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PROPOSTE PER LO SVILUPPO DEL VENTURE CAPITAL

Gli investimenti di venture capital costituiscono, come è possibile comprendere dall’analisi sin qui svolta, uno strumento importante per il sostegno allo sviluppo di imprese particolarmente innovative, specialmente in mercati che presentano un contesto in cui gli operatori ordinari di credito, quali le banche, non sono propensi ad investire in iniziative imprenditoriali di nuova costituzione e particolarmente

184 rischiose. Come detto in precedenza, è bene ricordare che il sostegno che l’investitore fornisce all’impresa e la collaborazione con il socio imprenditore non sono per sé elementi che consentono di assicurare il successo della stessa impresa, e la sopravvivenza di quest’ultima per un orizzonte temporale più lungo del periodo di investimento da parte dell’operatore di venture capital. In tal senso, sarebbe interessante provare ad individuare delle soluzioni di politica legislativa che possano accrescere le probabilità di successo degli investimenti di venture capital e allo stesso tempo assicurare la sopravvivenza dell’impresa dopo il completamento della fase di disinvestimento per un periodo di tempo più o meno lungo. A tal proposito, tuttavia, appare difficile immaginare come un intervento di natura meramente normativa possa direttamente costituire un elemento chiave per il conseguimento degli obiettivi di politica economica generale sopra delineati. Infatti, se è vero che il rapporto tra venture capitalist e socio imprenditore (aspetto rispetto al quale può senza dubbio immaginarsi come vedremo meglio nel presente paragrafo un intervento di natura normativa), costituisce un elemento centrale per il successo del processo di sviluppo dell’impresa, quest’ultimo – come detto – dipenderà anche ed in larga misura da elementi che non sono gestibili ovvero indirizzabili mediante strumenti di politica legislativa a portata generale, quali la validità della business idea, la fase di sviluppo della stessa, l’immissione sul mercato, la reazione che il mercato potrà avere, nonché la durata della vita economica del prodotto/servizio introdotto dall’impresa finanziata dal venture capitalist.

Per quanto, invece, più strettamente attiene alla relazione tra l’investitore ed il socio imprenditore, nonché agli strumenti negoziali utilizzati nella prassi per disciplinarla, sono certamente immaginabili degli interventi legislativi volti a riequilibrare il rapporto che si viene ad instaurare normalmente sbilanciato a favore del venture capitalist. Infatti, come detto in precedenza, nell’ambito delle operazioni di investimento di venture capital, l’investitore negozia con il socio imprenditore l’assetto di governance ed i diritti in gestione e controllo sull’impresa di ciascuna delle parti sin dal momento iniziale e contestualmente alla definizione dell’operazione di investimento (di cui peraltro tali aspetti rappresentano un elemento importante). In tale fase, è evidente che il venture capitalist si trovi in una posizione più favorevole e con maggiore forza contrattuale in quanto, da un lato, probabilmente costituirà uno dei pochi soggetti (se non l’unico) interessato a finanziare l’impresa e, dall’altro, il socio imprenditore si trova nella necessità di ricorrere a fonti esterne di sostegno economico al fine di consentire la crescita e lo sviluppo dell’impresa. In termini di assetto contrattuale, la maggiore forza contrattuale dell’investitore consentirà a quest’ultimo di ottenere maggiori diritti di governance, di garantirsi il controllo della gestione dell’impresa, e di delineare le strategie di exit in termini di maggior favore e tentare, nella misura in cui ciò sia possibile, di limitare il rischio dell’investimento con il diritto di uscire dallo stesso nel caso in cui non sia adeguatamente profittevole (mediante, ad esempio, il diritto di ottenere il riscatto delle

