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Rashōmon

Nel documento Il narratore inattendibile: casi esemplari (pagine 107-129)

NARRAZIONE INATTENDIBILE

I GRANDI CLASSIC

3.5 Rashōmon

Rashōmon è un film del 1950 diretto da Akira Kurosawa. Il termine significa letteralmente “La porta nelle mura difensive” e Rashōmon era uno dei principali accessi alla città di Kyōto, in Giappone. La pellicola è ispirata principalmente al racconto Nel Bosco di Ryunosuke Akutagawa del 1922, ed è integrata con estratti di Rashōmon, racconto breve del 1915 dello stesso autore.

3.5.1 Sinossi

È un giorno di pioggia molto fitta e due uomini, un prete e un boscaiolo, si stanno riparando sotto una porta in rovina della città; vengono raggiunti da un terzo uomo, un passante, che vuole anch'esso ripararsi dalla pioggia. Il boscaiolo sta riflettendo ad alta voce su un fatto increscioso e molto strano avvenuto qualche tempo prima; il passante chiede insistentemente cosa sia successo e così apprende che il prete e il boscaiolo sono stati alla polizia per testimoniare ad un processo sull'uccisione di un samurai, Takehiro Kanazawa (Masayuki Mori). Il primo a raccontare quanto successo è il boscaiolo; ha inizio così il primo flashback.

L'uomo sta andando nel bosco per prendere della legna; lungo il percorso trova il corpo senza vita di un uomo e corre alla polizia. Lì gli viene chiesto se avesse visto altro, come ad esempio una spada, ma il boscaiolo afferma di aver visto soltanto due cappelli, uno da donna e uno da uomo, sui rami di un albero, e una corda tagliata ed annodata vicino ad un cedro; poco lontano dal cadavere ha visto anche una borsa. Dopo di lui, viene interrogato anche il prete che, di ritorno a piedi verso il convento, ha incontrato il samurai ancora in vita; le immagini mostrano che in mezzo al bosco, in direzione opposta rispetto alla sua, il prete vede una donna coperta da un cappello con il velo e seduta su un cavallo, portato da un uomo con la spada e l'arco. Viene arrestato e portato in tribunale anche un terzo uomo, un bandito; il poliziotto che l'ha catturato racconta che due giorni prima, verso il tramonto, mentre camminava lungo il fiume, aveva trovato l'uomo, Tajōmaru (Toshirō Mifune), buttato a terra dal cavallo che aveva rubato al samurai. Sentendo le parole del poliziotto, Tajōmaru scoppia a ridere e dice che le cose non sono andate affatto così: quel giorno si era fermato a bere ad una sorgente, ma poco dopo era stato assalito dai crampi ed era per questo che si era accasciato a terra. Poi confessa di aver ucciso il samurai ed inizia il suo racconto, mostrato tramite un altro flashback.

Il bandito sta riposando ai piedi di un albero quando, aprendo gli occhi, vede passare Takehiro che porta il cavallo su cui sopra c'è seduta sua moglie Masako (Machiko Kyō); Tajōmaru afferma che non aveva

intenzione di uccidere l'uomo ma soltanto di prendersi la donna. Raggiunge i due, che si fermano e, con una scusa, attira il samurai nel bosco e lo aggredisce. Poi si reca dalla donna e le dice che il marito è stato morso da un serpente; sentendo quella notizia, Masako diviene bianca in volto e Tajōmaru afferma, alla polizia, di aver provato profonda invidia nei confronti di quell'uomo, e così gli era venuta voglia di ucciderlo. Il bandito porta la donna dal marito, che in realtà è legato ad un albero; così Masako tenta di aggredire Tajōmaru e lo minaccia con un pugnale. L'uomo riesce a difendersi, le afferra le braccia e la bacia; la donna, inizialmente restia a quella violenza, alla fine si arrende.

