Il co-branding: un approccio strategico per creare valore
4.3 I benefici e i rischi derivanti dagli accordi di co-branding nell’ottica d’impresa
4.3.2 I potenziali rischi per l’impresa
Oltre ai numerosi benefici, l’attuazione di una strategia di co-branding può comportare una serie di riflessi negativi e di rischi per le imprese coinvolte, per i consumatori e anche per la società. La maggior parte di questi, però, si riflettono sull’impresa e, in particolare, sulla strategia di marketing e sulle diverse politiche di brand management attuate dalle aziende implicate.
Adottando il medesimo schema di analisi, utilizzato per individuare i benefici con riferimento alle strategie di marketing d’impresa, è possibile delineare una serie di rischi connessi all’attuazione di una strategia di co-branding avente per obiettivo la difesa della posizione competitiva, piuttosto che una strategia di crescita. Nel primo caso il principale rischio deriva da eventuali comportamenti
opportunistici da parte della seconda marca che, nel lungo periodo, potrebbe decidere di utilizzare
il vantaggio ottenuto dalla collaborazione per trasformarsi da alleato a concorrente. Il verificarsi di tale situazione potrebbe comportare un’erosione della quota di mercato detenuta dall’impresa ospitante94.
Sempre con riferimento alle strategie di difesa, un ulteriore rischio a cui sono soggette le imprese, specialmente se perseguono obiettivi di lungo periodo, è legato alla percezione del consumatore, il quale potrebbe identificare l’offerta come “un unico prodotto, oppure uno dei due
prodotti oscura l’immagine dell’altro” (Iasevoli, 2004, 100). Questa tipologia di rischio è identificata
in letteratura come “effetto alone di un partner sull’altro”. In tale circostanza, il consumatore potrebbe non riconoscere l’offerta come una novità o in alternativa percepirla come singola (Helmig, Huber, e Leeflang 2008).
Oltre alla possibilità che il consumatore confonda l’offerta co-branded, un rischio diffuso nelle strategie che perseguono il mantenimento della posizione competitiva riguarda la difficoltà di riposizionare il marchio o il prodotto, nel periodo successivo alla conclusione dell’iniziativa.
94 Numerosi studi in tema di alleanze si sono concentrati sull’analisi dei fattori che spingono a comportamenti di tipo
opportunistico (Holmstrom, 1979; Gulati e Singh, 1998; Kent, 1991). Le forme di opportunismo che suscitano maggiore interesse in letteratura sono: l’Adverse Selection; l’Holdup; il Moral Hazard.
Uno di questi studi in particolare, condotto da Buklin e Sengupta (1993), affronta la problematica di potenziale “opportunismo”; il quale, come dimostrano gli autori è strettamente correlato ad uno squilibrio di potere tra i partner: “maggiore è tale squilibrio maggiori saranno le probabilità di azioni opportuniste da parte dei partner con maggior
potere”; uno dei partner, infatti, potrebbe acquisire attraverso l’alleanza una serie di vantaggi che non sono
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Soprattutto quando essa ottiene successo nel mercato e tra le marche si è creata un’efficace armonia d’immagine e associazioni positive, i partners potrebbero incontrare notevoli difficoltà nel riproporre l’offerta al mercato singolarmente. Al termine dell’alleanza, infatti, si possono delineare due principali situazioni di rischio (Checchinato 2007):
1. le imprese coinvolte non riescono singolarmente a mantenere un’offerta simile a quella proposta in collaborazione;
2. le imprese implicate propongono ai consumatori un’offerta mono brand che presenta caratteristiche simili tra loro.
È chiaro che, nella prima ipotesi, si verrebbe a creare uno spazio vuoto nel mercato, aggredibile da una terza organizzazione che potrebbe soddisfare la domanda latente venutasi a creare in seguito all’eliminazione dell’offerta congiunta. Nella seconda ipotesi, probabilmente la peggiore delle due, si scatenerebbe una guerra tra le marche implicate, che quasi sicuramente porterebbe a battaglie di prezzo o addirittura all’utilizzo di pratiche eticamente scorrette.
Con riferimento all’adozione di una strategia di crescita, invece, uno dei principali rischi in cui possono incorrere le imprese coinvolte in un accordo di co-branding è l’eccessiva espansione della
marca o over extension (Blackett e Boad, 1999), che può determinare un calo di notorietà del
marchio originario; siffatta situazione può verificarsi nel momento in cui un’impresa decide di sfruttare il potenziale della marca per operare in altri contesti competitivi.
