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2.4 Symbola e semeia tra natura e cultura

2.4.2 Il semeion vuole essere un symbolon

Lo Piparo (2003) ha, come anticipato, contribuito con forza al giusto accostamento tra symbolon e

semeion, pur criticandol’uso da parte di Boezio della parola latina notaper rendere entrambi i termini greci nella sua traduzione del De interpretatione (cf. Id.: 34-41). L’esito della scelta boeziana111 porta

alla lettura in termini di segno convenzionale sostenuta in Pépin 1985: se nota unisce semeion e

symbolon sotto lo stesso genere, occorrerà distinguerli mediante l’opposizione

naturale/convenzionale. L’insostenibilità della lettura di Pépin emerge se si sostituisce a symbolon la sua interpretazione in termini di segno convenzionale112. Infatti, così facendo il seguente passo risulta irrimediabilmente circolare: “Quanto al fatto che sia per convenzione, ciò è perché nessuno dei nomi è tale per natura, ma allorquando venga ad essere segno convenzionale” (τὸ δὲ κατὰ συνθήκην, ὅτι φύσει τῶν ὀνομάτων οὐδέν ἐστιν, ἀλλ’ ὅταν γένηται σύμβολον, De int. 2, 16a 27-28, trad. Zadro mod.). Inoltre, chi difendesse il testo così ottenuto dalla circolarità ribadendo che ha senso dire che qualcosa è convenzionale perché non è naturale (a questo, infatti, si riduce il significato di tale testo nell’interpretazione convenzionalista), incorrerebbe nell’assurdità di dire che per gli esseri umani non è naturale avere delle convenzioni. D’altra parte, è solo da una prospettiva sistematica113 che si può

sperare di cogliere il rapporto tra linguaggio e significazione, tra cultura e natura. Su ciò è stata fatta luce da Higinio Marín Pedreño distinguendo il logos come forma e come fine nell’uomo: è sul piano teleologico che si pongono differenze fra i tipi umani e tra chi vive nella polis e chi da essa è escluso o si trova una diversa organizzazione sociopolitica114. Sempre in questa chiave, lo studioso spagnolo

argomenta che il logos si costituisce come physis sulla base delle condizioni ambientali e sociali: un

presuppone l’univocità della nozione di identità, presupposto non condiviso da Aristotele. Il tutto si risolve nel dire che Aristotele è privo di una psicologia moderna (il che, vista la dialettica trascendentale kantiana, è una buona notizia) e che la sua ontologia dei relativi non si accorda con la logica delle relazioni di Russell e Whitehead.

110 Infatti, Lo Piparo 2003 traduce costantemente symbola con “differenti e complementari”, evitando il termine “contrari”.

111 Guglielmo di Moerbeka adotterà, invece, symbola e signa come rese di symbola e semeia (cf. Lo Piparo 2003: 34). 112 Anche Kretzmann 1974 e Montanari 1988 depongono a sfavore della lettura di Pépin (cf. Marconi 2014: 14-19). 113 Tale è la metodologia interpretativa applicata da Mignucci alla scienza aristotelica, in questo gli è solidale Melandri per quanto riguarda l’interpretazione della logica aristotelica nello specifico (cf. § 2.1.2).

114 Tale nozione di tipo umano utilizzata per interpretare Aristotele ha ricevuto uno sviluppo ulteriore in chiave fenomenologica in Stein 2000.

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conto è averlo come forma ed essere umani e un conto è averlo realizzato come fine in maniera tale da renderlo principio naturale delle azioni individuali e della prassi politica115. Del resto, tutto ciò

risponde alla diagrammatizzazione proposta da Lo Piparo (2003: 31), posto che il “LINGUAGGIO” che figura in essa venga inteso come logos in quanto fine:

Felicità, città e linguaggio vengono a configurarsi come i vertici di una sorta di triangolo antropocognitivo. Come accade nei triangoli geometrici, anche qui ciascuno dei tre vertici può esistere se e solo se ci sono gli altri due: basta sopprimerne uno per far collassare l’intero triangolo.

