2.6 Il kosmos come significato
2.6.3 Polis e kosmos
Il linguaggio in Aristotele si struttura al tempo stesso come polis e come cosmo: le due immagini,
polis e kosmos, riflesse nel linguaggio non sono in contrasto, perché ai singoli individui, alla comunità
e agli esperti che con essa si relazionano corrispondono rispettivamente le doxai, gli endoxa e tanto le technai quanto le epistemai con i loro relativi oggetti (cf. Cauquelin 1990). La peculiarità, già emersa nella presente sezione, della concezione aristotelica del rapporto tra opinione e scienza è il ruolo mediatore della dimensione endossale e dialettica. La considerazione del contenuto sociale e cosmico del linguaggio in Aristotele e quanto detto sinora non fanno che confermare la superiorità della semantica aristotelica sulle semantiche realiste contemporanee (modern essentialism). Infatti, la continuità epistemologica tra doxa ed episteme si riflette nella continuità sociologica tra l’opinione della comunità e quella degli scienziati, passando per i tecnici:
Aristotle […] developed an account of the meaning and understanding of natural-kinds terms which does not require us, as users, to have intentions with the degree of semantic depth presupposed by modern essentialist. According to his account, one can understand the term ‘water’ as a natural-kind term without having any views as to whether water possesses a fundamental scientific nature. Nor need one intend to defer to scientific specialists who have such a knowledge. For Aristotle, it is the craftsman not the scientist who is the key to understand terms of natural kinds. The craftsman can grasp terms of natural kinds without making the semantically deep assumptions implicit in my modern essentialist’s account (Charles 2000: 15).
In merito alle ultime righe della citazione, non si dimentichi che le opinioni tecniche rientrano nelle opinioni notevoli (endoxa). Tecniche, scienze affermate ed endoxa, in grado di essere premesse dialettiche, sono il ponte semantico tra il senso comune e la scienza. Un quadro del genere potrà sembrare inattuale per quanto concerne la fisica del Novecento, ma non si può dire lo stesso riguardo alla linguistica. È proprio nella linguistica del secolo scorso che troviamo una perfetta esemplificazione del ponte semantico tra senso comune e scienza: nell’ordine, opinioni comuni della comunità parlante, pareri dei tecnici (gli specialisti delle grammatiche di lingue particolari, cf. Hjelmslev 1988: 123-124 e § 4.1.1) ed elementi della teoria del linguaggio. Infatti, la scienza del
linguaggio del secolo scorso, quella strutturalista, ha preso le mosse proprio da “certe proprietà
presenti in certi oggetti che la gente è d’accordo nel chiamare lingue” (FTL: 21), ossia dal senso comune, per poi “partire dalle premesse della ricerca linguistica tradizionale e di considerare la cosiddetta lingua ‘naturale’ ed essa sola come il punto di partenza della teoria linguistica” (Id.: 23),
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rifacendosi così al parere della maggioranza degli esperti e a una definizione nominale, e infine sviluppare l’intera semiologia alla luce di una definizione reale o scientifica272:
Bisogna qui sottolineare che queste ulteriori prospettive [sulle semiotiche che non sono lingue
naturali] non sono appendici arbitrarie e superflue, ma che al contrario, e appunto quando ci limitiamo alla sola considerazione della lingua «naturale», esse emergono necessariamente dalla
lingua «naturale» e si impongono come inevitabile conseguenza logica. Se il linguista vuole rendere chiaro a se stesso l’oggetto della sua scienza, si vede costretto a penetrare in sfere che, secondo l’opinione tradizionale, non sono sue (Id.: 109).
La lingua viene ad essere la specie che all’interno del genere delle semiotiche si pone come uno e che si oppone alle semiotiche come la misura si oppone al misurabile273.