185 partecipazioni). Ciò posto, al fine di riequilibrare tale rapporto sbilanciato a sfavore del socio imprenditore ed avvicinare il modello degli investimenti di venture capital al modello immaginato da Schumpeter (in cui il finanziatore rimane estraneo alla gestione e senza particolari diritti di controllo) si potrebbe ipotizzare un intervento legislativo che, limitando l’autonomia contrattuale delle parti, sia volto a fissare degli elementi inderogabili dalle parti in materia di corporate governance, quali, ad esempio, (a) la durata minima della permanenza dell’investitore in società (c.d. lock-up period), in modo da evitare che lo stesso abbandoni l’impresa alle prime difficoltà, (b) limiti inderogabili in materia di nomina degli organi di amministrazione e controllo, in modo da garantire nei relativi organi una rappresentanza equa sia del venture capitalist, che del socio imprenditore, (c) il divieto di procedere alla distribuzione degli utili dell’impresa per i primi anni e l’obbligo di destinarli in misura rilevante ad attività di research &

development, in modo da evitare il depauperamento dell’impresa in un momento particolarmente delicato

della vita di quest’ultima, (d) limiti alla previsione di call option punitive a favore dell’investitore, in modo da evitare che questo possa forzare la vendita della partecipazione del socio imprenditore a condizioni particolarmente favorevoli, e (e) la previsione di materie rispetto alle quali garantire il diritto di veto da parte del socio imprenditore. Nonostante, un tale tipo di intervento normativo possa in linea generale ed astratta essere immaginato e contribuire al riequilibrio del rapporto tra venture capitalist e socio imprenditore, non va sottovalutato l’impatto che tali novità legislative potrebbero sortire sul mercato degli investimenti del venture capital. Infatti, l’introduzione di eventuali previsioni legislative, favorendo la posizione del socio imprenditore, potrebbero comportare una diminuzione degli investimenti da parte dei venture capitalist, in quanto questi diverrebbero maggiormente rischiosi, non potendo prevedere un protettivo meccanismo di corporate governance. Inoltre, qualora tali interventi legislativi fossero limitati al solo mercato italiano (ovvero anche solo europeo), gli stessi non farebbero altro che aumentare il gap rispetto ad altri mercati (e.g. quello statunitense) che prevedono condizioni di maggior favore per gli investitori, inducendo questi ultimi a concentrare l’attività in tali aree geografiche.

Con riferimento agli accordi parasociali che consentono di disciplinare la relazione tra venture capitalist e socio imprenditore, merita menzione la previsione contenuta nell’articolo 2341 - bis del Codice Civile, ai sensi della quale: “I patti, in qualunque forma stipulati, che al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o

il governo della società: (a) hanno per oggetto l'esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; (b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; (c) hanno per oggetto o per effetto l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante su tali società, non possono avere durata superiore a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore […].”.

186 senso di garantire alle parti la possibilità di rinegoziare condizioni contrattuali che, potrebbero rivelarsi in un momento successivo alla sottoscrizione del patto, non più idonee a regolare il rapporto tra i soci, nonché di favorire la circolazione delle partecipazioni e il rinnovo dei meccanismi di corporate

governance. Un’interpretazione più attenta della previsione legislativa può, però, dimostrare come tale

disposizione possa essere sfruttata, nell’ambito delle operazioni di venture capital, a detrimento del socio imprenditore. Infatti, alla scadenza del quinquennio di durata massima, il venture capitalist (normalmente socio di maggioranza) potrebbe sfruttare la propria posizione di controllo dell’impresa (che gli garantirebbe, in assenza di specifiche previsioni statutarie che dispongano diversamente, la nomina di tutti gli organi di controllo) e la conseguente maggior forza contrattuale per ottenere dal socio imprenditore condizioni contrattuali maggiormente favorevoli, senza che quest’ultimo possa controbilanciare tale forza contrattuale dell’investitore (come invece avviene nella prima negoziazione dell’investimento, in cui il socio imprenditore potrà minacciare di abbandonare il tavolo delle trattive, qualora le proprie richieste non fossero accolte). In tale ottica, vale la pena sottolineare che tale aspetto di debolezza del sistema possa essere, in parte, superato attraverso l’introduzione di specifiche previsioni che replichino i meccanismi concordati nell’accordo parasociale nello statuto dell’impresa oggetto di investimento (non essendo evidentemente presenti limiti di durata temporale delle previsioni dello statuto).

