Il venture capitalist svolge nelle transazioni con il socio imprenditore, volte al finanziamento di imprese innovative, una funzione che ontologicamente in linea teorica e dal punto di vista meramente finanziario è avvicinabile alla figura e al ruolo del “banchiere” negli scritti di Schumpeter. Infatti, come il banchiere, l’operatore di venture capital compiendo una vera e propria attività di scouting individua le idee imprenditoriali valide e le finanzia acquistando una quota di partecipazione delle stesse.
Nonostante, come detto, in linea teorica ed astratta le sopra citate figure siano avvicinabili quanto alla funzione finanziaria, in concreto gli investimenti operati dal venture capitalist si discostano da quelli che Schumpeter immagina siano effettuati dal banchiere per favorire lo sviluppo dell’impresa. Infatti, come emerge dalla Teoria dello Sviluppo Economico, il ruolo del finanziatore è limitato al solo apporto di risorse economiche all’imprenditore. Sarà l’imprenditore a gestire l’impresa e a effettuare gli investimenti necessari per sviluppare ed introdurre sul mercato l’idea innovativa dallo stesso elaborata. Di converso, il ruolo del banchiere non si estende alla gestione e/o all’indirizzo dell’attività di gestione dell’impresa: “il
banchiere […] sta fra coloro che vogliono introdurre nuove combinazioni e i possessori dei mezzi di produzione” 299, ed il capitale che lo stesso apporta “non è altro che la leva che consente all’imprenditore
di sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno, nient’altro che un mezzo per dettare alla produzione una nuova direzione”300, la quale, quindi, viene esclusivamente determinata dall’imprenditore senza ingerenze da parte dell’investitore. Infatti, come anticipato, per Schumpeter il finanziatore non ha né le competenze manageriali e gestionali necessarie per sviluppare l’impresa, né ha una conoscenza del business e/o dell’idea innovativa tale da consentirgli di cogliere pienamente tutte le opportunità che dall’idea potrebbero derivare, cosa che invece avrebbe l’imprenditore che ha elaborato l’innovazione. Nonostante il banchiere rimanga estraneo alla gestione dell’impresa, secondo Schumpeter è proprio tale soggetto che sopporta il rischio d’impresa: infatti, “È il creditore colui che subisce i danni
se [l’impresa] fallisce. Sebbene infatti una garanzia possa essere offerta dall’eventuale patrimonio dell’imprenditore, tale patrimonio non è essenziale […] Ma anche se l’imprenditore finanzia se stesso con profitti imprenditoriali precedenti o se contribuisce con i mezzi di produzione della sua azienda
299 Schumpeter, op. cit., p. 75.
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“statica”, il rischio lo riguarda come capitalista o come possessore di beni, non come imprenditore. L’assunzione del rischio non è in nessun caso un elemento della funzione dell’imprenditore. Per quanto possa rischiare la sua reputazione, la responsabilità economica diretta di un insuccesso non lo riguarda.301”. Tale allocazione del rischio di impresa, nella teoria dell’economista austriaco, non induce il
banchiere a cercare di ingerirsi nella gestione dell’impresa: lo stesso, infatti, non ha interesse a farlo e non
è connaturato alla sua funzione. Il rischio viene, in tal senso, gestito al momento della scelta dell’impresa nella quale investire. Infatti, come delineato da Schumpeter, il ruolo di banchiere nell’ambito dello sviluppo economico è principalmente di selezionare le iniziative imprenditoriali da finanziare, attraverso una vera e propria attività di scouting delle idee innovative che possano tradursi, attraverso un adeguato
funding che lo stesso si impegna a fornire, in imprese valide ed in grado di penetrare il mercato,
realizzando quel cambiamento radicale nel paradigma dominante che consente all’intero sistema economico di progredire. Ciò posto, è evidente che una volta selezionata l’iniziativa imprenditoriale da finanziare ed apportate le risorse patrimoniali necessarie, il ruolo del banchiere si esaurisce e, pertanto, sarà compito esclusivo dell’imprenditore sviluppare la propria idea imprenditoriale e portarla sul mercato. Schumpeter sembra, quindi, essere ben conscio che una commistione tra l’interesse del banchiere ad ottenere un elevato ritorno economico dal proprio investimento e quello dell’imprenditore a sviluppare la
business idea secondo i sui piani spesso non è possibile in quanto questi non sempre sono in grado di
convivere e trovare un bilanciamento tra i relativi opposti e, come sottointeso da Schumpeter, spesso ontologicamente inconciliabili interessi. Il finanziatore potrebbe, infatti, (i) da un lato, essere indotto a tenere a freno l’imprenditore dall’investire e indirizzare la sua strategia verso direzioni più rischiose che potrebbero potenzialmente incidere negativamente sulle possibilità di ottenere il preventivato ritorno economico, ma che, per contro, potrebbero essere più vantaggiose per l’impresa e, (ii) dall’altro, indurre l’imprenditore a focalizzarsi su strategie profittevoli nel breve periodo che, quindi, consentono allo stesso finanziatore di rientrare dell’investimento secondo i propri piani, ma che nel lungo periodo potrebbero rivelarsi sbagliate ovvero affrettate, mettendo quindi a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa successivamente alla restituzione del finanziamento.