In questa sede, l’ultima questione concernente il riflettersi di polis e kosmos nel logos è quella della sociologia aristotelica della conoscenza, sociologia che per certi versi è una socio-biologia. La presenza di tale prospettiva nei testi aristotelici è stata colta dal matematico e pragmatista italiano Giovanni Vailati. A tal proposito, Lucchetta (2009: 109) nota che “per Vailati […] Aristotele sembra voler considerare l’impatto del sapere nelle diverse società e il suo conformarsi a seconda delle mentalità dominanti”. Lucchetta, infatti, trova nella traduzione del primo libro della Metafisica fatta da Vailati degli spunti interpretativi che è disposto, da aristotelista, a fare propri: “Ciò che Vailati sembra suggerirci è di leggere il libro I della Metafisica come se l’autore proponesse un taglio sociologico al problema della nascita e della conformazione dei saperi” (Id.: 110). È su questa linea interpretativa che qui vogliamo insistere e lo facciamo valorizzando il seguente aspetto: “Secondo Aristotele, il ‘miracolo’ ellenico è essenzialmente politico, perché nella polis, nel suo clima di libertà si sviluppa una nuova forma di intellettualità frutto di metissage tra i saperi, di imbastardimenti etnici, di contaminazione culturale” (Id.: 124). Questo vuol dire che gli endoxa non sono appannaggio della sola comunità filosofante stanziata ad Atene; certo, è privilegio degli accademici prima e dei peripatetici poi possedere l’arte dialettica e saper elevare gli endoxa a premesse dialettiche in quanto iniziati alla pratica della discussione condotta con arte, ma anche altre comunità presentano quelli che lo Stagirita ha definito come endoxa e le conoscenze che possono annoverare tra quelle esprimibili in
272 Tutto ciò non si spiega con una presunta consuetudine di Hjelmslev con i testi aristotelici, cosa che pare improbabile, ma con lo stretto rapporto tra dialettica greca e scienza occidentale evidenziato in Berti 2004c; la posizione di Jaspers e Husserl in merito è tutto sommato affine a quella di Berti, almeno per come presentata in Corsetti 2011.
273 L’interpretazione teorica della tipologia delle semiotiche hjelmsleviana mediante le nozioni aristoteliche di genere e specie è già stata avanzata e difesa in Marconi 2017: 101-102. L’ulteriore passo interpretativo qui svolto consiste nel leggere l’opposizione lingua/semiotiche in termini di misura/misurabile e può trovare una base testuale in Hjelmslev 1988: 154-158. Anche qui non si presuppone che Hjelmslev avesse in mente le dottrine aristoteliche: ci si serve di Metafisica Iota per dare un’interpretazione filosofica dell’epistemologia linguistica hjelmsleviana. Tutto ciò equivale a dire che l’essenzialismo moderno non può dare una semantica filosofica della teoria scientifica del linguaggio, mentre quello aristotelico, sotto certi aspetti, lo può.
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forma di premesse dialettiche. Ciò non toglie che “le manifestazioni di tale sapere erano comunque espresse nella lingua greca: si trattava, semmai, di uniformarne i contenuti ricorrendo a un codice che potesse, penetrando le più diverse stratificazioni culturali, porsi come interfaccia tra mondi culturali così distinti tra loro, storicamente e geograficamente” (Id.: 128). Eppure, intelligenza e arti non sono di casa solo in Grecia:
Quelli che abitano nei paesi freddi e nell’Europa sono pieni di impulsi, ma mancano di intelligenza e non hanno fatto progressi nelle arti, ragion per cui godono di maggior libertà, ma non hanno un vero e proprio governo e non sono in grado di dominare sui loro vicini. I popoli dell’Asia sono intelligenti e abili nel progresso tecnico, ma sono privi di vivacità di spirito, sicché continuano a vivere da schiavi e da servi. La stirpe greca così come occupa una posizione geografica intermedia tra l’Asia e l’Europa partecipa dei caratteri che contraddistinguono i popoli dell’una e dell’altra: perciò è intelligente e di spirito vivace, vive in libertà, ha le costituzioni migliori e potrebbe dominare su tutti se fosse unita sotto una sola costituzione. Ciò che abbiamo detto per i varii popoli precedentemente enumerati vale anche per le diverse popolazioni della Grecia nei loro rapporti reciproci: di esse alcune hanno un carattere uniforme, altre presentano caratteri appartenenti alle due tendenze testé delineate (Pol. VII.7, 1327b 23-36, trad. Viano).
Tali considerazioni, inerenti alla biologia dell’animale dotato di logos oltre che alla sociologia della conoscenza (cf. Mingucci 2015: 250), impediscono di considerare la concezione aristotelica del significato qui esposta come limitata alla Grecia o, peggio ancora, ad Atene. Certo, il Liceo ne è forse il luogo naturale e l’entelecheia, ma si tratta pur sempre di qualcosa alla portata degli esseri umani in quanto tali una volta date delle “condizioni ambientali favorevoli” (Lucchetta 2009: 92). Condizioni che, però, non esulano dalla polis, visto che se ne parla nella Politica. Tuttavia, la specificità del Liceo ci resta preclusa se non teniamo conto di quanto segue:
Quindi se l’agire politico e le azioni di guerra hanno la precedenza per bellezza e grandezza tra le azioni secondo virtù, ma non sono prive di fastidi, perseguono un qualche altro fine e non sono scelte per sé; se si ritiene che l’attività dell’intelletto, che è teoretica, spicchi per eccellenza, non persegua alcun fine al di là di se stessa, possieda un suo proprio piacere completo, il quale intensifica l’attività, e abbia anche la caratteristica dell’autosufficienza, della mancanza di fastidi e della capacità di non stancare, per quanto si addice agli esseri umani, e tutte le altre caratteristiche che si attribuiscono all’uomo beato e che chiaramente dipendono da tale attività, allora quest’ultima verrà a essere la felicità umana completa, quando copra lo spazio di un’intera vita: nulla di incompleto vi è tra le caratteristiche della felicità (Eth. Nic. X.7, 1177b 15-26).
