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La semantica degli enunciati alla luce della lettura relazionale

2.3 De interpretatione 1

2.3.2 La semantica degli enunciati alla luce della lettura relazionale

Abbiamo visto che a nomi e verbi corrispondono pensieri semplici, ma resta da vedere che cosa corrisponda agli enunciati. Se nomi e verbi somigliano a pensieri semplici e una volta combinati danno luogo a un enunciato, l’enunciato non potrà che somigliare a un pensiero complesso: infatti, altrimenti non vi sarebbe somiglianza tra parlare e pensare. Di conseguenza, concludiamo la presente sezione con delle considerazioni sulla semantica degli enunciati. Che essi significano delle opinioni o giudizi è confermato dalla seguente argomentazione94:

Se infatti ciò che è nella voce consegue a ciò che è nel pensiero, e nel pensiero è contraria l’opinione del contrario: per esempio, che ogni uomo è giusto è contrario all’opinione che ogni

uomo è ingiusto anche nel caso delle affermazioni che sono nella voce è necessario che le cose

stiano in modo uguale (εἰ γὰρ τὰ μὲν ἐν τῇ φωνῇ ἀκολουθεῖ τοῖς ἐν τῇ διανοίᾳ, ἐκεῖ δ’ ἐναντία δόξα ἡ τοῦ ἐναντίου, οἷον ὅτι πᾶς ἄνθρωπος δίκαιος τῇ πᾶς ἄνθρωπος ἄδικος, καὶ ἐπὶ τῶν ἐν τῇ φωνῇ καταφάσεων ἀνάγκη ὁμοίως ἔχειν, De int. 14, 23a 32-35, trad. Zanatta)95.

93 La lingua dei segni è molto più vicina alla lingua parlata perché è parlata con il corpo, per giunta fa uso di quello che per Aristotele è lo strumento degli strumenti (la mano, l’analogo dell’intelletto). L’uomo, teleologicamente, ha la mano perché ha l’intelletto e ha la bocca configurata in un certo modo perché ha il linguaggio; infatti, “perché” qui significa “in vista di”. L’evoluzionismo può dire poco contro questa posizione aristotelica: la comparsa dell’essere umano sulla terra ha portato uno sconvolgimento, ossia per la prima volta nella storia naturale sono nati degli esseri dotati di mani e favella perché i loro genitori sono dotati di intelletto e di parola (l’essere umano genera l’essere umano). La comparsa di una specie capovolge l’ordine causale. Se il linguaggio e il pensiero vengono da quello che gli ominidi hanno fatto con la bocca e con il pollice opponibile, sono poi il pensiero e il linguaggio come codificati nel DNA e nell’epigenesi (cf. § 5.4) a spiegare perché noi abbiamo una bocca che ci consente di parlare e una mano che ci consente di costruire di tutto. L’effetto di una causalità efficiente complessa si trasforma in causa finale quando dei tratti, che prima non lo erano, divengono causa formale. Molto di tutto ciò in Aristotele non c’è, ma lo si può dire utilizzando nozioni aristoteliche. Quello che c’è in Aristotele è stato ben colto da Mingucci (2015: 196-197) e riguarda la posizione eretta intesa come caso emblematico di quanto detto finora: “Il migliore esempio di come il νοῦς determini teleologicamente le caratteristiche biologiche, anatomiche e funzionali dell’essere umano è costituito dal possesso, da parte dell’uomo soltanto, della statura eretta. Secondo Aristotele infatti la posizione eretta consente all’uomo di esercitare al meglio il suo proprio ἔργον, il pensare”.