I symbola, in primis quelli che gli elementi della voce umana costituiscono, sono segni zoo- fisiognomici di quella specie animale che è l’uomo, eppure “il segno intende essere una protasi dimostrativa o necessaria o fondata sull’opinione comune” (σημεῖον δὲ βούλεται εἶναι πρότασις ἀποδεικτικὴ ἢ ἀναγκαία ἢ ἔνδοξος, An. Pr. II.27, 70a 6-7, trad. Mignucci). In proposito Lo Piparo nota giustamente: “L’idea di Roland Barthes (1964 [Eléments de sémiologie]) che i segni non linguistici debbano considerarsi interni al linguaggio verbale ha in Aristotele un autorevole sostenitore” (Lo Piparo 2003: 135). Il segno è tanto cosa del mondo quanto premessa, ossia symbolon, visto che la premessa è un enunciato. Del resto, il passo aristotelico appena citato continua così:

115 Per giungere alle proprie conclusioni, lo studioso spagnolo argomenta riguardo all’akrasia e alla schiavitù, ma tali conclusioni (cf. Marín Pedreño 1993: 219-314) gettano luce su di un aspetto generale delle ricerche aristoteliche sull’uomo, nonché sui suoi rapporti con l’antropologia medievale e contemporanea (cf. Kahn 1995: 378, che attua un confronto simile facendo riferimento a Geertz, antropologo contemporaneo citato anche da Marín Pedreño).A favore di una tale lettura, ma muovendo dagli usi di symbolon nel corpus aristotelicum, depongono anche le analisi lessicografiche discusse in Marconi (2014: 20-27, 75). Nella direzione dello studioso spagnolo vanno pure Lucchetta 2010b e Mingucci (2015: 233-259). In Lucchetta (2009: 87-132) si trovano considerazioni analoghe che prendono le mosse dall’incipit della Metafisica e dal desiderio universale per il sapere; come per il logos, anche la tendenza alla conoscenza per realizzarsi necessita di “condizioni ambientali favorevoli” (Id.: 92). Infine, Caputo (2016: 31-32), tenendo conto di Lo Piparo 2003, caratterizza l’opposizione natura/cultura nel linguaggio come partecipativa, ossia tale che la cultura è nella natura ma la natura non è nella cultura: “Anche la vocalità umana, in quanto articolabile (si pensi ancora una volta al canto), e la sua trascrizione in lettere rientra nel semiotico linguistico. Ciò non accade per la vocalità di quelle forme di vita dotate di polmoni e organi fonatori perché prive di capacità sintattica. Il cinguettio di un uccello, ad esempio, per quanto melodioso e piacevole, non è simile al cantare dell’uomo. L’uccello cinguetta perché reagisce a stimoli del suo corpo, per esigenze di comunicazione legate alla sua sopravvivenza, il suo canto è funzionale, geneticamente determinato, mentre quello dell’uomo è infunzionale, libero, è dépense (Bataille), lusso, spreco. Tutte le forme di comunicazione animale possono essere soltanto “prefigurazioni” di quelle umane. La scrittura dunque è tacita e sonorizzata, somatica e artefatta, vocale e non vocale, verbale e non verbale, alfabetica e non alfabetica”. La sophia aristotelica, in quanto vetta dell’umano e del logos, è altrettanto infunzionale che il canto: “Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore” (Metaph. I.2, 983a 10-11, trad. Reale).

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ciò infatti che, se esiste, esiste una cosa o, se avviene, prima o dopo avviene una cosa, questo è un segno dell’avvenire o dell’esistere (οὗ γὰρ ὄντος ἔστιν ἢ οὗ γενομένου πρότερον ἢ ὕστερον γέγονε τὸ πρᾶγμα, τοῦτο σημεῖόν ἐστι τοῦ γεγονέναι ἢ εἶναι, 70a 7-9, trad. ns.).