Il flashback termina e il bandito, al cospetto della polizia, dice che in quel modo si era preso la donna senza uccidere l'uomo, come aveva intenzione di fare sin dall'inizio. Un altro flashback mostra la donna fermare Tajōmaru e dirgli che adesso che si è abbandonata a quella passione, uno dei due, tra lui e il marito, dovrà morire; infatti, aver ceduto a quel rapporto è un disonore troppo grande e lei non riesce a sopportarlo. Poi giura che apparterrà a chi dei due resterà vivo e farà vivere lei; il bandito acconsente, slega l'uomo e i due iniziano a battersi. Tajōmaru racconta che il samurai ha combattuto con un coraggio eccezionale, ma appena lui lo aveva battuto si era reso conto che la donna nel frattempo era fuggita, e alla fine non l'aveva più cercata. Poi il bandito sostiene di aver pagato il conto dell'oste con la spada del samurai e che, invece, non aveva più visto il pugnale della donna.

Vengono nuovamente mostrati i tre uomini al riparo sotto la porta. Il passante si chiede dove sia finita la donna e il prete dice di averla vista durante il processo; si era dapprima rifugiata in un tempio e poi era stata ritrovata dalle guardie che l'avevano condotta alla polizia. Il boscaiolo incalza dicendo che sono tutte bugie, che tutti non hanno fatto altro che raccontare bugie; il passante sostiene che nessuno, in fondo, dica mai la verità, e poi chiede quale sia stata la testimonianza di Masako. Il prete dice che la sua versione era del tutto diversa da quella di Tajōmaru, che il suo viso non dimostrava violenza e che l'uomo aveva descritto una donna che non sembrava affatto lei, che anzi si era mostrata gentile e disperata.

Viene mostrata Masako in tribunale, in lacrime; la donna racconta che, dopo aver abusato di lei, Tajōmaru si era presentato come un bandito molto famoso e che, nel frattempo, più il marito cercava di liberarsi dalle corde, più queste lo stringevano. La donna era corsa disperatamente da lui o, per meglio dire, aveva provato a farlo perché era stata fermata dal bandito che poi era andato via ridendo e lasciandola per terra a piangere. La scena si sposta nel bosco; Masako si alza per andare ad abbracciare il marito, ma questi ha uno sguardo pieno di disprezzo per ciò che lei ha fatto. La donna prende il pugnale e chiede all'uomo di ucciderla perché non può sopportare che lui la guardi così; l'uomo, però, rimane impassibile, in silenzio. La donna si alza, brandendo il pugnale e urlando al marito di smetterla. Il flashback termina e Masako, al cospetto della polizia, dice che

a quel punto era svenuta per un tempo imprecisato; al suo risveglio, era stata pervasa dall'orrore: il corpo del samurai era stato trafitto dal pugnale. A quel punto Masako era fuggita, presa dal terrore, senza sapere dove stesse andando; uscita dalla foresta, si era ritrovata sulle rive di un piccolo lago tranquillo e aveva desiderato la morte.

Terminato il racconto, il passante afferma che bisogna imparare a non farsi ingannare dalle donne, e il prete dice che anche il samurai morto aveva parlato al processo, per bocca di una medium. Il boscaiolo sostiene che siano tutte bugie, anche quelle del morto; il passante però chiede cosa sia successo a quel punto e viene mostrato di nuovo il cortile del processo. La medium parla con la voce di Takehiro, che dice di trovarsi nelle tenebre, in preda al dolore, e maledice chi ce l'ha mandato. Racconta che quando il bandito aveva finito di abusare della moglie, aveva cercato di convincerla a rimanere per sempre con lui. Viene mostrata Masako in ginocchio davanti a Tajōmaru, che le parla con molta astuzia: ormai, dopo quello che era successo, non avrebbe più potuto riunirsi al marito e quindi non le restava che accettare le sue proposte e diventare sua moglie. A quel punto la donna risponde che sarebbe andata con lui dovunque avesse voluto; tutto accade davanti agli occhi del samurai, ancora legato all'albero. Il bandito prende la donna per portarla via, ma lei lo ferma e gli dice che deve uccidere Takehiro, perché con lui ancora in vita, lei non sarebbe potuta essere sua. Persino Tajōmaru impallidisce di fronte a quella richiesta, ma la donna