94 Un’altra conferma può venire da Metaph. IV.3, dove Aristotele sostiene che è impossibile avere opinioni contrarie. Da tale capitolo Łukasiewicz ha tratto la formulazione psicologica del principio di non contraddizione (cf. Raspa 1999: 54- 55, 107-114). Si osserva nella discussione intorno a tale principio il coinvolgimento degli elementi che entrano nella linea aristotelica: parole ed enunciati, pensieri e opinioni, cose. Raspa (1999: 55) non ritiene vi siano tre principi, come la distinzione tra formulazione ontologica, logica e psicologica del principio di non contraddizione potrebbe suggerire, ma concede che “bisogna riconoscere a ciascuna delle tre proposizioni sopra citate, paradigmatiche di altre che pur ricorrono nei testi aristotelici […], un diverso contenuto informativo”. Saremmo tentati di dire che tali formulazioni siano corollari di quella principale: “È infatti impossibile che lo stesso <attributo> appartenga e non appartenga allo stesso <soggetto> nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto” (τὸ γὰρ αὐτὸ ἅμα ὑπάρχειν τε καὶ μὴ ὑπάρχειν ἀδύνατον τῷ αὐτῷ καὶ κατὰ τὸ αὐτό, Metaph. IV.3, 1005b 19-20, trad. Berti).

95 Cf. Sedley (1996: 95): “The correspondence between the ideas with which the treatise opens [cf. De int. 1] and those with which it closes [cf. De int. 14] is so pronounced that it would be difficult to consider it accidental or casual. It follows

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Infatti, in Cat. 5 il logos e la doxa divengono veri o falsi al mutare della sostanza sui cui vertono esibendo il cosiddetto Cambridge change96: essendo relativi alla sostanza cambiano di qualità (da veri

a falsi o da falsi a veri) perché è la cosa a cui sono relativi a cambiare. Comune a Cat. 5, Poet. 20 e

De int. 4 è considerare il logos una lexis, ossia un’espressione linguistica piuttosto che una nozione o

una proporzione/rapporto; conseguentemente, in senso stretto il logos cambia valore di verità in virtù della doxa che esprime – parlando propriamente, è la doxa a essere vera o falsa97. La doxa è un giudizio in quanto giunzione di pensieri semplici in un pensiero complesso. Si pensi al verbo “essere” che “significa in più una certa congiunzione, che senza ciò che è composto non è possibile pensare” (προσσημαίνει δὲ σύνθεσίν τινα, ἣν ἄνευ τῶν συγκειμένων οὐκ ἔστι νοῆσαι, De int. 3, 16b 24-25, trad. Zanatta). La giunzione di pensieri cambia di qualità (da vera a falsa o da falsa a vera) a seconda del mutamento che interessa la cosa pensata e tale mutamento coinvolge l’enunciato, che si trova al capo opposto del concatenamento di relazioni che va dalle cose alle parole.

Ma se è vero, come sostiene Giulio Lucchetta (2010a: 216-217), che da una prospettiva aristotelica l’uso della parola a fini soggettivi ed emotivi è improprio e significa dei contenuti esprimibili in maniera non linguistica (piacere, dolore, paura, rabbia, gioia ecc.) assimilabili a quelli che gli animali esprimono appunto altrimenti che con la parola, allora non bisogna fermarsi qui e conviene leggere il seguente rinvio del capitolo 19 della Poetica alla Retorica:

Riguardo alle altre forme si è detto, per cui resta da parlare dell’espressione e del pensiero. Le questioni concernenti il pensiero restino nelle opere sulla retorica, perché questa trattazione è pertinente a quella indagine (1456a 33-36, trad. Barabino).

Ma di che cosa parla il discorso retorico? Che cosa significa? Che cosa pensa la dianoia?

Ciascuno di questi generi ha un fine differente ed essendo essi tre, tre sono i fini: per chi consiglia, l’utile e il dannoso e infatti chi esorta lo fa come se consigliasse per il meglio, mentre chi sconsiglia come se dissuadesse dal peggio e a questo fine aggiunge come accessorie tutte le altre considerazioni, o il giusto o l’ingiusto, o il bello o il brutto; per coloro che agiscono in giudizio, il giusto e l’ingiusto e anche costoro aggiungono a questi come accessorie le altre considerazioni;

that this relation between thoughts and words was conceived right from the start, in the tradition of Plato’s Sophist, not merely as a relation between isolated concepts and isolated words, but also as one between beliefs and the corresponding assertions”.

