ELOGIO DELLA FOLLIA
28. Per parlare poi delle arti, cosa mai ha spinto l’in-
gegno dei mortali a ideare e a tramandare ai posteri tante discipline giudicate nobili, se non la sete di gloria? Uomi-
94Filosofo greco nato a Stagira, fu precettore di Alessandro Magno,
morì nel 322 a.C. La sua filosofia, adattata alla teologia cristiana da Tom- maso d’Aquino, costituì il fondamento della filosofia scolastica medievale del XIII secolo.
95Secondo l’antica tradizione due Deci (IV e III sec. a.C.) si sarebbe-
ro sacrificati per salvare la città e Curzio, cavaliere romano, si buttò spin- to dalla vanagloria nel precipizio apertosi nel Foro, per placare gli dèi che chiedevano la cosa più preziosa di Roma.
ni di una follia unica quelli che hanno cercato di acqui- starsi, al prezzo di tante notti insonni e di tante fatiche, una fama di cui niente può essere più vano. Intanto però, siete debitori alla Follia di tutte le cose belle della vita e della cosa in assoluto più piacevole: il fatto che godete dei frutti della follia altrui.
29. (a) E se poi, dopo aver rivendicato il diritto a es-
sere lodata per la forza e l’operosità, lo rivendicassi anche rispetto alla saggezza? Qualcuno dirà: « È come mischia- re l’acqua col fuoco »96. Credo tuttavia che riuscirò an-
che in questo, purché voi, come avete fatto prima, mi aiu- tiate ascoltandomi attentamente.
(b) Innanzitutto, se la saggezza consiste nell’esperien- za, a chi spetta di diritto l’onore dell’appellativo di sag- gio: al sapiente che, in parte per modestia, in parte per ti- midezza, non pone mano mai a niente, o al folle che né il pudore, di cui è privo, né il pericolo, che nemmeno valu- ta, riescono a distogliere da una qualche azione? Il sa- piente si rifugia nei libri degli antichi, dove impara solo argute trovate verbali. Il folle, affrontando di petto situa- zioni anche di un certo rischio, raggiunge, se non sbaglio, la saggezza autentica. È questo che sembra abbia visto Omero, nonostante fosse cieco, quando dice: « Il folle comprende i fatti »97. Due sono infatti gli ostacoli princi-
pali alla conoscenza delle cose: la vergogna, che offusca l’animo, e la paura, che distoglie dall’intraprendere l’a- zione col mostrarne il rischio. Ma la Follia libera da que- sti problemi in modo mirabile. Pochi mortali capiscono davvero quanti vantaggi rechi il non avere mai vergogna e il non astenersi mai dall’azione.
96A scanso di equivoci e nel momento in cui l’ambiguità dell’ironia
erasmiana sembra crescere Listrius ribadisce: « Infatti, come si usa dire, la
Saggezza e la Stoltezza contrastano da punti diametralmente opposti » (LB,
IV, 427).
(c) Se invece si preferisce considerare la saggezza98
come giusto giudizio della realtà, ascoltate, vi prego, quanto lontani ne siano coloro che si spacciano per sa- pienti. Prima di tutto è noto che tutte le cose umane, co- me i Sileni di Alcibiade99, abbiano due facce estrema-
mente diverse fra di loro. Al punto che ciò che a un primo sguardo, come si dice, è morte, risulta essere vita, solo che lo si guardi più in profondità: viceversa, al posto della vita trovi la morte, al posto del bello il brutto, al po- sto della ricchezza l’assoluta povertà, al posto dell’infa- mia la gloria, al posto dell’erudizione l’ignoranza, al po- sto della forza la debolezza, al posto della generosità l’abiezione, al posto dell’allegria la tristezza, al posto del- la prosperità la sventura, al posto dell’amicizia l’inimici- zia, al posto del salutare il nocivo; insomma, se apri il Si- leno, troverai il contrario di tutto. Se poi a qualcuno questo discorso sembra troppo filosofico, sono pronta a renderlo più chiaro ricorrendo, come si usa dire, a una Minerva più crassa100. Chi non riconosce che un re sia
98A proposito della saggezza, così ironicamente messa a nudo nella sua
inutilità dalla Follia, Listrius ci tiene a precisare: « Si danno tre significati al-
la saggezza: quella con cui prevediamo il futuro, oppure quella che è acquisita attraverso l’esperienza, o in generale quella che è costituita dalla capacità di giudicare e capire le cose; quest’ultima può anche essere indipendente dall’e- sperienza » (LB, IV, 428).