continua ad insistere; l'uomo la getta per terra e chiede al samurai cosa volesse farne, se ucciderla o lasciarla andare. Nel frattempo, però, Masako fugge nel bosco, così il bandito slega il samurai e va via. L'uomo rimane seduto per un po', in silenzio, poi si alza e inizia a piangere; prende il pugnale della moglie e se lo conficca nel petto. Viene mostrata la maga che si accascia a terra e continua il racconto: quando le tenebre avevano cominciato ad avvolgere il samurai, un passo leggero si era avvicinato a lui, una mano aveva afferrato il pugnale e lo aveva estratto.

Concluso il racconto, il boscaiolo dice che non può essere vero perché il samurai era stato ucciso con una spada e non con un pugnale; così il passante si alza e va verso di lui dicendogli che quindi ne sa di più perché probabilmente ha visto cosa è successo e gli chiede perché non abbia raccontato tutto alla polizia. Il prete però afferma di non voler sentire più nessun'altra storia, mentre il passante dice che vuole sapere ciò che ha visto il boscaiolo. Quest'ultimo inizia il suo racconto: prima aveva davvero trovato i due cappelli, poi andando avanti aveva sentito il pianto di una donna; nascosto tra i cespugli l'aveva vista a terra, vicino a Tajōmaru. Il passante lo interrompe e gli dice che allora non era vero che aveva trovato il cadavere, come invece aveva raccontato alla polizia, e il boscaiolo risponde che ha mentito perché non voleva essere immischiato nella faccenda. Poi il passante gli dice di continuare il racconto e gli chiede cosa stesse facendo il bandito; il boscaiolo risponde che stava chiedendo perdono alla donna,

quasi in ginocchio.

Le immagini mostrano ciò che è accaduto nel bosco: Masako è a terra in lacrime, Tajōmaru le dice che adesso la desidera più di prima e che la vuole sposare subito; vuole portarla via e, in ginocchio, le chiede di accettare. Il bandito è disposto a lasciare il proprio lavoro, dice che ha abbastanza soldi per farla vivere nel lusso e che cercherà di non farle mancare nulla; siccome, però, la donna non risponde, l'uomo le dice che se non accetterà sarà costretto ad ucciderla. Masako si alza, gli dice che non può fuggire con lui, poi libera il marito e torna a terra a piangere. Il bandito capisce che lei vuole che siano gli uomini a decidere, ma il samurai non vuole rischiare la propria vita per una che non è più niente per lui; sentendo quelle parole, la donna solleva lo sguardo verso il marito che le consiglia di uccidersi, poiché è stata disonorata. L'uomo non la considera più sua moglie e dice a Tajōmaru che se vuole può prendersela; il bandito però non la vuole più e così la donna scoppia nuovamente a piangere, disonorata e rifiutata da entrambi. Improvvisamente, però, inizia a ridere in modo isterico e si scaglia contro Takehiro dicendogli che se fosse un vero uomo ucciderebbe il bandito; poi dice a Tajōmaru che nemmeno lui può essere considerato un vero uomo. Masako dice che quando l'aveva conosciuto, aveva creduto che l'avrebbe salvata, che l'avrebbe liberata da quella situazione, e lei sarebbe stata pronta ad andare con lui; invece non è stato così. La donna, adirata, dopo avergli urlato queste cose, gli sputa in faccia e

ride sguaiatamente. I due uomini, a quel punto, prendono le armi e iniziano un combattimento; dopo un po' il samurai rimane disarmato, il bandito gli va incontro con la spada e lo trafigge. Poi si dirige verso la donna, che cerca di divincolarsi e riesce a scappare; l'uomo prova a seguirla, ma alla fine si ferma e si sdraia per terra, andando via poco dopo.

