aveva emanato un corpus omogeneo di leggi scritte che disciplinassero tutti gli ambiti del diritto: da ciò è discesa l’idea, molto diffusa, che il Giappone non avesse leggi o fosse comunque culturalmente refrattario a creare un sistema giuridico “evoluto”; concetto che è stato forse accentuato dal fatto che, sin dalla fine

Courier Corporation, 2002.

159 CALDIROLA, Stefano. Etnocentrismo, in: Lessico interculturale, di Franco Angeli, 2013, pp. 83-86.

160 COLBURN, Henry P. Orientalism, postocolonialism, and the Achaemenid empire: meditations on Bruce Lincoln’s

Religion, empire and torture, in: Bulletin of the institute of classical studies, vol. 54, n.2, 2011, pp. 87-103.

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del 1800, lo stesso Governo giapponese avesse adottato modelli di civil law per riformare del tutto il proprio apparato normativo, inclusa la Costituzione162. Lo stesso diritto internazionale nacque in

Asia come forma di orientalismo, poiché, a causa dei trattati ineguali163, il c.d. Oriente fu mantenuto

in un perenne stato di eccezione alle regole della comunità internazionale, attraverso le clausole di extraterritorialità164.

Le argomentazioni orientalistiche più ricorrenti nei confronti del diritto giapponese si appoggiano sui concetti di “cultura”, “identità”, “civiltà”, “etnia”, concetti elaborati da antropologia e sociologia e ampiamente trattati, il cui significato però varia da autore ad autore. Si è detto infatti che la concezione giuridica del Giappone e dei giapponesi è “unica” e condizionata dalla “cultura”: già nel 1700 Montesquieu, in un paragrafo eloquentemente intitolato “L’impotenza delle leggi giapponesi”, afferma che le leggi di questo Paese siano atroci, infami e impotenti, e, all’interno dell’intero saggio, definisce più volte il popolo giapponese con parole di disprezzo165.

Anche George Sansom, nel 1958, esprime dei pregiudizi nei confronti del diritto giapponese parlando del periodo Muromachi, quando sostiene che nelle leggi di quel tempo vi fosse “molto diritto e poca giustizia”166. Nel 1968, invece il famoso comparatista René David, continuando a

rifiutarsi di inserire il diritto giapponese tra quelli di radice romana, lo accomuna al diritto cinese e inserisce entrambi all’interno della categoria giuridica “religiosa e tradizionale”, sottolineando come “la ricezione delle idee e delle istituzioni occidentali […] non abbia del tutto eliminato le idee tradizionali che erano intese come moralità e ordine sociale. Il diritto moderno potrebbe rimanere a lungo una mera vernice sotto la quale saranno perpetrati i tradizionali modi di agire, di pensare e di vivere”167.

In tempi più recenti, una forma di auto-orientalismo si riscontra negli scritti di Kawashima168,

secondo cui il proprio popolo è privo di una “coscienza giuridica”, e di Noda169, che nel 1976

162 GATTI, Franco. Storia del Giappone contemporaneo. Mondadori, 2002. 163 Vedi capitolo II.

164 RUSKOLA, Teemu, op. cit.

165 MONTESQUIEU. Lo spirito delle leggi, a cura di Domenico Felice, Bologna, 2013.

166 SANSOM, George Bailey. A History of Japan to 1334. Stanford University Press, 1958, p. 351. 167 DAVID, René. Mayor legal system in the world today. Londra, 1968.

168 川島武宜. 日本人の法意識. 岩波新書, 1967.

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affermò con sicurezza: “I giapponesi non amano il diritto”. Poiché questi autori erano molto influenti, il mito della “non litigiosità” del popolo giapponese si è presto diffuso in tutto il mondo e ha condizionato gli studi successivi in tema di diritto giapponese170. Una delle argomentazioni più

utilizzate a tal riguardo era il bassissimo tasso di contenzioso delle corti giapponesi rispetto a quello delle altre nazioni: secondo tale orientamento, in Giappone i cittadini adivano raramente le corti per una questione culturale, ovvero la loro “cultura” li portava a evitare il più possibile il conflitto, al punto che chi si rivolgeva a un giudice era additato come “quello che è andato in tribunale”171.

In linea con questa opinione, Zweigert e Kotz sostennero che le influenze del confucianesimo spingessero i giapponesi a preferire una risoluzione informale delle dispute piuttosto che ricorrere al sistema giudiziario172. Tale impostazione dottrinale è stata confutata da John Owen Haley173 nel

1978, che ricollegò il basso tasso di litigiosità alla difficoltà di accesso alla Giustizia e al malfunzionamento dell’apparato burocratico, definendo la non litigiosità come “un mito”. Non mancò però chi si oppose anche questa visione: Tanaka174, negli anni ottanta, criticando Haley

sostenne che vi fosse una mancanza di una coscienza legale in Giappone e che essa fosse il risultato di un meccanismo sociale. Secondo Oda, invece, non vi fu alcuna resistenza nell’importare il diritto straniero durante il periodo della modernizzazione e la necessità di riformare il sistema giuridico non fu mai messa in dubbio, anche grazie alla retorica politica che spronava il Giappone a superare le altre nazioni175.

Sebbene in maniera più blanda, anche nel 2005 è stato sostenuto che esista una “particolare attitudine giapponese”, che le leggi straniere recepite in epoca Meiji siano state “giapponesizzate” e che “la mentalità giuridica giapponese, essendo concreta e intuitiva, gareggiasse con la dottrina concettuale tedesca”176, con ciò contribuendo allo stereotipo dell’unicità del pensiero giapponese.