99Annota Garin a proposito dell’Adagio erasmiano (cfr. Garin, 43
nota 56): « I Sileni di Alcibiade è uno dei più importanti fra gli Adagi era- smiani […]. Erasmo prende le mosse dal testo famoso del Simposio plato- nico (215a), sul contrasto fra apparenza e verità, fra esterno e interno (“chi aveva valutato Socrate, come si dice, dalla buccia, non l’avrebbe pagato un soldo. Aveva una faccia da bifolco, un’aria bovina, il naso schiacciato e pieno di moccio. L’avresti detto un buffone tardo e ottuso […]. Eppure spiegando questo ridicolissimo Sileno, tu avresti indubbiamente scoperto un essere più divino che umano; un grande animo, altissimo, filosofico nel vero senso della parola”) ».
100Vale a dire: in maniera più comprensibile e alla buona. A proposi-
to di questo proverbio Listrius annota con una punta critica verso l’in- comprensibilità di certi discorsi filosofici: « Con questo detto proverbiale [“age pinguiore, quemadmodum dici solet, Minerva”] vogliamo [Erasmo
ricco e potente? Eppure se non gode di nessun bene spi- rituale e mai nulla lo soddisfa, è chiaramente una persona poverissima; se poi il suo animo è contaminato da moltis- simi vizi, è addirittura un ignobile schiavo. Ugualmente sarebbe lecito filosofare per gli altri casi, ma basti aver proposto questo esempio. A che scopo?, dirà qualcuno. State ad ascoltare dove voglio andare a parare. Se uno tentasse di togliere le maschere agli attori che rappresen- tano un dramma e di mostrare nudo agli spettatori il loro vero volto, non manderebbe a monte la rappresentazione e non sarebbe giudicato degno di essere cacciato da tutti gli altri a sassate fuori dal teatro, come se fosse un forsen- nato? D’un tratto le cose assumerebbero un aspetto nuo- vo: chi prima era donna ora è uomo, chi era giovane ora è vecchio, chi era re improvvisamente è schiavo, chi era un dio improvvisamente appare vile omuncolo. Davvero, eliminare l’illusione significa sconvolgere tutto il dram- ma. È proprio quella finzione, quel trucco ciò che cattu- ra lo sguardo degli spettatori. Ma poi, cos’altro è la vita umana se non una rappresentazione nella quale i diversi attori si fanno avanti chi con una maschera, chi con un’al- tra e recitano ognuno la propria parte, finché il capo co- mico non li allontana dal proscenio? Lui, che spesso or- dina però al medesimo attore di uscire con una maschera diversa, per cui chi poco prima impersonava un re avvol- to nella porpora, adesso interpreta uno schiavo straccio- ne. Certo, è tutto una finzione, ma questa commedia [della vita] non si può recitare altrimenti101.
e Listrius?] significare che parliamo in modo più facile e più palese. Infatti al-
cuni dotti spiegano una cosa per sé chiara in maniera così sottile da non poter- si capire. Così come Platone con i suoi numeri sparge tenebre alla filosofia »
(LB, IV, 428).
101Listrius precisa che la commedia della finzione di cui parla Erasmo
è la vita dell’uomo: «[L’autore] intende la vita, in cui nulla è compiuto con
un giudizio sincero delle cose, ma tutti siamo condotti dalle ombre e dalle rap- presentazioni delle cose » (LB, IV, 428). Già Platone (Leggi I,644e-645d;
(d) Se a questo punto un sapiente caduto dal cielo saltasse fuori all’improvviso e si mettesse a gridare che il personaggio a cui tutti guardano come a un dio e a un po- tente non è neppure un uomo, poiché si lascia guidare dalle passioni come gli animali, e che è uno schiavo di in- fima categoria, dal momento che presta spontaneamente i suoi servigi a padroni così numerosi e abbietti102; oppu-
re a un altro che piange il padre estinto ingiungesse di ri- dere, per il fatto che il padre ha finalmente cominciato a vivere, essendo questa vita niente altro che morte; oppu- re chiamasse un altro ancora, che si gloria della propria nobile ascendenza, plebeo e bastardo perché lontanissi- mo dalla virtù, unica fonte di nobiltà; e se dunque [que- sto sapiente] parlasse così di tutti gli altri, di grazia, co- s’altro otterrà, se non sembrare a tutti pazzo furioso? Niente è più dissennato della saggezza fuori posto, così come niente è più imprudente della prudenza usata a sproposito103. Giacché agisce a sproposito chi non si
adatta alle circostanze presenti, non vuole partecipare al- la vita sociale, non si ricorda nemmeno della famosa leg-
VII,803c) aveva rappresentato la metafora della vita come un teatro e gli uomini come marionette azionate da un dio. Bisogna dire che questa me- tafora del theatrum mundi è un tema frequente nella letteratura del Rina- scimento: cfr. Carena, 83 nota 9.
