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Aprire delle pagine su Maria Montessori non è per niente semplice per due ordini di considerazioni: da una parte, la bibliografia e le piste di indagine su questa figura sono vaste e sterminate; dall’altra il suo lascito intellettuale e culturale richiede un’a- nalisi e uno studio puntuali, attenti e mai esaustivi dei suoi testi. In questo contributo verranno esaminati tre articoli che Maria Montessori scrisse nel 1906, da lei pubblicati sulla rivista La Vita, che mettono in luce le originali riflessioni della studiosa in merito alla devianza minorile e consentono di ricostruire le innovative pratiche rieducative avviate presso il Riformatorio di San Michele, istituzione che si distinse come carcere minorile d’avanguardia1.

Studiando il profilo biografico di Maria Montessori è possibile individuare una sorta di ideale regolativo che accompagna tutto il suo percorso. Ella, infatti ha spe- so un’intera esistenza alla costante ricerca di paradigmi che fossero fondati sui con- cetti di riscatto, autonomia, responsabilizzazione, autodeterminazione, collocando la sua attività in quella che lei stessa denominò «pedagogia riparatrice»2 coerentemen-

te tradotta in un indefesso impegno a favore dei ‘paria’ della società, per spronare al cambiamento e alla trasformazione, mossa dalla consapevolezza che ciò potesse avvenire soltanto passando attraverso l’educazione dei bambini. Forte di una solida impostazione scientifica, Maria Montessori ha da sempre attraversato, per scelta e per vocazione, i campi delle scienze umane e sociali, fin dalla sua formazione postlaurea quando, diventata assistente presso la Clinica Psichiatrica di Roma, entrò in contatto e si interessò ai bambini ‘deficienti’ accolti all’interno del manicomio di Santa Maria della Pietà.

Quando Maria Montessori parla di «pedagogia riparatrice» lo fa nei termini per cui riconosce l’importanza di percorsi di rieducazione mirati, in grado di far convergere «tutti quei mezzi che la medicina, l’igiene e la pedagogia scientifica ci offrono oggi nella trionfante completezza del metodo»3, per compensare condizioni sfavorevoli di

partenza; gli interventi che propone sono finalizzati non solo a risolvere i problemi contingenti, ma soprattutto a indagarne in profondità le cause, per risalire alle radici e impostare efficaci misure preventive.

L’autorevolezza delle sue riflessioni e la popolarità delle sue azioni portarono Ma- ria Montessori a divenire una figura chiave per un’opera di sensibilizzazione a favore dei bambini svantaggiati e traviati; proprio a loro si richiamò nel suo intervento che ebbe ampia risonanza durante il Congresso pedagogico di Torino del 1898, indetto dall’Associazione Pedagogica Nazionale di Roma «per risvegliare, dopo un periodo di silenzio, l’attenzione delle istituzioni e del pubblico sui problemi riguardanti l’infanzia e la sua educazione nel nostro Paese»4. Come è noto, in quell’assise la filantropa aveva

richiamato l’attenzione sul rapporto tra scuola e delinquenza minorile, sostenendo la tesi dell’innocenza dei minori, traviati dalle ingiustizie sociali5. Si tratta di un filo con-

duttore che ha caratterizzato numerosi interventi congressuali di Maria Montessori, impegnata a dimostrare che la povertà non si identifica necessariamente con la perico- losità e che all’origine della criminalità ci sono cause sociali che è possibile rimuovere.

A partire dal pensiero positivista, con l’evolversi delle proprie riflessioni e azioni in ambito educativo, Maria Montessori si discosta sempre più da una visione eccessi- vamente deterministica6, in merito al rapporto tra le supposte cause necessitanti del

al volume di G. Alatri, L’Infanzia svantaggiata e Maria Montessori. Esperienze psicopedagogiche, educative e sociali dal

’900 ad oggi, Roma, Fefé, 2013, pp. 21-45.

2 M. Montessori, Ancora sui minorenni delinquenti. L’amore, «La Vita», 2, 217, 1906, p. 6.

3 M. Montessori, Lottiamo contro la criminalità. È necessario salvare l’uomo a traverso il fanciullo, «La Vita», 2,

249, 1906, p. 6.

4 G. Alatri, L’Infanzia svantaggiata e Maria Montessori cit., p. 22.

5 T. Pironi, Femminismo ed educazione in età giolittiana. Conflitti e sfide della modernità, Pisa, ETS, 2010, p. 48. 6 Cfr. V.P. Babini, L. Lama, Una «donna nuova». Il femminismo scientifico di Maria Montessori, Milano, Franco

reato e il reato stesso7. Non dobbiamo tra l’altro dimenticare che il distacco da un’in-

terpretazione troppo semplificatoria del paradigma lombrosiano caratterizza i per- corsi intellettuali di altri studiosi che si richiamano al positivismo8. Sappiamo, infatti,