170 NOTTAGE, Luke. A cultural return in Japanese law studies. 2008.

171 UPHAM, Frank. The Japanese legal system, in: Kodansha Encyclopedia of Japan, 1983.

172 ZWEIGERT, Konrad; KÖTZ, Hein. Einführung in die Rechtsvergleichung: auf dem Gebiete des Privatrechts; Band I:

Grundlagen. Mohr, 1971.

173 HALEY, John Owen. The myth of the reluctant litigant. Journal of Japanese Studies, 1978, vol. 4, n. 2, pp. 359-390.

174 田中英夫. 日本におけるアメリカ法研究・アメリカにおける日本法研究. 比較法研究 / 比較法学会編,

vol. 42, 1980, pp. 46/71; The role of law in Japanese society: comparisons with the West, in: University of British Columbia law review, vol. 19, 1985.

175 ODA, Hiroshi. Japanese law. OUP Oxford, 2009.

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In Italia, più che in altri Paesi, lo studio del diritto giapponese in ambito accademico è stato relegato a un ruolo marginale, per cui è difficile trovare una posizione omogenea della dottrina a tal proposito.

L’ambito non accademico, che esula dalla presente trattazione, vede una narrazione ancora più orientalistica e improntata sull’approccio culturale.

Questa tesi si pone l’obiettivo di contribuire alla ricerca italiana in un’ottica non orientalistica, evitando di conferire connotazioni non neutrali alla trattazione dei vari istituti giuridici del diritto giapponese. Per questo motivo, nello studio della letteratura non si sono prese in considerazione teorie basate su un approccio orientalistico.

Con la critica all’orientalismo non si vuole, comunque, negare l’esistenza delle diverse “culture” giuridiche di ciascun Paese o adottare un relativismo culturale estremo. Non si può certo negare che ciascun popolo abbia creato il proprio diritto in base alla propria storia e alle peculiarità degli usi e costumi della popolazione autoctona, tuttavia questa considerazione vale per qualsiasi sistema giuridico e non solo per quelli lontani dal diritto europeo o americano, come invece sostengono gli orientalisti; inoltre, la “cultura” giuridica può variare notevolmente da area ad area anche all’interno dello stesso Stato. Per descrivere il diritto di uno Stato si possono adottare vari approcci; ad esempio, ci si può limitare ad analizzare le leggi scritte e le consuetudini aventi forza di legge in modo neutro, senza dare giudizi di valore o addentrarsi in argomentazioni di tipo sociologico e antropologico, come si è cercato di fare in questa tesi.

Se prendiamo l’esempio della già citata “non litigiosità” del popolo giapponese, vediamo che i vari autori hanno distorto i dati sul tasso di contenzioso per sostenere l’idea che in Giappone fosse preferita la conciliazione e altri tipi di risoluzione delle controversie in via stragiudiziale, motivando questa convinzione con il fatto che i giapponesi preferissero non adire le Corti177. Innanzitutto, chi

sono “i giapponesi”? Esiste un’entità astratta che abbia una coscienza collettiva talmente forte da insinuarsi nella gestione quotidiana dei rapporti di diritto privato? La risposta è certamente negativa: non ci si può spingere a sostenere che tutti i giapponesi, o la maggior parte di essi, posti di fronte alla scelta se far valere le proprie ragioni in tribunale, preferirebbero rinunciare al contenzioso “per

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ragioni culturali”. Un’idea simile è semplicistica anche solo per il fatto che potrebbero esserci una pluralità di motivi per cui una persona fisica o giuridica potrebbe evitare un processo civile, non da ultime ragioni di tipo economico (spese legali178) o di riservatezza (questioni che le parti

preferiscono rimangano segrete, per cui il ricorso all’arbitrato appare più opportuno179). Gambaro

e Sacco scrivono180 che “i giapponesi si rivolgono alle Corti modellate sull’esempio europeo meno

di quanto lo facciano gli occidentali. Il dato è noto e incontestabile”, ma questo è un dato (riportato senza fonte) veritiero o è un mito che è stato tramandato per anni dalla letteratura giuridica giapponese e straniera? Secondo i dati ufficiali della Corte Suprema, nel 2010 ci furono 4.317.908181

nuovi contenziosi. Comparando i dati con quelli degli altri Paesi, si vede che il Giappone ha un tasso di litigiosità superiore a quello di Canada e Australia182, che rientrano probabilmente nel

novero dei Paesi “occidentali” secondo l’accezione comune. Inoltre, i dati empirici dimostrano come il contenzioso in Giappone sia aumentato notevolmente a partire dagli anni novanta, a causa di cambiamenti economici e istituzionali183.

In conclusione, si può sostenere che permanga tuttora un atteggiamento orientalistico più o meno consapevole nella dottrina giuridica, indipendentemente dal Paese di provenienza. Nel trattare i sistemi giuridici asiatici sarebbe invece auspicabile mantenere un punto di vista neutro, che eviti l’utilizzo dei termini “Oriente” e “Occidente” e che non cerchi di spiegare o piegare le categorie giuridiche straniere secondo approcci culturali di dubbio valore scientifico.

Nella trattazione che segue, il diritto giapponese è stato trattato esattamente come il diritto europeo, senza che si sia cercato di spiegarlo attraverso una lente culturale.

178 Secondo il diritto processuale civile giapponese, non è previsto il principio di soccombenza, perciò il procuratore

di parte deve essere pagato dal proprio cliente.

179 Per un’analisi completa sull’arbitrato e le prassi del commercio internazionale si rimanda a GALGANO, Francesco;

MARRELLA, Fabrizio. Diritto e prassi del commercio internazionale, Wolters Kluwer Italia, 2010.

180 GAMBARO-SACCO, ut supra.

181 I dati sono reperibili sul sito ufficiale della Corte Suprema all’indirizzo:

http://www.courts.go.jp/app/files/toukei/156/008156.pdf (url consultato da ultimo il 19/03/2017).