Il racconto del boscaiolo termina e il passante scoppia a ridere, perché non crede che quella sia la verità; il prete, invece, dice che crede negli uomini perché il mondo non può essere un inferno. Il passante incalza, dicendo che non si può credere a nessuno e che loro non possono credere a quanto gli è stato raccontato fino a quel momento. Poi sentono il pianto di un neonato, nascosto in un angolo dentro una cesta e avvolto da dei vestiti; il passante glieli toglie e li ruba. A quel punto il prete prende in braccio il bambino, mentre il boscaiolo si adira con il passante per il furto e gli urla che è un mostro; continua dicendo che sono tutti egoisti, che ognuno pensa solo a sé. Il passante sostiene che anche lui sia così, come tutti gli altri, tant'è che ha rubato il pugnale di Masako, oggetto di grandissimo valore; il boscaiolo non risponde e l'uomo gli dà uno schiaffo. Poi il passante va via sotto la pioggia, ridendo.

Il prete e il boscaiolo rimangono fermi in silenzio per un po', finché la pioggia si fa meno intensa; poi il neonato inizia a piangere e il prete lo culla per calmarlo. Il boscaiolo gli si avvicina e il prete pensa che voglia derubarlo, ma l'uomo dice ha già sei figli e che pensa che per sua moglie

non sarebbe molto più faticoso allevarne un altro. Il prete allora si scusa per averlo creduto un ladro, ma lui risponde che è naturale visto che non si può avere fiducia negli uomini; poi chiede perdono per il suo comportamento di quel giorno. Il prete gli dice che non ha niente di cui scusarsi, anzi gli ha restituito fede e speranza nella vita e lo ringrazia, porgendogli il bambino. I due si salutano e il boscaiolo va via con il neonato.

3.5.2 Commento

Rashōmon vuole mostrare quanto sia relativa la verità e quante sfaccettature essa abbia. Alla base di questo film c'è la storia di un omicidio irrisolto: un samurai è stato ucciso, ma non si sa da chi, né si saprà alla fine del racconto. L'avvenimento viene narrato in prima persona da quattro diversi testimoni, al cospetto di quello che si ipotizza sia un giudice o un poliziotto, ma che non viene mai mostrato; le testimonianze dei personaggi si susseguono, in un tribunale all'aperto, e questi personaggi si rivolgono verso qualcuno che non si vede: è come se essi parlassero allo spettatore in sala, raccontando la loro versione dei fatti.

Le quattro storie, dunque, appartengono ad altrettanti personaggi coinvolti in modi differenti nella faccenda: la moglie del samurai, il brigante Tajōmaru, il boscaiolo e la stessa vittima, attraverso una medium. Ognuno di essi racconta una storia che, per certi versi, coincide con le altre, per altri, invece, è totalmente differente. Quello che il regista ha voluto fare con questo film è un complicato discorso sulla verità e sulla narrazione: non

c'è una sola verità ed essa viene testimoniata da diversi narratori omodiegetici, secondo i propri interessi; si tratta allora dell'inesistenza di una realtà oggettiva e dell'esistenza di punti di vista assolutamente discutibili. A ben vedere, la storia non viene quasi mai mostrata in soggettiva; il personaggio che narra è quasi sempre in campo, viene mostrato nell'atto di fare ciò che sta raccontando, che forse ha fatto o forse no, ma questo non è dato saperlo con certezza. Ogni singola versione dei fatti viene mostrata come se fosse la realtà oggettiva, ma poi, con l'inizio di una nuova testimonianza, si è costretti a mettere in dubbio ciò che si è visto e sentito fino a quel momento; quella realtà, dunque, non è oggettiva ma è soltanto una narrazione. Il cinema, allora, non racconta le cose come stanno realmente, ma racconta delle messe in scena, delle narrazioni, che possono essere combinate in modi differenti, dando ogni volta vita ad una diversa versione dei fatti, talvolta senza nemmeno rivelare quale sia quella vera. La figura del prete, poi, è stata inserita con lo scopo di dare un insegnamento morale: egli è sconvolto dalla capacità che gli uomini hanno di mentire e di interessarsi solo a se stessi; viene criticata dunque la disgregazione morale dell'essere umano, dedito solo ai propri interessi, una disgregazione simboleggiata dal luogo in cui inizia e finisce il film: la porta in rovina della città.