96 Si ha Cambridge change quando il cambiamento di una cosa determina il cambiamento di un’altra senza che questa seconda cosa sia effettivamente cambiata. Temperando una matita posso rendere un’altra matita più lunga di quella che ho temperato senza che a questa seconda matita sia accaduto alcunché.

97 “Infatti il vero e il falso non sono nelle cose, come se per esempio il bene fosse vero e il male fosse direttamente falso, ma sono nel pensiero razionale, mentre per quanto riguarda le realtà semplici e i «che cos’è», essi non sono nemmeno nel pensiero razionale” (Metaph. VI.4, 1027b 25-28). Il pensiero razionale è la dianoia.

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per coloro che lodano e biasimano, il bello e il brutto e costoro riconducono a questi anche il resto (Rhet. I.3, 1358b 20-29, trad. Gastaldi).

Non è un caso che nella Politica (I.2 1253a 7-30) vengano elencati esplicitamente o implicitamente tutti i principali contenuti del discorso retorico appena riportati con la notevole aggiunta della menzione esplicita del bene e del male; ciò avviene in contrapposizione alla vita animale limitata alla sensazione e all’espressione di piacere e dolore98. Con tutto ciò non si vuole restringere il contenuto

del linguaggio a quanto appena emerso, ma solo mettere in evidenza questa rete di richiami che è di per sé indicativa della concezione greca del linguaggio; tuttavia, è con la lettura dei Topici che emergerà come contenuto del pensiero della comunità, anzitutto greca, l’intero kosmos e come dialettica la domanda su di esso (cf. § 2.6).

Resta ancora qualcosa da aggiungere alla considerazione dell’enunciato:

Le discours est devenu la grande affaire du XXe siècle dans les sciences du langage. Chacun le dit. C’est un nouveau paradigme. Le plus étonnant est que ses lettres de noblesse sont souvent les mêmes que celles du paradigme jusqu’alors dominant. On peut lire Aristote selon une certaine tradition anglo-saxonne (J.S. Mill, B. Russell ou R. Carnap [sic !]) et voir en lui « le premier penseur à proposer une théorie systématique de la signification et de la référence », entendons par là une théorie du mot associé à un concept qui sélectionne les objets du monde. Mais on peut aussi voir en lui comme j’ai essayé de le montrer un précurseur de la linguistique de l’énonciation. Il en est de même avec Saussure. […] Le choix est ouvert. Le paradigme traditionnel correspond à une option formaliste (relation σύν) ; le paradigme du discours (plus spécifiquement des instances énonçantes) qui s’oppose à lui mais aussi qui le fonde relève de la double relation πρόs (σύν). Il est encore aujourd’hui mal connu. C’est sur lui qu’il faudrait, il me semble, faire porter en priorité nos recherches (Coquet 1995: 6).

La relazione πρόs (σύν) altro non è che il verbo come esprimente e operante appartenenza e connessione. I pensieri vengono congiunti e al tempo stesso si asserisce l’appartenenza di qualcosa a qualcos’altro. Come nota Coquet (1995: 3), si giunge alla verbalità del verbo quando la congiunzione di pensieri viene asserita, ossia quando parole e pensieri si agganciano alle cose. Non a caso, vedremo che in Aristotele l’opinione, a differenza dell’immaginazione linguistica, prende per vero l’oggetto dell’asserzione (cf. § 2.5.2). Tuttavia, se la tradizione logicista si arresta alla connessione (σύν, la funzione proposizionale), la linguistica del Novecento non esaurisce la profondità semantica del verbo aristotelico demandando la temporalità all’enunciato o alla frase e dismettendo la profonda

98 L’importanza di tale passo della Politica è stata magistralmente evidenziata da Lo Piparo (2003: 28-33), ma senza fare tesoro della Poetica e della Retorica nel leggerlo.