Aristotele considera il segno come una premessa o protasi a tutti gli effetti, dato che esso può essere assunto:

Il segno viene assunto in tre modi, tanti quanti sono quelli in cui il medio è assunto nelle figure, e cioè o come è assunto nella prima figura, o come è assunto in quella di mezzo, o come è assunto nella terza (λαμβάνεται δὲ τὸ σημεῖον τριχῶς, ὁσαχῶς καὶ τὸ μέσον ἐν τοῖς σχήμασιν· ἢ γὰρ ὡς ἐν τῷ πρώτῳ ἢ ὡς ἐν τῷ μέσῳ ἢ ὡς ἐν τῷ τρίτῳ, 70a 11-13, trad. Mignucci).

Il segno è, appunto, un enunciato in grado di diventare premessa sillogistica: “Qualora dunque venga espressa una sola protasi, risulta soltanto un segno, mentre, qualora venga aggiunta anche l’altra protasi risulta un sillogismo” (Ἐὰν μὲν οὖν ἡ μία λεχθῇ πρότασις, σημεῖον γίνεται μόνον, ἐὰν δὲ καὶ ἡ ἑτέρα προσληφθῇ, συλλογισμός, 70a 24-25, trad. Mignucci). L’italiano “protasi” è una resa interessante perché fa pensare anche al periodo ipotetico in cui il segno compare come enunciato in relazione con l’apodosi: “come per esempio nel caso in cui si voglia provare che Pittaco è liberale; infatti gli uomini desiderosi di onori sono liberali; ma Pittaco è desideroso di onori” (οἷον ὅτι Πιττακὸς ἐλευθέριος· οἱ γὰρ φιλότιμοι ἐλευθέριοι, Πιττακὸς δὲ φιλότιμος, 70a 26-27, trad. Mignucci). “Pittaco è liberale” è l’apodosi, mentre la protasi è “Pittaco è desideroso di onori”116 e tale

protasi è il segno. La premessa da aggiungere per ottenere il sillogismo è, quindi, “gli uomini desiderosi di onori sono liberali” e fa da premessa maggiore perché espone il fondamento del rinvio segnico; tale fondamento, qualora sia universalmente noto e condiviso, “non lo si dice perché lo si sa” (τὸ μὲν οὐ λέγουσι διὰ τὸ εἰδέναι, 70a 19-20, trad. Mignucci). Passando all’interpretazione della

natura del segno, non mancano interpreti che hanno inteso il βούλεται εἶναι πρότασις come una tendenza intrinseca del segno ad essere espresso da un enunciato117: il segno è una cosa che, come emerge dai passi sopra citati, può essere assunta (λαμβάνεται δὲ τὸ σημεῖον), ma per essere assunta deve essere o prendere la forma di un enunciato – il segno è un semeion che tende a diventare

symbolon. Si tratta, insomma, di una cosa che per sua natura vuole avere una certa espressione linguistica. Va, tuttavia, verificato se sia legittimo dire che i symbola sono segni zoofisiognomici

116 Leggendo in questi termini il passo, chi scrive converge con Manetti (1987: 119-123) e diverge da Mignucci (1969: 724).

117 Tricot (1983: 322) riporta con approvazione le seguenti parole del Bonitz, rinviando anche a Trendelenburg: “ita saepe per bouletai einai significatur quo quid per naturam suam tendit, sive assequitur quo tendit, sive non plene et perfecte assequitur”. In effetti, anche Trendelenburg (1868: 119) afferma, dopo aver riportato semeion de bouletai einai: “quae est signi natura”. Questi autori depongono a sfavore di una lettura che consideri il segno di An. Pr. II.27, 70a 11-13 (sopra riportato) come una mera metonimia per l’enunciato che lo esprime.

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delle affezioni dell’anima (cf. Lo Piparo 2003: 144), ossia se si diano symbola che a loro volta risultano essere semeia. Quest’ultima tesi sembra non poter reggere senza qualificazioni ulteriori. Le condizioni di validità per un sillogismo fisiognomico sono le seguenti118:

(i) si devono considerare tra le affezioni mentali ‘P’ solo quelle naturali, come ad es. il desiderio, le tendenze ecc. e supporre (ii) che esse comportino, corrispondentemente ad un’alterazione dell’anima, una modificazione del corpo (‘S’) tale che questa sia segno di quella. Inoltre bisogna ammettere che (iii) ad una caratteristica mentale corrisponda un segno ed uno solo, di modo che la relazione tra ‘S’ e ‘P’ sia biunivoca (Mignucci 1969: 725).