102Gli intenti moralizzatori della satira erasmiana sono ribaditi anche
dalle annotazioni di Listrius, che ad esempio qui scrive: « Di quanti vizi sei
schiavo, altrettanti padroni hai, e questi impongono qualche volta cose di- verse. Così, mentre l’avarizia spinge verso il cercare di ottenere, l’amore co- manda di spendere » (LB, IV, 429).
103L’ironia qui diventa ancor più difficile da comprendere nel suo sen-
so vero. Anche il saggio, dunque, viene considerato folle da gente “folle”, che ama le apparenze, nel momento in cui smaschera la finzione menzo- gnera e dice la verità sugli uomini. Ancora una volta Listrius conferma lo scopo riformatore e moralizzatore dell’Elogio, annotando: « Non c’è da me-
ravigliarsi che presso i pagani la verità fu invisa al popolino rozzo. Ma neppu- re i cristiani riescono a sopportare queste cose che sono verissime. E quando riusciremo a conservare la vera virtù, se non possiamo sopportare neppure la sua faccia, se rifuggiamo anche dal suo ricordo? » (LB, IV, 429).
ge conviviale “o bevi o te ne vai”104e pretende che una
commedia non sia più una commedia. Di contro è atto di vera saggezza, essendo tu un mortale, non voler essere più saggio di quanto ti sia toccato in sorte, solidarizzando invece con l’intera umanità nel chiudere coscientemente gli occhi davanti agli errori e partecipando di buon grado agli sbagli di tutti. « Ma proprio questo », dicono, « è fol- lia ». Non cercherò certo di sconfessarli, ma, in cambio, ammettano costoro che questo è recitare la commedia della vita105.
30. (a) Dèi immortali, parlerò o tacerò in merito al re-
sto? Perché dovrei tacere, se ciò su cui dovrei tacere è più vero del vero? Ma forse, in un tale frangente, sarebbe me- glio far venire dall’Elicona le Muse106, che i poeti sono
soliti invocare anche troppo spesso per delle vere e pro- prie stupidaggini. Assistetemi dunque un poco, figlie di Giove, finché riesca a dimostrare che nessuno, se non sotto l’egida della Follia, ha una qualche possibilità di pervenire alla nobile sapienza, rocca, come essi dicono, della felicità.
(b) Prima di tutto è indubbio che tutte le passioni rientrino nella dimensione della follia, giacché è possibi- le distinguere il sapiente dal folle sulla base di questo tratto caratteristico: il temperamento del primo è schiavo delle passioni, quello del secondo è dominato dalla ragio-
104Cfr. Cicerone, Discussioni tuscolane V,41,118.
105Data l’ambiguità in cui si muove l’ironia in questo capitolo sul
rapporto Follia-saggio non ci pare si possa concludere – come sembra fa- re invece Petruzzellis (cfr. Petruzzellis, 62 nota 1) laddove oppone Moro (l’intransigente e solitariamente saggio) all’umanista olandese – che Era- smo condivida l’opinione secondo cui sia preferibile essere folle con i fol- li secondo il consiglio della “saggia”-Follia. Se è vero che anche per Era- smo la finzione ingannatrice è l’elemento prevalente nella vita umana, tuttavia non c’è dubbio che il compito del saggio-“folle” è a suo giudizio quello di aiutare gli uomini a elevarsi oltre le apparenze e oltre il vizio.
ne; ed è per questo che gli Stoici stornano dal saggio tut- te le passioni, come se fossero malattie. Ma queste pas- sioni non solo assolvono alla funzione di pedagoghi per chi si affretta verso il porto della sapienza, ma, nell’eser- cizio della virtù, sono in genere come degli sproni, degli stimoli, degli incoraggiamenti ad agire onestamente107.