Come sottolineato da Keller e Aaker (1992), se l’impresa attua un’errata strategia di estensione della marca, le relazioni esistenti tra i clienti e l’impresa, subirebbero un sostanziale deterioramento, derivante dalla perdita di credibilità del brand nel soddisfare bisogni diversi da quelli collegati al suo core business.
Per quanto concerne i rischi associati all’attuazione di una strategia di co-branding con riferimento alla marca, la letteratura affronta il tema (Iasevoli 2004; Bertoli e Busacca 2003, McCharty e Norris 1999; Simonin e Ruth 1998), focalizzando l’analisi sui potenziali riflessi derivanti dalle nuove associazioni, sui singoli brand coinvolti. In linea generale, gli studi sul fenomeno hanno dimostrato che il trasferimento di valori e associazioni può estendersi al di fuori dei confini dell’iniziativa e implicare anche l’immagine dei singoli brand. In particolare, è possibile delineare due situazioni tra loro simili, che generano però effetti diversi sul patrimonio di marca:
1. le associazioni “depauperano” l’immagine della marca principale (Bertoli e Busacca 2003, 14), con conseguenze circoscritte alla sola offerta co-branded;
2. le associazioni “depauperano” l’immagine della marca principale con conseguenze sulla credibilità dell’impresa.
Nel primo caso, le valenze distintive della marca invitata generano associazioni negative nella formazione delle percezioni dei consumatori sulla qualità dell’offerta. La situazione potrebbe comportare il fallimento della strategia di co-branding, senza però cagionare un grave danno alle
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singole marche, poiché non si avrebbero effetti di retroazione sui prodotti singolarmente commercializzati dalle medesime. Nel secondo caso, diversamente, il trasferimento di associazioni negative si estende non solo all’offerta co-branded, ma all’intera marca compromettendone l’immagine e l’identità.
La distruzione delle risorse di fiducia, possedute dalla marca nell’ambito del business di appartenenza, genera un impatto negativo sulla sua immagine che, a sua volta, si riflette sulle relazioni con la clientela, deteriorandone il rapporto (Rao e Ruekert, 1994). Si pensi, ad esempio, alla collaborazione tra Lego e Shell, interrotta nel 2011 dopo un decennio per volere della prima marca, a seguito degli attacchi ricevuti dai suoi fan più fedeli e da Greenpeace, al fine di salvaguardare l’ambiente nell’ Artico. Ciò evidenzia come le associazioni negative trasferite da Shell a Lego, che figurava nella mente dei consumatori come “co-artefice del disastro ambientale nell’Artico”, stavano erodendo la credibilità e le risorse di fiducia della marca.
Da quanto esposto emerge l’importanza della scelta del partner con cui allearsi; le marche, infatti, devono godere di una solida reputazione e beneficiare entrambe della collaborazione per minimizzare questa tipologia di rischi. Inoltre, in letteratura numerosi studi hanno evidenziato che le alleanze di marca possono causare una diluzione della brand equity, soprattutto nei casi in cui le due marche non abbiano la stessa forza95. In alcuni casi, difatti, la scelta di allearsi con un partner che possiede un equity modesta può generare riflessi negativi sulla brand immage della marca più forte.
Un ulteriore rischio, che può generare riflessi negativi sull’immagine della marca, riguarda il possibile riposizionamento del partner. Nel caso in cui una delle marche coinvolte nell’iniziativa attuasse una manovra strategica di riposizionamento del brand, durante il ciclo di vita dell’alleanza, diviene fondamentale per i partners implicati valutare l’eventuale perdita di compatibilità tra i brands.
Ultimo rischio, che potrebbe generare riflessi negativi sia sulla strategia di marketing, che più specificatamente sulla marca, è relativo alla perdita di controllo nella gestione del brand (Desai e Keller 2002) che, comporterebbe la mancanza di autonomia decisionale in merito agi elementi di valore e alle politiche di attuazione ad essa relativi. In alcuni casi, la perdita di controllo può riguardare anche l’utilizzo del marchio da parte di terzi; se l’impresa partner utilizzasse erroneamente le componenti costitutive della marca (logo, packaging, claim, colori, ecc,.), ad esempio nella creatività di una campagna comunicazionale, potrebbe causare danni gravi alla sua immagine. Spesso, come vedremo nel prosieguo del lavoro, questa tipologia di rischio può essere evitato a priori, rendendo obbligatorio il consenso da parte dei responsabili di progetto di entrambe le marche, su ogni singolo elemento dell’iniziativa.