Se il punto (ii) è soddisfatto a priori nel caso dei symbola vocali119, il punto (i) sembra escludere i

pensieri formulati linguisticamente120 e il punto (iii) è contraddetto dal fenomeno abbastanza comune

dell’omonimia. I segnati dei symbola vocali “sono per tutti le medesime affezioni dell’anima e ciò di cui queste sono immagini sono cose che sono già esse stesse le medesime” (De int. 1, 16a 6-8, trad. Zadro). Come si vedrà in § 2.5, il contenuto del linguaggio sono tutte le cose, in quanto l’anima è in un certo senso tutte le cose di questo mondo e quelle che a partire da esso si possono immaginare121.

Il fatto è che i symbola vocali nel loro essere semeia dei pensieri, dal punto di vista fisiognomico, non possono andare oltre l’indicare la presenza di un’affezione tipicamente umana senza specificare quale a causa dei punti (i) e (iii). Insomma, cogliamo la presenza di una generica attività dell’immaginazione umana, che comunque accompagna ogni pensiero (cf. § 2.5), e sappiamo che l’interlocutore sta pensando qualcosa, ma non abbiamo idea di quale tra tutte. È solo facendo parte della comunità dei parlanti che possiamo capire che cosa l’altro sta pensando, sebbene il fatto che parli è segno che lo sta pensando.

Questo significa che, ad es., la parola “Gavagai” nell’esperimento mentale di Quine sulla traduzione ci segnala che l’indigeno significa qualcosa, ma non sappiamo cosa: cogliamo il segnato senza il significato122, ossia soltanto l’aspetto naturale del symbolon linguistico. Infatti, con l’indigeno siamo

118 Si omettono quelle contestate in Lo Piparo 2003: 142.

119 Cf. “E così i verbi detti per se stessi sono nomi e significano qualcosa; colui che li dice infatti vi arresta il processo del pensiero e si ferma colui che ascolta” (De int. 3, 16b 19-21, trad. Zadro).

120 Cf. “Infatti forse chi apprende la musica muta in qualcosa nell’anima, ma questa affezione non è una di quelle che abbiamo naturalmente” (μαθὼν γὰρ ἴσως μουσικὴν μεταβέβληκέ τι τὴν ψυχήν, ἀλλ' οὐ τῶν φύσει ἡμῖν ἐστὶ τοῦτο τὸ πάθος, An. Pr. II.27, 70b 9-10, trad. Mignucci). Per l’apprendimento del logos si vedano Mingucci 2015 e Lucchetta 2010b. L’apprendimento del logos, piuttosto che un mutamento, è la realizzazione della natura umana.

121 Comprese le famigerate “cose che non stanno né in cielo né in terra” prese in senso letterale come l’ircocervo, Pegaso (che moltissimi hanno visto volare nel cartone Disney Hercules), Anna Karenina, gli ornitorinchi parlanti, le idee verdi senza colore che dormono furiosamente, il fatto che Socrate sta seduto (se di lui ormai non resta nemmeno la polvere come fa a stare seduto? Eppure nel dipinto di Jacques-Louis David lo vediamo seduto, nonché bello pimpante) e il fatto che Charlie Chaplin e Adolf Hitler erano la stessa persona.

122 Più esattamente il segnato è il significato, ma ne cogliamo solo la presenza perché lo cogliamo in quanto segnato e non in quanto significato.