Anche se a questo punto reclama con forza Seneca, stoi- co due volte, che spoglia davvero il sapiente di ogni pas- sione108. Ma, facendo ciò, distrugge anche l’uomo e crea,
per così dire, una nuova divinità, che mai è esistita né mai esisterà; anzi, per parlare con più chiarezza, scolpisce un simulacro marmoreo dell’uomo, privo d’intelligenza e del tutto estraneo alla sensibilità umana. Dunque si go- dano costoro, se lo desiderano, il loro sapiente, lo amino pure come se non avesse rivali e, assieme a lui, abitino nella città di Platone o, se preferiscono, nel mondo delle idee o nei giardini di Tantalo109. Chi infatti non fuggireb-
be inorridito, come davanti a un mostro o a un fantasma, da un uomo assolutamente privo di sentimenti naturali, non animato da alcun tipo di passioni, incapace di amore
107Erasmo sembra propendere per la posizione dei Peripatetici o di
uno stoicismo “equilibrato” che non condanna in assoluto le passioni. Sul- la posizione stoica “intransigente” e quella dei Peripatetici cfr. anche il
Manuale del soldato cristiano (« Gli Stoici trovano giusto servirsi degli im-
pulsi suscitati dalle sensazioni come di pedagoghi per pervenire in seguito al giudizio (…) allora bisogna abbandonare del tutto gli impulsi (…) Ma i Peripatetici insegnano non a sradicare gli affetti, bensì a tenerli a freno, perché essi hanno una certa utilità: secondo loro infatti sarebbero stati at- tribuiti alla natura affinché incitassero ed esortassero alla virtù » [cfr. ed. De Nardo, 75]) e l’Ecclesiaste ossia sul modo di predicare (« Del resto il dogma stoico che condanna qualsiasi sentimento è stato energicamente ri- fiutato non solo dai cristiani ma anche dai più equilibrati fra gli Stoici » [LB, V,951 EF]). Citazioni in D’Ascia, 115 nota 175.
108Cfr. Seneca, Lettere LXXXV,2-12.
109Tantalo, personaggio mitico, era stato condannato dagli dèi a ri-
manere incatenato nel Tartaro e a essere eternamente tormentato dalla se- te e dalla fame, nonostante fosse immerso nell’acqua e vicino a lui ci fosse un albero carico di frutti. I “giardini di Tantalo” indicano dei luoghi im- maginari.
o di pietà, come se fosse “una dura selce o una rupe del Marpeso”110, a cui non sfugge niente, che non sbaglia
mai, ma che, come se fosse Linceo111, tutto osserva, tutto
soppesa con precisione, nulla perdona, e che solo di sé è soddisfatto, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui so- lo libero, insomma lui solo tutto (e solo a suo giudizio)? Lui che non si attacca a nessun amico e non ne ha nessu- no, che non esita a trarre in catene gli stessi dèi, che con- danna e deride come folle qualunque aspetto della vita? Ma il perfetto sapiente è proprio un animale di questo ge- nere. Vi chiedo, se si andasse ai voti, quale città vorrebbe per sé un magistrato di questo genere o quale esercito de- sidererebbe un tale comandante? Anzi, quale donna sce- glierebbe o sopporterebbe un marito di questo genere, quale anfitrione un simile convitato, quale schiavo un pa- drone di simili costumi? Chi invece non preferirebbe un uomo qualsiasi, tratto dalla folla dei più dissennati, uno che, folle com’è, possa impartire ordini ad altri folli o ad essi obbedire, che piaccia ai suoi simili e quindi al mag- gior numero di persone, che sia gentile con la moglie, gradito agli amici, elegante convitato, uno con cui sia fa- cile convivere e che, infine, non consideri a sé estraneo niente di ciò che è umano? Ma ormai non ne posso più di questo sapiente ed è meglio che il discorso torni a occu- parsi degli altri vantaggi da me assicurati.
31. (a) Immaginiamo, dunque, che qualcuno, da un
altissimo punto di osservazione, così come i poeti dicono Giove faccia talvolta112, volga il suo sguardo a considera-
re da quante calamità la vita umana sia funestata, quanto misero e squallido sia il momento della nascita, quanto faticosa l’educazione, a quanti pericoli sia esposta l’in-
110Cfr. Virgilio, Eneide VI,471.