I rischi relativi all’assortimento sono solitamente connessi alle strategie di co-branding che prevedono lo sviluppo congiunto di nuovi prodotti o la modifica di quelli esistenti. Uno dei principali
95 Sul tema della diluzione del valore della brand equity si vedano, tra gli altri: Ro, Qu e Ruekert (1999); Farquhar et al
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pericoli, in cui possono incorrere le imprese è la “cannibalizzazione dei prodotti esistenti” (Checchinato 2007, Blackett e Boad 1999). Sebbene siffatta situazione di rischio si può manifestare anche nel caso di una strategia di brand exstension realizzata dalla singola marca, nel co-branding acquisisce una connotazione ancor più pericolosa, a causa della mancanza di un totale controllo dell’impresa. È necessario, perciò, che il management aziendale sia consapevole del suddetto pericolo e utilizzi uno schema di analisi o indicatori specifici per scongiurare il manifestarsi di questa situazione96.
Nella fase conclusiva dell’alleanza, il rischio più concreto per le imprese si potrebbe verificare con riferimento all’eliminazione del prodotto co-branded dall’assortimento (Iasevoli 2003). La scelta del momento più opportuno, in cui estinguere il ciclo di vita di un prodotto, non è semplice, soprattutto quando la decisione deve essere presa in sinergia con altre imprese; terminare il ciclo di vita del prodotto, quando questo si trova nella fase di maturità, potrebbe comportare minori profitti per le imprese coinvolte, derivanti dall’erosione del potenziale delle vendite; allo stesso modo, eliminare il prodotto dal mercato, quando ormai è in uno stadio di declino avanzato, potrebbe non essere la soluzione migliore.
In linea di massima, il rischio connesso alla fase conclusiva della collaborazione è più elevato nei casi in cui le imprese non avessero debitamente comunicato al pubblico di riferimento la durata dell’iniziativa, sia essa temporanea o di medio-lungo termine. Si pensi, ad esempio, alla realizzazione di edizioni speciali, in cui l’acquisto del prodotto è limitato al pubblico per un determinato periodo di tempo o di unità (solitamente un trimestre); se le imprese non comunicassero con attenzione ai consumatori l’eccezionalità e la temporaneità dell’offerta, rispetto a quella già presente nell’assortimento, potrebbero sorgere sensazioni emotive contrastanti nei confronti della marca. Una dimostrazione emblematica a riguardo è il prodotto limited edition Motorola Liquid Gold (RAZR V3), realizzato in collaborazione con Dolce e Gabbana nel 2005, lanciato nel mercato nello stesso anno, con disponibilità di sole mille unità. I consumatori più fedeli, terminata l’offerta, manifestarono disaccordo nella mancata possibilità di acquisto del prodotto e tempestarono il servizio di front office dell’impresa Motorola di complaint. Per recuperare all’inconveniente l’azienda dovette riprodurre il modello.
Come già accennato, tutte le strategie di co-branding, indipendentemente dall’intensità relazionale e la tipologia di accordo che le contraddistinguono, prevedono la realizzazione di attività comuni relative alla leva comunicazionale. La creazione di una campagna di comunicazione congiunta richiede: lo sviluppo di una serie di fasi; la definizione del messaggio che si vuole trasmettere al pubblico; la scelta della creatività per ogni singola attività; altresì i mezzi da utilizzare
96 La cannibalizzazione è il fenomeno per cui un nuovo prodotto lanciato sul mercato sottrae vendite a un prodotto
sostitutivo già presente nel portafoglio della stessa azienda. In linea generale, Il management aziendale prima del lancio del nuovo prodotto dovrebbe: valutare il potenziale di cannibalizzazione; stimare gli effetti economico-finanziari derivanti dalla cannibalizzazione; valutare le possibili contro misure da adottare per neutralizzare la cannibalizzazione (valore incrementale per superare l’effetto). Ovviamente tale effetto non si prospetta allorché il prodotto co-firmato differisce dai prodotti singolarmente commercializzati dalle marche partners.
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per veicolare la campagna. In genere, oltre alle due o più marche coinvolte nell’iniziativa, la definizione e lo sviluppo degli elementi sopra indicati viene realizzata con il supporto di una terza parte, solitamente un’agenzia di comunicazione con esperienza pregressa nella gestione di alleanze.