Diversamente, nelle operazioni di venture capital l’apporto di risorse finanziarie avviene mediante l’acquisto di una quota di partecipazione nell’impresa e il versamento di successive somme di denaro in relazione al grado di sviluppo dell’impresa e al rispetto degli obiettivi concordati tra il venture capitalist e il socio imprenditore all’atto dell’investimento (c.d. staging). Come anticipato nella prima parte del presente lavoro, una caratteristica tipica degli investimenti di venture capital è che l’operatore finanziario ha la necessità, stante la rilevanza delle asimmetrie informative tra quest’ultimo e il socio imprenditore, di
177 proteggersi rispetto al rischio di moral hazard da parte dell’imprenditore e tale protezione avviene, come detto, mediante la previsione, nel patto parasociale, di strumenti contrattuali che, attraverso la allocazione dei diritti di governance societaria, consentono di raggiungere un equilibrio tra gli interessi dell’imprenditore e l’interesse dell’investitore. Infatti, mediante gli accordi parasociali si consente di trovare delle soluzioni di equilibrio tra l’interesse del socio imprenditore a mantenere una certa autonomia nella gestione della società in modo da perseguire nello sviluppo dell’idea di business secondo quanto da lui immaginato e pianificato, e il diverso interesse dell’investitore che, al fine di massimizzare il risultato del proprio investimento, ha l’esigenza, sia di gestire o comunque avere una voce nella gestione dell’impresa, indirizzandone lo sviluppo e cercare in tal modo di cogliere occasioni che l’imprenditore spesso non è in grado di cogliere ovvero non ha interesse a cogliere, sia di monitorare l’attività che all’interno dell’impresa stessa pone in essere il socio imprenditore.
Proprio tale forte coinvolgimento dell’investitore nella gestione e nelle strategie dell’impresa costituisce una delle differenze principali con il modello di finanziamento immaginato da Schumpeter nella Teoria
dello Sviluppo Economico. Se, infatti, la presenza attiva del venture capitalist nella gestione dell’impresa
è uno degli elementi caratteristici delle operazioni di venture capital, una tale ingerenza potrebbe, qualora il rapporto non fosse adeguatamente regolato, essere la causa principale del fallimento dell’iniziativa imprenditoriale. Proprio per questo, nel modello immaginato da Schumpeter, l’imprenditore viene lasciato liberamente operare e gestire l’impresa, pur beneficiando dell’apporto finanziario da parte del finanziatore.