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, l’intervento del legislatore, specialmente italiano, dovrebbe principalmente indirizzarsi verso lo sviluppo di un mercato del venture capital, creando, pertanto, un contesto normativo e di politica economica che favorisca tali investimenti. In tale ottica, merita menzione il recente intervento normativo (art. 25 del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con Legge 17 dicembre 2012, n. 221, recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”) che - con l’obiettivo dichiarato di contribuire allo sviluppo di una nuova cultura imprenditoriale, creare un contesto maggiormente favorevole all'innovazione, promuovere maggiore mobilità sociale, e attrarre talenti in Italia e capitali dall'estero - ha introdotto il concetto di impresa start-up innovativa314 e previsto delle deroghe rispetto anche ai principi generali di diritto societario, nonché delle previsioni speciali per tali imprese. In particolare, ai fini di qualificare un’impresa come “start-up innovativa”, la stessa deve essere in possesso dei seguenti requisiti315: (i) avere la forma di una società di capitali (anche eventualmente con la forma delle S.r.l. semplificate o a capitale ridotto); (ii) deve essere costituita e operare da non più di 48

314 Per una più approfondita analisi della disciplina delle start-up innovative, degli incentivi fiscali e delle semplificazioni normative di cui beneficiano tali imprese, si veda: Iori, S.r.l. Semplificata e a Capitale Ridotto, Milano, 2012, pp. 29 e ss..

315 Prima del Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito con Legge 9 agosto 2013, n. 99, tra i requisiti vi era che la maggioranza del capitale sociale e dei diritti di voto da esprimersi in assemblea ordinaria dovessero spettare a persone fisiche.

187 mesi; (iii) deve avere la sede principale dei propri affari e interessi in Italia; (iv) il totale del valore della produzione annua, a partire dal secondo anno di vita, non deve superare la somma di Euro 5.000.000,00; (v) non deve distribuire o aver distribuito utili; (vi) deve avere quale oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico; e (vii) non deve essere stata costituita per effetto di una fusione, scissione, o a seguito di cessione di azienda o ramo di azienda. In aggiunta a tali requisiti, l’impresa per rientrare nella categoria delle “start-up innovative” dovrà soddisfare almeno uno dei seguenti criteri: (a) le spese di ricerca e sviluppo sono uguali o superiori al 15 per cento del maggiore valore tra costo valore della produzione; (b) impiegare personale altamente qualificato (e.g. in possesso di dottorato di ricerca) per almeno un terzo della propria forza lavoro; e/o (c) essere titolare o licenziataria di un diritto di privativa industriale connessa alla propria attività. La qualifica di start-up innovativa viene ottenuta dalle imprese in possesso dei requisiti indicati sopra a seguito dell’iscrizione in una specifica sezione del competente registro delle imprese316. Da tale qualificazione, discendono una serie di semplificazioni e possibilità di deroghe alla disciplina generale di diritto societario, quali: (A) la possibilità di posticipare al secondo anno di esercizio la riduzione del capitale sociale nel caso di perdita che incida sul capitale sociale per più di un terzo del suo valore, in deroga all’art. 2446, comma II, del Codice Civile (per le S.p.A.) ed all’art. 2482, comma IV, del Codice Civile (per le S.r.l.); (B) la possibilità per i soci di rinviare alla chiusura dell’esercizio successivo la deliberazione di riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al minimo legale, così come previsto dall’art. 2447 del Codice Civile ed art. 2482 - ter del Codice Civile, nel caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale; (C) la possibilità di creare categorie di quote per le imprese start-up innovative costituite in forma di S.r.l. (anche con quote prive del diritto di voto); (D) le quote di partecipazione detenute nella start-up innovativa costituita sotto forma di S.r.l. possono costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma I, del Codice Civile; (E) le deroghe consentite nelle start-up innovative costituite in forma di S.r.l. rispetto al divieto di compiere operazioni sulle proprie partecipazioni previsto dall’art. 2474 del Codice Civile in attuazione di piani di incentivazione a favore di dipendenti, collaboratori o componenti dell’organo amministrativo; e (F) la possibilità per le start-up innovative costituite in forma di S.r.l. di emettere strumenti finanziari sul modello delle S.p.A..