Con riferimento alla comunicazione congiunta, uno dei rischi più plausibili riguarda la difficoltà di comprensione del messaggio da parte del consumatore o, comunque, una dicotomia tra le informazioni percepite dal pubblico rispetto al messaggio originale (Grossman, 1997). A volte difatti, la relazione tra le due marche non risulta chiara agli occhi del consumatore, il quale potrebbe confondere o interpretare erroneamente il contenuto del messaggio. La comunicazione congiunta, dunque, dovrebbe rispettare il criterio di: semplicità, chiarezza e intuitività; tale criterio è indispensabile per creare coerenza fra il messaggio voluto dalle imprese e quello percepito dal target audience.
L’obiettivo di una campagna in comunicazione congiunta dovrebbe essere quello di enfatizzare la connotazione distintiva dell’iniziativa, rispetto alle attività realizzate dalle singole imprese nei rispettivi business di appartenenza, mantenendo però una coerenza con lo stile e il tono di comunicazione che caratterizza le singole marche implicate.
Con riferimento a quanto appena espresso, uno dei pericoli, legati alla strategia di tipo comunication based, riguarda la coerenza tra le comunicazioni mono brand e co-branded. Il manifestarsi di questo rischio è tanto maggiore quanto più i valori, le associazioni e l’immagine delle marche partners sono dissimili tra loro. Si pensi ad esempio al caso in cui venisse realizzata una comunicazione congiunta tra una marca del settore turistico e una marca di prodotti all’avanguardia tecnologica. Essendo due settori distanti tra loro, i mezzi e i contenuti del messaggio potrebbero non essere idonei o coerenti con gli elementi distintivi di uno dei brand coinvolti (come una comunicazione mirata su riviste specializzate del settore tecnologico): ciò renderebbe inefficace l’iniziativa.
Ulteriori rischi potrebbero interessare le marche nelle diverse fasi di sviluppo della campagna di comunicazione. Tale tipologia di rischi, che possiamo indicare con il termine “operativi”, è numerosa; si pensi ad esempio alla scelta dell’agenzia che curerà il processo di sviluppo della campagna; se la parte terza dell’operazione non avesse maturato esperienze pregresse con una delle marche coinvolte, potrebbe incontrare difficoltà nel comprendere i core values e le strategie di comunicazione.
Sempre con riferimento al processo operativo, un ulteriore rischio, che potrebbe compromettere la riuscita dell’intera iniziativa, è relativo alla mancanza di coordinamento e comunicazione tra gli addetti ai lavori delle aziende coinvolte. La comunicazione continua tra il management delle due marche e il coordinamento delle diverse funzioni, che collaborano per la realizzazione dell’iniziativa, facilita notevolmente il suo successo e riduce il verificarsi delle situazioni di rischio esaminate.
Ultima situazione di rischio meritevole di approfondimento, riguarda l’obiettivo della strategia di comunicazione congiunta. Se il co-branding è adottato alle imprese solo ai fini di una riduzione
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dei costi o degli investimenti in comunicazione, il rischio di realizzare una campagna inefficace o addirittura dannosa per le marche coinvolte è elevato; questa situazione potrebbe accadere nel momento in cui il management aziendale, di una o entrambe le marche, si focalizzasse esclusivamente sul risultato economico, senza valutare attentamente il beneficio dell’iniziativa per il consumatore. Una mancanza di equilibrio tra gli obiettivi di natura prettamente economico- finanziaria e quelli relativi alla customer satisfaction, potrebbe quindi avere riflessi negativi sull’immagine di marca e conseguentemente causare un danno patrimoniale elevato per le singole aziende.
Altri potenziali rischi che l’impresa deve tenere ben presente nell’adozione di una strategia di co-branding afferiscono alla leva distributiva del marketing mix. Lo sviluppo di un nuovo prodotto e la relativa introduzione nel mercato potrebbe, infatti, generare dei conflitti nel rapporto produzione-distribuzione. Se il prodotto co-branded non è coerente con i prodotti che costituiscono l’assortimento del punto vendita o presenta un posizionamento estraneo all’offerta complessiva proposta potrebbe non essere accettato dal distributore. In altri casi, il conflitto potrebbe derivare da rapporti di esclusività, attivati dal distributore con altre marche che escluderebbero di fatto la possibilità di trattare marche concorrenti all’interno del medesimo assortimento (situazione che si verifica nelle Travel Agencies, fedeli a uno o pochi T.O.). Il problema maggiore si verrebbe a creare allorquando l’intermediario avesse un obbligo contrattuale, sia con la marca ospitante implicata nell’iniziativa di co-branding (p.e. obbligo di acquistare tutte le sue referenze), che con una marca presente nel PDV, concorrente diretta della marca invitata. Una situazione di questo tipo potrebbe compromettere i rapporti esistenti tra produttore e distributore, arrecando danno alla marca in termini di efficienza ed efficacia del processo distributivo.
