A partire dagli anni ’70, le novità pedagogiche elaborate dai tanti alfieri del lavoro educativo, come l’attenzione per la manualità o l’utilizzo di particolari strumenti e materiali, erano al centro di un intenso dibattito, che rifletteva l’esigenza crescente di ripensare l’educazione al lavoro in un contesto di rapida trasformazione. La Relazione
sui bisogni educativi della scuola, alla quale si è già accennato, pubblicata sul «Bollet-
tino» del ministero, è un testo interessante in questo senso, non soltanto perché costi- tuisce una spia dell’interessamento del ministero per la questione, ma anche per come l’autore – il professor Emanuele Latino – affrontava, nel bel mezzo dell’approvazione della nuova legge elettorale23, la questione del rapporto fra lavoro ed educazione mo-
rale del futuro cittadino. Egli tracciava un quadro generale per tappe dell’evoluzione della formazione al lavoro in Europa, dal monachesimo medievale «pericolosamente comunista» al virtuoso sistema delle botteghe fino ad arrivare all’età contemporanea:
Ma d’altra parte i frutti del lavoro accumulato, legittimi in sé, sollevarono il gran proble- ma de rapporti tra il lavoro ed il capitale, e quella che è detta, per antonomasia, la questione sociale. Oggi non si tratta soltanto di preparare l’operaio, ma altresì, l’uomo il padre il citta- dino; non è solo una questione di braccia e di abilità manuale; ben altro si richiede: bisogna anche educarne la mente ed il cuore, formarne il carattere. In quest’ultima fase ci troviamo di fronte ad un insieme d’interessi che sollevano la questione del lavoro manuale alla dignità di problema pedagogico24.
Nel tirare infine le somme, Latino individuava nel froebelismo il metodo più adat- to, ma ne sconsigliava tuttavia l’immediata applicazione nelle scuole italiane per la carenza di strutture adatte e la pressoché totale mancanza di insegnanti preparati. Se
21 Il primo Congresso Nazionale di Lavoro Manuale in Ripatransone, 30 settembre 1889, in «Risveglio educativo»,
II, 1889, n. 12, p. 1-2.
22 Ibidem.
23 R. Romanelli, Alla ricerca di un corpo elettorale. La riforma del 1882 in Italia e il problema del suffragio, in
P. Pombeni (a cura di), La trasformazione dell’Europa liberale, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 172-204.
nel 1887 la missione di Nääs si sarebbe proposta come una risposta al secondo pro- blema, molte altre questioni sarebbero rimaste aperte: un atteggiamento scettico verso una possibile introduzione del lavoro educativo nelle scuole italiane fu largamente condiviso da Villari e Gabelli.
«È opportuno intendersi chiaramente – scriveva Villari nel 1888 – sul significato del lavoro manuale e sulla vera natura del problema pedagogico che tanto e da tanti si discute. Molte cose diverse furono tra loro confuse e ne seguirono molti malintesi che è bene dissipare»25. Allo storico, i confini fra l’istruzione professionale e l’educazione
al lavoro erano parsi, infatti, estremamente labili, se non del tutto calpestati, in molte delle scuole europee che aveva avuto modo di visitare nel corso di quell’anno; era il caso ad esempio della scuola di rue de Tournefort di Parigi, dove ai bambini di cinque e sei anni era già concesso di utilizzare arnesi pericolosi e all’insegnamento di una cultura di base si privilegiava una formazione essenzialmente pratica26.
La posta in gioco sollevata dalla questione del lavoro educativo gli era però apparsa immediatamente chiara: gli sforzi delle élite avrebbero dovuto indirizzarsi d’ora in- nanzi a formare il popolo al mestiere di operaio, «principale personaggio» della socie- tà moderna, e contemporaneamente prepararlo alle sue responsabilità civili, dettate dall’allargamento del suffragio27. Parlando della riforma dei programmi elementari
del 1888, Gabelli notava «[…] che venendo la scuola frequentata ogni di più dal popolo minuto, e dovendo quindi soddisfare anche e forse principalmente ai bisogni suoi» dovesse necessariamente essere di avviamento al lavoro. Tuttavia, sottolineava come fino ad allora nessuno avesse trovato il modo «di far lavorare tutti gli alunni d’una scuola ogni poco numerosa senza vederla cangiar in officina»28.