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La sophia aristotelica è intesa come azione fine a se stessa del theorein che realizza la piena umanità nell’individuo (umanità che ha un che di divino, come già detto) e non nella dimensione politica274. Chiara è l’opposizione all’ideale platonico dei filosofi-re chiamati, in nome della Giustizia, a darsi il turno nella gestione della cosa pubblica (Resp. 519e-521b). Ciò spiega l’emergere degli endoxa e della dialettica aristotelicamente intesa: la dialettica platonica aveva come sfondo sociale la polis greca, una comunità in crisi e in corso di disgregazione – realtà storica al tramonto, pronta a divenire problema filosofico e figura da comprendere – quando Aristotele sviluppa il proprio pensiero superando l’identificazione di filosofia e dialettica che era stata del maestro (cf. Sichirollo 1965: 233- 234). È per questo motivo che Aristotele nel primo libro della Metafisica riscostruisce e critica la tradizione “sapienziale”, costituendo una prima presa di coscienza del percorso storico della scienza e dandone una giustificazione nel quadro del sapere filosofico mediante una storicizzazione e una
critica della tradizione275. Abbiamo, quindi, individuato le condizioni storiche, tanto di storia sociale
quanto di storia naturale, che hanno reso possibile il rispecchiarsi del kosmos nella polis attraverso
la stratificazione linguistica dei discorsi cittadini: la polis, in generale, e Atene in particolare è quella forma di vita comunitaria aperta all’incontro e alla contaminazione dei saperi che si è trovata fiorire nelle migliori condizioni geografiche e climatiche, quelle della Grecia, per il pieno realizzarsi del
nous umano. Una società nelle migliori condizioni culturali e naturali è in grado di produrre quel rispecchiamento dell’ordine cosmico nell’ordine del discorso di cui l’intelletto della nostra specie è
costitutivamente capace, qualora non trovi impedimenti. Il dono naturale di vedere il simile non è frutto di un imperscrutabile destino, ma di precise condizioni geografiche e climatiche, e la sua messa all’opera rimanda ad un contesto sociale in cui si abbia il tempo di esercitare l’astrazione276, la possibilità di fare esperienza e una tradizione da sottoporre a critica. In conclusione, è possibile osservare in Aristotele, al tramonto della polis, l’avvento di quella che sarà la comunità degli scienziati teorizzata da Peirce277: la polis come comunità politica autonoma e libera fondata su valori
274 Cf. Sichirollo (1965: 206): “La filosofia è tuttavia in Aristotele, ancora una volta il fondamento della comunità politica, nuova, destinata a comprendere greci e non greci: questo intervento del filosofo, il senso della sua presenza, ha ora però unicamente origine nel singolo e in esso ritorna”. La Giustizia e il Bene platonici trascendono, invece, il bene dell’individuo nell’interesse della polis. D’altra parte, Aristotele scrive così del sapiente: “forse si troverà in condizione migliore se avrà dei collaboratori, ma ugualmente sarà in massimo grado autosufficiente” (Eth. Nic. X.7, 1177a 33-1177b 1). Ciò lo contrappone al giusto: “l’uomo giusto avrà bisogno di persone verso le quali compiere azioni giuste, e di compagni cui unirsi per questo” (Eth. Nic. X.7, 1177a 30-31).
275 Cf. Sichirollo 1965: 270. Inoltre, per Berti (1986, 1989) il momento dialettico-diaporetico (problematico) spesso segue quello storico-dialettico e lo integra: radunare e discutere aporie spesso serve a completare la rassegna delle opzioni teoriche disponibili, talvolta tralasciate o trascurate dalla tradizione.
276 Cf. Metaph. I.1, 981b 23-25: “le arti matematiche si formarono per la prima volta in Egitto, poiché là fu permesso di avere tempo libero alla casta dei sacerdoti” (trad. Berti).