Un ulteriore motivo di conflitto potrebbe derivare dall’erosione del margine di profitto del prodotto, spettante al distributore. In alcune circostanze l’impresa produttrice potrebbe diminuire il margine di profitto per l’intermediario, a causa di un innalzamento di prezzo dovuto al pagamento di royalties alla marca proprietaria; oppure fissando un prezzo al consumatore finale, con riflessi negativi sul margine di distribuzione, giustificando l’operazione con la maggiore rotazione delle vendite. Inoltre, il conflitto con l’intermediario potrebbe acuirsi anche in merito al posizionamento del prodotto co-branded negli scaffali del PDV che, come noto, rappresenta una risorsa di valore per entrambe le parti.
Ad ogni modo, l’impresa produttrice dovrebbe valutare attentamente tutti i possibili rischi assunti, una volta attuata la strategia di co-branding, ed evitare situazioni che come illustrato potrebbero generare effetti negativi non solo sulle singole politiche distributive, ma in alcuni casi, quelli più gravi, il conflitto avrebbe ripercussioni sull’intera strategia di distribuzione dell’impresa.
Un’ultima categoria di rischi che merita particolare attenzione da parte del management aziendale, durante tutte le fasi di sviluppo di una strategia di co-branding è quella inerente gli aspetti di natura economico-finanziaria. I rischi a cui si fa riferimento derivano da un peggioramento della
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struttura dei costi, direttamente o indirettamente imputabili all’alleanza. Iasevoli (2004) ha individuato sei tipi di costo originati da una strategia di co-branding, così suddivisi:
di trasferimento delle risorse materiali coinvolte; di coordinamento;
derivanti da una gestione inappropriata dei flussi finanziari o dei processi produttivi;
derivanti da imposizioni dell’impresa partner per la funzione di approvvigionamento o la distribuzione;
di struttura, nel caso sia istituita una specifica unità di business dedicata alla gestione dell’alleanza;
del personale coinvolto nella realizzazione dell’iniziativa.
In alcune circostanze, lo sviluppo di una strategia di co-branding può produrre elevati costi di gestione dell’accordo o generare una riduzione delle economie di scala, con conseguente perdita di efficienza per le imprese. La maggior parte di questi costi derivano dal trasferimento delle risorse produttive tra le imprese coinvolte, ma sono anche legati alla sfera amministrativa e organizzativa. La gestione e l’organizzazione di un’alleanza di marca può rivelarsi un’attività molto complessa (Norris 1992) rispetto ad una strategia tradizionale; infatti i costi di transazione, coordinamento e controllo sono più elevati, soprattutto quando l’impresa implicata opera a livello mondiale, e deve coordinare le politiche di marca realizzate, a livello locale, con quelle attuate a livello globale.
Si ritiene importante evidenziare che i costi, sopra menzionati, non sono presenti in ogni iniziativa: la loro esistenza dipenderà dalla configurazione della strategia di co-branding attuata. Le imprese che siglano accordi in previsione dello sviluppo congiunto della sola attività di comunicazione, ad esempio, saranno naturalmente escluse al sostenimento dei costi di produzione.
In linea generale, tanto maggiore sarà l’intensità relazione dell’alleanza, tanto maggiori saranno le potenziali situazioni di rischio economico-finanziaria a cui essa è soggetta.
Nel caso in cui l’impresa abbia preventivato i suddetti costi e valutato attentamente in fase di pianificazione dell’accordo, le potenziali conseguenze, il loro insorgere potrebbe avere effetti minori sulla strategia aziendale, soprattutto se sono state pianificate delle azioni, volte a contrastare gli effetti negativi che ne possono derivare. Nel caso contrario, l’impresa potrebbe avere sovrastimato i potenziali margini di profitto derivanti dalla collaborazione, non considerando allo stesso modo i costi ad essa associati; tale situazione non solo comprometterebbe la riuscita dell’iniziativa, ma potrebbe generare anche ripercussioni negative sull’intera strategia di business dell’impresa.
Alla luce di quanto sinora detto, l’impresa, per creare un accordo solido e di successo, dovrà