Un ultimo aspetto che merita di essere messo in evidenza nell’analisi della posizione del venture
capitalist è quello relativo all’assunzione del rischio di impresa e di come tale rischio viene limitato
attraverso le pattuizioni parasociali. In tal senso, si è detto in precedenza che, secondo Schumpeter, in ultima istanza, è il finanziatore che sopporta il rischio d’impresa, in quanto è il capitale che lo stesso apporta ad essere utilizzato per la crescita dell’impresa, e qualora tale sviluppo non si realizzasse il finanziatore non potrebbe ottenere il ritorno sperato: “È il creditore colui che subisce i danni se
[l’impresa] fallisce. […] L’assunzione del rischio non è in nessun caso un elemento della funzione dell’imprenditore..302”. Anche con riferimento a tale profilo, vi sono degli elementi di somiglianza tra gli investimenti di venture capital e il modello teorico elaborato da Schumpeter. Infatti, nelle operazioni di
venture capital l’investitore apporta risorse economiche nell’impresa target e, tale iniezione ha quale suo
primo step l’acquisto di una partecipazione nella stessa, secondo diversi schemi e strutture (e.g. acquisto di partecipazione, ovvero sottoscrizione di aumenti di capitale). L’acquisto di tale quota di partecipazione
178 nel capitale dell’impresa finanziata (usualmente di maggioranza), costituisce per sé, in base ai principi di diritto commerciale, il rischio per l’investitore di non vedere il proprio investimento adeguatamente remunerato. Infatti, il venture capitalist quale socio dell’impresa oggetto di investimento si pone, rispetto a quest’ultima e ai relativi creditori, quale residual claimant, tale per cui lo stesso potrà percepire utili solo in base all’andamento della società e dell’iniziativa imprenditoriale e solo se questi sono realmente conseguiti e, pertanto, non indipendentemente dai risultati economici della società (come invece avviene in linea generale rispetto, ad esempio, alle banche creditrici)303. Ciò considerato, il venture capitalist, in virtù della sua qualità di socio dell’impresa, potrà ottenere il rimborso della propria quota di partecipazione in sede di liquidazione solo dopo che siano state soddisfatte le pretese dei terzi creditori. In ultima analisi, proprio per la struttura delle operazioni di venture capital (meglio descritta nella prima parte del presente lavoro), non si può evidentemente negare che sul venture capitalist gravi il rischio d’impresa, non solo nel senso civilistico del termine, ma anche da una prospettiva più prettamente “Schumpeteriana”; parimenti anche il socio imprenditore, nella misura in cui lo stesso ha apportato risorse nell’impresa nella fase iniziale e detiene con il venture capitalist una partecipazione nella stessa, sopporta una parte del rischio di impresa. In tale ottica e proprio in considerazione della circostanza che i
venture capitalist sono certamente consci del rischio connaturato ai loro investimenti, gli stessi cercano,
per quanto possibile, di proteggersi contrattualmente prevedendo sin al momento della sottoscrizione degli accordi volti a perfezionare l’operazione: (i) da lato operativo/gestionale, meccanismi di monitoraggio e controllo e diritti in tema di amministrazione dell’impresa attraverso specifiche previsioni volte ad attribuire allo stesso particolari diritti di governance, e (ii) ad un lato più finanziario, prevedendo meccanismi di way-out che gli consentono di uscire dall’investimento nel caso in cui gli obiettivi di crescita dell’impresa concordati con l’imprenditore non siano conseguiti, si pensi, come detto in precedenza, al meccanismo delle put options con il conseguente obbligo di riacquisto in capo al socio imprenditore delle partecipazioni del venture capitalist. Tali meccanismi contrattuali non fanno altro che fornire una tutela (legittima nell’ottica dell’investitore), per quanto possibile più forte al proprio investimento, la cui riuscita dipende in ultima analisi dalla collaborazione dell’imprenditore, la quale, a sua volta, è rispetto al venture capitalist una variabile non controllabile e, pertanto, fonte di un rischio difficilmente calcolabile ex ante all’atto dell’investimento. La più diretta conseguenza di tali protezioni contrattuali è la riduzione, de facto, del rischio del venture capitalist rispetto al proprio investimento e ciò, evidentemente, vale a differenziare, anche sotto il profilo dell’allocazione del rischio d’impresa effettivo, il modello degli investimenti di venture capital dall’impianto teorico sviluppato da Schumpeter.
303 Si veda in tal senso l’articolo 2433 c.c., commi 2 e 3, secondo cui: “Non possono essere pagati dividendi sulle
azioni, se non per utili realmente conseguiti e risultanti dal bilancio regolarmente approvato. Se si verifica una perdita del capitale sociale, non può farsi luogo a ripartizione di utili fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente.”.
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