111Eroe della mitologia greca, con una vista acutissima. 112Cfr. Omero, Iliade VIII,51; Virgilio, Eneide I,223-225.
fanzia, da quanti travagli sia assediata la gioventù, quan- to gravosa sia la vecchiaia, quanto duro accettare l’inelut- tabilità della morte, quanto nutrita la schiera di malattie che infestano la vita, quanti accidenti la sovrastino, quan- te minacce la assedino, come niente sia mai esente da amarissimo fiele; per non rammentare i mali che all’uo- mo derivano dai suoi simili, come la povertà, la prigionia, l’infamia, la vergogna, le torture, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma è come mettersi a con- tare i granelli di sabbia. Certo, non mi è permesso dire qui di quali colpe gli uomini si siano macchiati per meri- tarsi tutto questo o quale divinità irata li abbia costretti a nascere a una vita così tormentata. Ma chi rifletta su tut- to ciò, non approverà forse l’esempio, per quanto pieto- so, delle vergini di Mileto?113. E quali sono in particolare
gli uomini che si sono dati la morte per sprezzo della vi- ta? Non sono forse coloro che si sono avvicinati di più al- la sapienza? E tra questi – per tacere dei vari Diogeni, Se- nocrati, dei Catoni, dei Cassi e dei Bruti – il famoso Chirone che, pur potendo essere immortale, di sua vo- lontà preferì morire114. Credo vi rendiate conto di cosa
succederebbe se la sapienza si diffondesse fra gli uomini: ci sarebbe bisogno di altro fango e di un secondo Prome- teo115 in grado di plasmare altri uomini. Io, invece, fa-
cendo leva in parte sull’ignoranza, in parte sulla sconsi- deratezza, a volte facendo dimenticare le sventure, a volte
113Allude alla strana ossessione suicida delle vergini di Mileto, rac-
contata da Plutarco (cfr. Opere Morali, 249B) e ripresa da Aulo Gellio (cfr.
Notti Attiche XV,10).
114Chirone, il più sapiente dei Centauri, pur godendo dell’immorta-
lità quale semidio, impetrò la morte dopo essere stato ferito da una freccia avvelenata di Ercole: cfr. Luciano, Dialoghi dei morti 26 e Ovidio, Meta-
morfosi II,649-654. Anche gli altri personaggi menzionati (Diogene Laer-
zio, Senocrate, Catone, Cassio e Bruto) sono morti suicidi.
115Prometeo, figlio del Titano Giapeto e fratello di Atlante, ritenuto
un benefattore dell’umanità, secondo la leggenda avrebbe plasmato i pri- mi uomini con la creta.
facendo leva sulla speranza che le cose volgeranno al me- glio, talvolta aspergendo la vita col miele del piacere, ven- go in aiuto agli uomini in così tante sventure; al punto che nessuno vuole lasciare la vita quando, finito il filo delle Parche, è la vita stessa che ormai viene meno. Anzi più mancano motivi per rimanere in vita, tanto più si ama vivere; a tal punto si è lontani dall’essere toccati dal tedio della vita.
(b) È certo un mio dono il fatto che si vedono un po’ dappertutto questi vecchi decrepiti come Nestore, ai quali non è rimasto nemmeno l’aspetto d’uomini, balbu- zienti, deliranti, sdentati, canuti, calvi o, per descriverli con le parole di Aristofane, « lerci, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, privi di virilità »116, ma che
provano, tuttavia, un tale piacere a vivere e a comportar- si da ragazzini, che uno tinge la propria canizie, uno na- sconde la propria calvizie con una parrucca, un altro usa denti presi in prestito magari da qualche maiale, quest’al- tro si strugge d’amore per una ragazza e, quanto a sman- cerie amorose, supera qualsiasi giovinetto. Il fatto che uo- mini ormai con un piede nella fossa e per i quali è già pronto il banchetto funebre sposino una candida giovi- netta priva di una dote e che farà la gioia d’altri, è così frequente da costituire quasi motivo di vanto.
(c) Ma è ancora più divertente considerare certe vec- chie, ormai più morte che vive per l’ormai avanzata età, e così cadaveriche da dare l’impressione di essere tornate dagli inferi e che, tuttavia, hanno sempre sulle labbra: « la