Quello che stupisce di Rashōmon non è che i testimoni mentano al processo, che si rivelino dei narratori omodiegetici inattendibili, ma che le

immagini che vengono mostrate rafforzino quelle menzogne, soprattutto perché, come detto poc'anzi, esse non sono in soggettiva, ma vengono spacciate come oggettivamente vere. Viene mostrato quello che i personaggi raccontano, in modo da ingannare lo spettatore con le immagini: egli non dubita di ciò che vede con i propri occhi, finché non gli viene mostrata un'altra versione che mette in discussione la precedente; allora ciò che si è visto in precedenza non può essere vero, o non può esserlo del tutto, o forse lo è e quindi è falso ciò che si sta vedendo adesso, o forse è tutto falso e la verità rimane nascosta fino alla fine. Le immagini non sono quello che dicono di essere e Rashōmon vuole dimostrare, appunto, che non bisogna credere agli uomini come non bisogna credere alle immagini.

Come accennato precedentemente, le quattro versioni concordano su alcune cose, ma alla fine tutti cercano di attribuire a loro stessi la colpa fondamentale, ossia l'uccisione del samurai: quest'ultimo dice di essersi suicidato, la moglie dice di averlo ucciso e il bandito, a sua volta, dice di essere stato lui a commettere l'omicidio. Mentre normalmente accadrebbe l'inverso, ovvero tutti cercherebbero di accusare gli altri per non essere condannati a morte, qui sembra che la cosa più importante sia salvaguardare la propria immagine, il proprio ruolo nella storia e nel mondo; quindi Tajōmaru cerca di mantenere la sua credibilitą come bandito, Takehiro il suo onore di samurai anche a discapito della propria moglie, e per quest'ultima, invece, conta il fatto di riuscire ad essere accettata da entrambi

gli uomini come oggetto di desiderio, come qualcuno per cui valga la pena battersi e addirittura morire.

Il film si svolge in tre spazi: la porta in rovina, con cui si apre e si chiude la narrazione; poi il bosco che è il vero e proprio spazio dell'azione, il luogo in cui accadono le diverse versioni del delitto. Infine, in mezzo tra i due luoghi, c'è il cortile, il tribunale, in cui il testimone, seduto in basso, si rivolge a qualcuno più in alto chiamato ad ascoltare e a decidere chi punire; questo qualcuno, però, come detto in precedenza, non c'è, o meglio non viene mostrato né viene fatta sentire la sua voce, perché al suo posto è collocata la macchina da presa, come in una sorta di soggettiva che in realtà coincide con lo sguardo dello spettatore. È proprio allo spettatore che i testimoni si rivolgono, raccontano la loro versione dei fatti, cercando di risultare credibili e aiutati in questo dalle stesse immagini; alla fine, non c'è una versione vera: lo spettatore può scegliere a chi credere, se credere a tutti in parte e ricostruire una propria storia, se credere solo ad uno di loro o se, addirittura, non credere a nessuno e immaginare un'altra versione ancora. Di fatto, dunque, il delitto non viene risolto e lo spettatore non può far altro che constatare che le immagini mentono così come, in fin dei conti, mentono gli uomini117.

117 Per questa analisi mi sono servita, in parte, della video intervista a Ugo Volli, semiologo

italiano, dal titolo Quando le immagini mentono, contenuta negli extra del dvd in edizione restaurata della Dolmen Home Video, uscito il 27 marzo 2007.

3.6 Psycho

Psycho (1960) è la terza pellicola di Alfred Hitchcock che presenta

Nel documento Il narratore inattendibile: casi esemplari (pagine 107-129)