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identici per specie, ma il logos si è in noi sviluppato diversamente che in lui, tanto che, pur avendo le stesse affezioni psichiche, non sappiamo a quale esattamente “Gavagai” rimandi. Un caso ancora più radicale è quello del mistico ortodosso: egli ci canta “Terirem” e per l’affinità culturale – mancante nel caso dell’indigeno – capiamo che sta dando voce a un’esperienza spirituale, ma finché non ne parteciperemo non sapremo mai che cosa significa (non si tratta di una parola), non ne coglieremo mai il senso se non per speculum in ænigmate. Eppure, anche la serie di sillabe “Terirem” che rivela la Parola risponde allo schema individuato da Aristotele, poiché è detta da bocca di essere umano a orecchio di essere umano. “Terirem” è un segno zoo-fisiognomico allo stesso titolo dell’ipotetico “Gavagai”: quando li sentiamo pronunciare sappiamo che ci stanno dicendo qualcosa123. D’altra parte,

“Terirem”, pur non essendo una parola come “Gavagai”, non è una serie di sillabe totalmente priva di senso come βλιτυρι. Infine, gli stessi segni zoo-fisiognomici possono essere symbola diversi e ciò vale tanto per le parole quanto per gli enunciati: “prima” in italiano può essere un aggettivo al femminile o un avverbio, ma “prima” in tedesco assume gli stessi valori grammaticali con significati lessicali diversi dall’italiano; “I vitelli dei romani sono belli” è un segno zoo-fisiognomico il cui segnato è un pensiero complesso e che dà luogo a symbola grammaticalmente e semanticamente diversi in italiano e in latino. In entrambi i casi, il parlante italiano digiuno di tedesco e di latino crederà erroneamente di cogliere il significato oltre al segnato. Di conseguenza, è anche possibile ipotizzare che il nostro indigeno dica “Minchia!”, pur intendendo tutt’altro da quello che intenderemmo noi italiani e facendo comunque un’esclamazione.

In generale, tutto ciò vuol dire che ciascun essere umano sano vive parlando almeno una certa lingua e in almeno una certa cultura, ma che potenzialmente ed entro certi limiti fisiologici può parlare qualsiasi lingua e vivere in qualsiasi cultura: la stessa segnicità è alla base di molte simbolicità. Dobbiamo ora soffermarci sul punto (iii): la corrispondenza biunivoca tra segno e segnato nel sillogismo fisiognomico124. Si tratta di un caso di antistrephein o convertibilità125, fenomeno che abbiamo incontrato in qualità di sintomo della natura relazionale di qualcosa in Cat. 7 (cf. § 2.2.1); ne consegue che segno e segnato sono relativi simultanei126. Del resto, per definizione segno e segnato non esistono l’uno senza l’altro (cf. An. Pr. II.27, 70a 7-9, già riportato). Giungiamo così al riconoscimento della relazionalità del segno anche la sua forma specifica in quanto contrapposta ai relativi non simultanei, ossia scienza-scibile e sensazione-sensibile: il segno e segnato – anche nel

123 Altrettanto non si può dire di tutti i casi di segni scritti, tanto che Lo Piparo limita le proprie considerazioni fisiognomiche ai symbola vocali.

124 Questo aspetto è correttamente riconosciuto anche da Lo Piparo (2003: 144).

125 Cf. Tricot (1983: 329): “Il y a réciprocation de la majeure, étant donné que nous avons posé en principe la corrélation de tel état de l’âme avec tel signe corporel : s’il n’y avait pas réciprocation rigoureuse, cette corrélation disparaîtrait”. 126 Cf. Trendelenburg (1868: 120): “in his [gli esempi di segni e segnati dati in Rhet. I.2] enim signum et res, cuius est signum, simul sunt”.

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caso di accadimenti in cui uno precede o segue l’altro – non sono tali se manca uno dei due, mentre scibile e sensibile resterebbero tali anche senza conoscenti e senzienti (senza ciò a cui conoscenza e sensazione ineriscono). Ecco stabilite tanto l’intrinseca linguisticità del segno naturale, la tendenza ad essere assunto come premessa secondo le figure del sillogismo (cf. An. Pr. II.27, 70a 6-7 e 11-13 già riportati), quanto la sua relazionalità.