Infine, sullo stesso punto, si era espresso anche Pick, sottolineando come la con- correnza delle macchine nel campo industriale imponesse di formare una nuova ge- nerazione di operai, non più schiavi, ma elevati al «concetto e alla dignità di artisti»29.
Era la questione sociale ad imporre una riforma scolastica che includesse una qualche forma d’educazione al lavoro, perché «il mestiere ai nostri tempi esige operai ben diversamente istruiti e preparati di quelli che l’odierna scuola popolare suole invitare alle officine»30. Serviva cioè una scuola che invogliasse i fanciulli ad «apprezzare le
25 P. Villari, Il lavoro manuale nelle scuole elementari cit., p. 8. 26 Ibidem.
27 Villari commentava a proposito: «Chi può supporre che la scuola, i metodi e gli insegnamenti delle età passate
– continuava il primo – quando si trattava quasi esclusivamente di formare una borghesia ed un’aristocrazia per le arti, le lettere e la politica, le professioni di avvocato o medico possano bastare oggi, quando il lavoro industriale è divenuto l’opera principale della società, e l’operaio è per divenire il principale personaggio?». Cfr. P. Villari, Il lavoro manuale
nelle scuole elementari cit., p. 8 e sg.
28 Pietro Pasquali rispose a queste critiche: «Mi sento dire che coi lavori in legno e in ferro la scuola degenera in
bottega, in officina. […] Noi non intendiamo di sostituire l’officina all’attuale programma d’insegnamento, intendiamo
di aggiungerla. Anziché degenerare, la scuola dovrà guadagnare in serietà, efficacia, valore». Cfr. P. Pasquali, La scuola
degenera? In «Il lavoro educativo. Supplemento al giornale Il Risveglio educativo», 4, 2, p. 2.
29 A. Pick, Il lavoro e l’educazione moderna cit., p. 17.
30 «Le macchine fanno una irresistibile concorrenza al lavoro puramente manuale – scriveva ne Il lavoro e l’edu-
cazione moderna – hanno abolito gli schiavi, redento i servi; solleveranno gli operai al concetto e alla dignità di artisti.
Se non vogliamo che le macchine avvolgano tra i loro fili e le loro ruote la rovina delle classi operaie, facciamo queste ultime capaci di un lavoro sempre più intelligente. Solo a questa condizione le molteplici invenzioni della meccanica gioveranno alla dignità ed al benessere umano». A. Pick, Il lavoro e l’educazione moderna cit., p. 43.
gioie e le delizie del lavoro coll’adempimento del proprio dovere», in modo tale da al- lontanare le classi lavoratrici dalle «soddisfazioni sensuali e grossolane», e di abituarle invece al «culto delle gioie domestiche»31. La pedagogia froebeliana si presentava agli
occhi di Pick come una sintesi perfetta, contribuendo contemporaneamente allo svi- luppo psico-fisico del bambino, da un lato, e, dall’altro, al perseguimento del benesse- re collettivo. Il gioco froebeliano diventava «il lavorar dell’infanzia», la prefigurazione delle mansioni future del fanciullo che sarebbe stato avviato così già nel Kindergarten al suo dovere di lavoratore32.
Si sarebbero così potuti prevenire addirittura l’insorgere di rapporti conflittuali sul luogo di lavoro, come gli scioperi, grazie ad un’opera di disciplinamento capillare che partiva proprio dalle attività del giardino d’infanzia, dove «quei teneri operai – continuava Pick – formano piccole associazioni, producono opere collettive»; qui si sedimentano anche quei sentimenti indispensabili nella società moderna, l’amore per il lavoro e la docile accettazione della propria condizione: «Sottomessi ad un ordine determinato, ad una legge benefica che appresta loro movimenti e sollazzi, assorbono grado a grado tutta la pienezza della vita morale. Il maggior castigo – concludeva Pick – per essi è la privazione del lavoro»33. Nella prospettiva di Pick, si precisavano
dunque i significati del lavoro educativo, replicando una logica fortemente conserva- trice che educava sì al lavoro, ma soprattutto all’accettazione e al rispetto dell’ordine sociale predeterminato in un’ottica di concordia tra le classi.