come lo stesso Lombroso intravvedesse nell’educazione la possibilità di sottrarre i minori da un destino criminale9. Da ricordare ancora, all’interno della scuola positiva,

il contributo di Enrico Ferri, il quale assegnò la massima importanza ai fattori sociali nell’ottica di un’analisi plurifattoriale della delinquenza10. Pur non trascurando l’im-

portanza dei caratteri biologici ereditari, egli spostava l’attenzione sul contesto socia- le, economico e morale in cui il ‘delinquente’ si era formato: ammetteva in sostanza che persino il ‘delinquente nato’, pur essendo predisposto al crimine, avrebbe potuto non sviluppare i germi di tale malattia se cresciuto in un ambiente idoneo. Si ammet- teva in tal modo la possibilità di un’efficace opera di rieducazione e di riabilitazione, coadiuvata da opportuni interventi migliorativi del contesto sociale11.

Proprio a partire da tali considerazioni, Maria Montessori individuava un margine di riscatto da un destino già segnato, grazie a un intervento educativo volto a favorire percorsi di autodeterminazione nelle giovani vittime. Maria Montessori insisteva mol- to su questo aspetto:

Bisogna risalire al fanciullo e fondare scuole. è l’antico aforisma: ad ogni scuola che s’apre si chiude un carcere […]. Ma in un senso e in un solo senso è assolutamente vero che una scuola aperta chiuda una prigione: quando si tratti di una scuola riparatrice di deficienti, di epilettici, di minorenni delinquenti…tutte quelle persone che appunto finiscono per essere mandate via dalla scuole comuni dove disturbano senza imparare e senza adattarsi alla comu- ne disciplina; e restano abbandonate senza scuola, senza educazione… avendo in sé quelle tendenze che le renderanno pericolose, parassite, aggressive12.

è evidente, pertanto, che una tale affermazione presenta delle conseguenze rilevan- ti, tali da far nascere la necessità di riconsiderare gli interventi e i trattamenti classici. Affrontare la devianza, significa secondo Maria Montessori, non adoperarsi per il suo controllo, bensì per il suo recupero. Questo lascito, prodotto di una profonda ela- borazione e di un attivo impegno sul campo, si è imposto per la sua portata nuova, rivoluzionaria e contrastante.

Per risalire alle origini di questo cambiamento dobbiamo guardare agli anni a ca- vallo tra Otto e Novecento quando, grazie al contributo delle emancipazioniste fem-

7 Sul questo argomento si veda: D. Pick, The faces of anarchy: Lombroso and the politics of criminal science in

post-unification Italy, «History Workshop», 1986; R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antro- pologia criminale, Milano, Franco Angeli, 1985; E. Papa, Il positivismo e la cultura italiana, Milano, Franco Angeli,

1983; M. Gervasoni, Cultura della degenerazione tra socialismo e criminologia alla fine dell’Ottocento in Italia, «Studi Storici», 1997, n. 4, pp. 1087-1119.

8 Cfr. B. Montesi, Questo figlio a chi lo do? Minori, famiglie, istituzioni (1865-1914), Milano, Franco Angeli,

2007, pp. 30-39; U. Levra (a cura di), La scienza e la colpa. Crimini criminali criminologi: un volto dell’Ottocento, Electa, Milano, 1985, pp. 76-77.

9 B. Montesi, Questo figlio a chi lo do? cit., p. 33.

10 C. F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in L. Violante, La

criminalità, Torino, Einaudi, 1997, p. 15.

11 E. Ferri, Sociologia criminale, Torino, Bocca, 1900. 12 M. Montessori, Lottiamo contro la criminalità cit.

minili, assistiamo a una caduta dei paradigmi fondanti il positivismo e al proliferare di servizi edificati su una precisa e inedita progettualità educativa13. A mero titolo

esemplificativo si possono citare l’asilo Mariuccia, istituito a Milano nel 1902 da Ersi- lia Majno per il recupero delle ragazze che, a causa delle misere condizioni economi- che o delle violenze familiari, correvano il rischio di essere avviate alla prostituzione; l’istituto per la protezione dell’infanzia abbandonata, fondato a Padova nel 1895 da Stefania Omboni; gli Asili-famiglia fondati da Felicitas Buchner nel 1907, in cui la prole abbandonata veniva sottratta alla desolante vita negli istituti e educata in un ambiente agreste.

Attraverso l’impegno di queste donne è possibile cogliere gli esiti pedagogici del movimento «emancipazionista riformista», come lo definì Sibilla Aleramo14, più co-

nosciuto come «femminismo pratico»15, che si esplicavano in attività di «filantropia

politica». L’esperienza del cosiddetto «femminismo pratico» aprì il terreno a un la- voro introspettivo da parte di ciascuna attivista, motivata da una precisa presa di co- scienza, e al tempo stesso portò l’intero movimento femminista a rivendicare un pro- tagonismo, in campo sociale, per la tutela, promozione e rieducazione dell’infanzia16,

soprattutto quella svantaggiata, emarginata, derelitta.

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