277 Cf. Lucchetta (2009: 281): “Ciò che Aristotele intende mostrare [nel primo libro della Metafisica] è che il nuovo linguaggio inaugurato, a suo dire, dai filosofi è in grado di rapportare i parziali contributi di ogni singolo pensatore alla ricerca dell’intera comunità filosofica”. Platone ha pensato la comunità politica ideale, Aristotele per la prima volta nella storia dell’umanità quella dei ricercatori senza sradicarla dal “destino dell’uomo e delle sue città – la storia” (Sichirollo
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e saperi condivisi non esiste più, eppure da essa viene tratta una struttura del conoscere che farà da metodo alla filosofia aristotelica, che è scienza; la dialettica viene così abbassata a metodo delle scienze filosofiche, non più filosofia ma non per questo ridotta a mera tecnica del dibattere.
1965: 282). Tuttavia, proprio questa storicità socio-biologica di quello che Lucchetta ha chiamato il ‘miracolo’ ellenico fa sembrare la comunità peirciana una versione spoliticizzata della comunità platonica ideale, un mero costrutto della ragione nel quale il ricercatore si deve proiettare per praticare il theorein aristotelico anziché l’agire politico platonico (cf. Vegetti 2014: 207-208, per la versione platonica e politica di tale proiezione).
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CAPITOLO 3
Peirce: dall’algebra dei relativi alla semiosi
Il presente capitolo ripercorrerà la trattazione matura del segno in Peirce – con particolare riferimento a ciò che l’autore americano ha caratterizzato come “quasi-necessary” (CP 2.227) o, diremmo noi,
quasi-trascendentale1 – e mostrerà come si struttura il percorso che dalla matematica giunge alla
semiotica, passando dapprima per la faneroscopia (teoria delle categorie intese come elementi ultimi dell’esperienza o fenomenologia), poi per l’estetica e l’etica2. Attraverso questo percorso si giunge alla definizione di segno e, infine, al pragmaticismo come principio afferente alla metodeutica o retorica speculativa, la terza parte della semiotica. La semiotica, infatti, si divide in grammatica formale, logica e retorica formale (cf. CP 1.559). Tuttavia, la designazione delle tre parti della logica come semiotica non è costante in Peirce. Oltre alle varianti già richiamate della denominazione della terza parte della semiotica, si legga il seguente passo: “I recognize three divisions: Stecheotic (or stoicheiology), which I formerly called Speculative Grammar; Critic, which I formerly called Logic; and Methodeutic, which I formerly called Speculative Rhetoric” (CP 4.9). Ma sebbene cambino i nomi, v’è un pensiero-guida che ci farà da bussola: data l’interpretazione peirciana della matematica,
tutto (almeno nei suoi lineamenti principali) segue da essa3. Non miriamo, infatti, a fornire un’esposizione generale della semiotica peirciana, bensì a indagare le conseguenze dell’algebra dei
relativi per la definizione di segno e la teoria degli interpretanti, teoria che fa da quadro per la teoria
peirciana del significato: ecco rintracciati gli elementi del nostro lessico teorico condiviso (cf. § 1.3.2). Il tentativo del presente capitolo è, insomma, quello di mettere assieme i momenti di un approccio generale che al tempo stesso fa emergere e giustifica la concezione relazionale di segno e significato in Peirce. In particolare, si insisterà su un passaggio relativamente poco frequentato dagli studiosi4: quello che dalla faneroscopia va alla grammatica speculativa passando per l’estetica e l’etica. Tale passaggio segna anche la novità di Peirce rispetto ad Aristotele: la faneroscopia è la trattazione peirciana delle categorie. Ora, che la considerazione delle categorie sia preliminare a
1 La semiotica peirciana si occupa di ciò che dev’essere vero dei segni più di ciò che è vero, così come Kant (1995: 155, c.vo ns.) dice che “L’ i o p e n s o deve p o t e r accompagnare tutte le mie rappresentazioni”: in entrambi i casi è questione delle condizioni di possibilità della rappresentazione (cf. cap. 1).
2 La classificazione delle scienze secondo Peirce, per quanto ci concerne in questa sede, è la seguente: Matematica, Filosofia (Faneroscopia, Scienze Normative (Estetica, Etica, Logica (Grammatica Speculativa, Critica Logica, Metodeutica)), Metafisica).
3 Putnam nella sua introduzione a RLT procede verso questa direzione interpretativa. Essa è suggerita dallo stesso Peirce (Peirce 2003: 83, MS915).