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comunanza fra verbo, essere e tempo (cf. Marconi 2016b, 2019a). Infatti, nella doppia relazione πρόs (σύν) di cui parla Coquet manca del tutto il tempo: ci si limita ad appartenenza e connessione. Inoltre, l’analisi morfematica dell’enunciato in Hjelmslev porta a sostenere che è la frase a essere, ad es., al presente e che la comparsa di elementi dell’espressione corrispondenti ai morfemi di tempo all’interno dell’espressione verbale è un fatto contingente dal punto di vista grammaticale, mentre gli sviluppi dell’analisi sintattica chomskiana portano a registrare gli elementi della flessione verbale (tempo incluso) come superordinati ed estranei ai sintagmi verbali nella struttura profonda della frase99. Invece, ecco come si articola internamente, in quanto operatore enunciativo, “la natura del

verbo: un nome che ‘in aggiunta’ a un significato (p. es. la salute, la corsa…) indica χρόνον, ὑπάρχειν, σύνθεσιν: temporalità, appartenenza, connessione” (Morpurgo-Tagliabue 1967: 63). Il verbo è, tolta la sua costituente lessicale o nominale, un’indicazione del tempo, indicazione che esprime l’inerenza

di un attributo mediante la sintesi operata tra gli elementi nominali dell’enunciato. Il verbo “essere”

è il verbo nella sua purezza, visto che in sé significa solo ciò che gli altri verbi significano “in aggiunta” (cf. Marconi 2019a): temporalità, appartenenza, connessione. Per una grammatica scientifica che voglia essere generale o, addirittura, universale, è comprensibile ricusare la compresenza di verbalità e temporalità che caratterizza il verbo “essere” in Aristotele. Tuttavia, non ci pare giovevole accantonare il senso di tale compresenza: ciò che è, ossia ciò che consideriamo reale e al quale vogliamo attribuire proprietà e relazioni, è per noi intrinsecamente temporale. Se qualcosa esiste ed è essenzialmente o in virtù dell’essenza dotato di determinate proprietà e relazioni, allora è vero in ogni tempo dirlo. Ciò vale a prescindere dal fatto che tale entità sia nel tempo o lo trascenda100.

Ciò di cui parliamo è ipso facto temporalizzato dal parlarne e per parlarne. Se usiamo verbi, non possiamo che tenere in qualche modo assieme attribuzione d’esistenza, verbalità e temporalità: ciò che esiste per noi esiste nel tempo e, nella misura in cui vogliamo dirlo, temporalità e verbalità non si presentano mai l’una senza l’altra. Infatti, come insegna Aristotele, senza verbalità non vi è enunciazione (cf. De int. 5, 17a 9-12). Può, insomma, essere corretto in sede d’analisi linguistica trasferire la temporalità dall’elemento verbale dell’enunciato alla frase, ma ciò non giustifica la scissione tra temporalità e verbalità, che si presuppongono a vicenda. L’ingresso di qualcosa nella temporalità è l’ingresso attraverso il verbo nel dicibile e in ciò che per noi è reale.

99 Per ulteriori approfondimenti sugli aspetti strettamente linguistici e semiologici si vedano Graffi 1985, Manetti 2008 e Migliore 2017.

100 Cf. Marconi (2019a: 139): “Che il presente delle essenze e degli dei non trascorre significa che esso è simultaneo ad ogni istante nell’ordine temporale; ciò rende l’efficacia causale delle essenze e degli dei non accidentale, ossia in grado di mantenere costante l’ordine delle cose”. L’eterno in Aristotele, pur trascendendo il tempo, si configura come eterno presente. Ecco perché parlare di predicazione semplice in opposizione alla predicazione secondo il tempo ammonta a parlare dell’istante presente (cf. De int. 1, 16a 18), di cui il presente in senso ampio (cf. Marconi 2019a), il passato e il futuro sono flessioni così come i verbi non al presente sono flessioni di verbo (cf. De int. 3).

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