Accanto ad interventi normativi del tipo sopra riportato, che evidentemente si pongono nell’ottica di apprestare strumenti societari adeguatamente elastici e favorire l’operatività delle imprese innovative,

316 Al fine di favorire la costituzione di start-up innovative, si prevede l’esonero per tali imprese dal versamento dei diritti di bollo e di segreteria dovuti agli adempimenti per l’iscrizione sul Registro delle Imprese, nonché del pagamento del diritto annuale dovuto in favore delle Camere di Commercio.

188 come sottolineato dalle associazioni di categoria317, la leva più potente a disposizione del legislatore per favorire gli investimenti di venture capital è sicuramente quella fiscale318, in particolare attraverso la riduzione del livello di tassazione dei capital gain derivanti da investimenti di venture capital in imprese innovative. Ciò comporterebbe, infatti, un incremento del guadagno netto che otterrebbero i venture

capitalist, inducendo tale tipo di investitori a sostenere la crescita di imprese italiane. In aggiunta e

sempre sfruttando la leva fiscale, si potrebbe immaginare un intervento volto a ridurre il livello dell’imposizione fiscale sui redditi dei risparmiatori derivanti dalla sottoscrizione di quote in fondi di

venture capital. Come dimostrato da Gompers e Lerner319, un tale tipo di intervento sostiene e favorisce la raccolta dei capitali da parte dei venture capitalist e, quindi, contribuirebbe a creare un ambiente favorevole alla creazione di fondi destinati ad investire in imprese innovative.

Le politiche legislative e anche di natura fiscale volte ad attrarre nel nostro paese operatori di venture

capital non sono di per sé decisive se a queste non si accompagnano politiche volte a favorire lo sviluppo

delle fasi a monte e a valle dell’investimento. Infatti, prevedere misure di incentivo agli investimenti non è di particolare beneficio, laddove (i) non si creasse, mediante un’adeguata politica industriale ed economica, una cultura imprenditoriale della ricerca e dell’innovazione che favorisca la nascita di imprese innovative, le quali sono le destinatarie degli investimenti di venture capital, e (ii) non si creasse un mercato delle operazioni di M&A, che favorisca le operazioni trade sale, nonché un efficiente mercato dei capitali che supporti la quotazione delle imprese innovative. Non si può negare, in tal senso, che la mancanza o la scarsità di imprese nelle quali investire e, parimenti, l’assenza di condizioni che favoriscono la dismissione della partecipazione da parte dell’investitore costituiscono senza dubbio un freno agli investimenti di venture capital. Un intervento legislativo e di politica industriale in tal senso sarebbe più che auspicabile e costituirebbe il primo tassello di un processo che consentirà al mercato italiano del venture capital di crescere e avvicinarsi agli altri mercati.

317 AIFI, Documento propositivo per il nuovo parlamento, 2013, disponibile su www.aifi.it; AIFI, Libro Bianco –

Proposte per lo sviluppo del venture capital in Italia, 2011, disponibile su www.aifi.it..

318 Proprio utilizzando tale leva, il legislatore ha introdotto l’art. 29 del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con la Legge 17 dicembre 2012, n. 221). Tale norma consente, per gli anni 2013, 2014 e 2015 e 2016, di detrarre all’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche un importo pari al 19% della somma investita dal contribuente nel capitale sociale di una o più start-up innovative (l’investimento massimo detraibile non può eccedere la somma di 500.000 euro per ogni periodo d’imposta e deve essere mantenuto per almeno 2 anni). In termini analoghi, per i periodi di imposta 2013, 2014 e 2015 e 2016, l’art. 29 del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con la Legge 17 dicembre 2012, n. 221) prevede che non concorra alla formazione del reddito dei soggetti passivi d’imposta sul reddito delle società – differenti dalle imprese start-up innovative – il 20% della somma investita nel capitale sociale di una o più start-up innovative (l’investimento massimo deducibile non può eccedere la somma di 1.800.000 euro in ciascun periodo d’imposta e deve essere mantenuto per almeno 2 anni).

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CAPITOLO 3

Conclusioni