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quella del segno lo si è già visto con Aristotele, ma che per parlare di segno e significato si debba parlare prima di estetica ed etica ci giunge nuovo rispetto all’impianto aristotelico. Sebbene i confronti con Aristotele saranno per la maggior parte rinviati al capitolo conclusivo (in nessun modo il presente lavoro mira a rendere conto delle influenze aristoteliche sulla semiotica e il pragmaticismo5), vi sono due ordini di problemi che, se vogliamo giungere alla retta intelligenza dei testi peirciani, non si possono accantonare: il primo riguarda l’esplicito riferimento ad Aristotele in momenti chiave della discussione del pragmaticismo; il secondo riguarda il fatto, riconosciuto da Claudine Tiercelin (2004: 356-359), che il Peirce maturo (a differenza del giovane che conosceva la prima Critica a memoria) lesse estensivamente tanto Platone6 quanto Aristotele. Soprattutto questo secondo aspetto rende particolarmente interessanti affermazioni come le seguenti:
The metaphysics that recognizes all the categories may need at once to be subdivided. But I shall not stop to consider its subdivision. It embraces Kantism,—Reid’s philosophy and the Platonic philosophy of which Aristotelianism is a special development. […] I should call myself an Aristotelian of the scholastic wing, approaching Scotism, but going much further in the direction of scholastic realism (EP2: 180, datato 1903).
Even Duns Scotus is too nominalistic when he says that universals are contracted to the mode of individuality in singulars meaning as he does, by singulars, ordinary existing things. […] At last comes the return to Aristotelianism, which recognizes that an account of the world must admit Priman, Secundan, and Tertian elements. In that there is rest (Peirce 2010, datato 1905).
Di solito, quando ci si pone il problema del rapporto tra due autori lontani nel tempo ma connessi da una comune tradizione, si ricorre a una teoria dell’interpretazione (sia essa esplicitamente assunta o meno). Usualmente, si affronta la questione sulla base di un’interpretazione dei due autori coinvolti e ci si chiede perché l’autore posteriore interpreti il suo predecessore in un determinato modo anziché
5 Tiercelin (2004: 371) conclude cautamente: “C’est peut-être là que Peirce est le plus authentiquement aristotélicien : dans la conscience aiguë – puisqu’une métaphysique implicite accompagne tous nos jugements […] – de la priorité de l’investigation métaphysique et du type de méthode à suivre pour y progresser : poser des problèmes, s’appuyer sur la logique, rester en permanence au contact des sciences. Mais c’est un aristotélicien, comme il le dit lui-même, « de la branche scolastique, proche du scotisme, et allant beaucoup plus loin en direction du réalisme scolastique » [EP2: 180]”. L’influenza di Aristotele sulla logica di Peirce è documentata da Hilpinen 2001 e Bellucci 2016. Anticipazioni e limiti di Aristotele rispetto alla logica dei relativi e alla semiotica di Peirce sono discussi in Oehler 1981.
6 Il caso di Platone è complesso, si pensi a “Thought, says Plato, is a silent speech of the soul with itself. If this be admitted immense consequences follow; quite unrecognized, I believe, hitherto. But it is a vexed question whether this be true” (W2: 172), scritto nel 1868, e a “La risposta che sto ora riferendo procede facendo vedere, cosa che sarà difficilmente contestata, che ogni riflessione deliberativa, o pensare propriamente detto, prende la forma di un dialogo” (Peirce 2003: 136, MS 498), scritto nel 1906 circa. Platone era già nei pensieri del giovane Peirce, ma la stessa tesi riemerge come tutt’altro che controversa e senza alcun riferimento al filosofo ateniese negli scritti del secolo successivo proprio in merito a uno dei temi cruciali dell’intero pensiero peirciano. Su tali aspetti non si ritornerà perché nella presente ricerca non si tratta di Platone, tuttavia si rinvia a Fabbrichesi 2006 per un confronto teoretico Platone-Peirce. Sulla dialogicità del pensiero si ritornerà nel cap. 5 perché di capitale importanza nel far emergere i limiti della Glossematica di Hjelmslev.
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in un altro e magari sulla base di quali fonti interpretative intenda il suo predecessore. Tutto ciò è estremamente lontano dal caso di Peirce, poiché il più grande filosofo americano ha un’idea piuttosto chiara in merito all’interpretazione: “Symbols grow” (CP 2.302). Una buona esegesi di tale massima è rintracciabile nella distinzione avanzata da Sini tra
1. La verità del “significato”: per es. il significato della teoria darwiniana è che essa dice che