Bellucci (2018b: 425) ha mostrato che negli Analitici Secondi “both kinds of sign-arguments are non- causal, in the sense that they start from what is more familiar and more evident to us (the effect, the sign), and infer from it its cause; but while the former (I.6) is deductively valid (tekmērion), the latter (II.17) is not (sēmeion)”127. I segni non compaiono nelle dimostrazioni scientifiche perché esse in

senso stretto inferiscono gli effetti dalla causa, ma ciò non toglie che i tekmeria possono portare alla determinazione di cause e rivela che i segni sono effetti (cf. Rapp 2002: 199). Zanatta (2002: 389) fa giustamente notare che “gli enunciati che esprimono il segno debbono essere affermativi”128. Si vedrà,

infatti, che i segni validi compaiono in Darii e, del resto, tanto gli esempi della Retorica quanto quelli degli Analitici Primi presentano soltanto fatti positivi in conformità con la definizione di segno in termini di essere e di accadimento (cf. An. Pr. II.27, 70a 7-9, già citato). Tutto ciò conferma la linguisticità129 e la cosalità dei segni, nonché il loro ruolo epistemologico.

Di conseguenza, la teoria del segno e la teoria del linguaggio, a differenza di quanto sostenuto da Eco (1984: 22-26) e, più convintamente, da Manetti (1987: 105-118), sono strettamente intrecciate l’una con l’altra in Aristotele, così come i relativi sono il punto d’intersezione tra teoria delle categorie e teoria degli opposti. Si è visto, infatti, che i relativi sono al tempo stesso sia una categoria sia un tipo di opposti: abbiamo sostenuto che nelle Categorie, a differenza di sostanza, quantità e qualità, i relativi mancano di una caratteristica peculiare (cf. § 2.2.1), che abbiamo ravvisato, basandoci sulla

Metafisica, nell’essere i relativi un tipo di opposti, l’unico che è anche una categoria (cf. § 2.2.2).

Insomma, tanto per segno e linguaggio quanto per categorie e opposti, i testi aristotelici mostrano

una coesione discorsiva e non teorie irrelate. Inoltre, all’interno dell’intersezione tra categorie e

opposti, ossia fra i relativi, si collocano symbola, semeia e, come vedremo in § 2.5, pathemata: simboli, segni e affezioni sono relativi concatenati nel percorso che va dallo scritto alle cose mediante le voci e le affezioni.

L’interpretazione del symbolon in termini naturalistici avanzata da Lo Piparo ha come suo limite quello di non cogliere tale nesso sistemico tra teoria del linguaggio e teoria dei relativi. D’altra parte,

127 Bellucci 2018b segnala i limiti di Allen 2001 in merito.

128 Manetti (2013: 28-31) documenta una differenza tra segno medico e segno aristotelico, infatti il primo può seguire tanto lo schema del modus tollens quanto quello del modus ponens. Ciò significa che nella tradizione medica greca il segno può essere espresso anche da un enunciato negativo risultando, quindi, un fatto negativo.

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egli ha contribuito in maniera decisiva a mettere in discussione tanto l’interpretazione tradizionale del rapporto symbola-semeia quanto quella avanzata da Eco e Manetti. Questi ultimi, infatti, sostengono che i due termini appartengono a due lessici teorici distinti e irrelati, rispettivamente quello della teoria del linguaggio e quello della teoria dei segni. Ciò è, sulla base dei testi, impossibile: i symbola linguistici sono semeia delle affezioni dell’anima e ciò li distingue dai symbola scritti (cf. § 2.4.1), inoltre i semeia sono per natura disposti ad essere assunti come premesse secondo le figure del sillogismo. Se Lo Piparo, come si è detto, tralascia il nesso fra teoria del linguaggio e teoria dei relativi in Aristotele, Eco e Manetti trascurano programmaticamente quello fra teoria del linguaggio e teoria dei segni. La presente metasemiotica interpretativa ha, quindi, il compito di mettere in evidenza la “triplice intesa” fra le summenzionate teorie nei testi aristotelici.