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Trattare di patrimonio e paesaggio in relazione alle aree interne dell’ “osso

appenninico”18 fino a non molti anni fa sarebbe stato valutato come

riferimento passatista, occupazione elitista lontana dagli interessi delle masse e del progresso, interessante senza dubbio per documentare un mondo in via di sparizione19, non certo riflessione utile a costruire il futuro.

A pochi decenni di distanza dal boom economico e dalle migrazioni verso le aree più industrializzate che hanno interessato il nostro paese, dopo diversi anni di crisi (non solo economica) di quel modello di sviluppo, la situazione si è decisamente rovesciata, perlomeno sul piano culturale20.

Le aree interne, marginali rispetto alle grandi dinamiche di trasformazione, hanno acquisito una nuova dignità patrimoniale, non tanto dal punto di vista dei valori fondiari o più in generale economici (almeno per ora, e salvo alcune eccezioni), quanto come documento ancora in parte vivente di conoscenze e pratiche resilienti, e dunque particolarmente utili per affrontare il nostro incerto futuro collettivo.

Certo, pur a fronte di casi significativi di nuovi abitanti per scelta, i dati demografici non sono incoraggianti, anche in conseguenza di politiche pubbliche che tendono a concentrare risorse e servizi nelle conurbazioni

18 La nota metafora dell’ ‘osso’, riferita all’ampio territorio della dorsale montana e alto collinare

appenninica e pre-appenninica, contrapposto alla ‘polpa’ delle aree di pianura e costa in cui si concentrano le attività produttive, i servizi e la popolazione, è stata come noto coniata da Manlio Rossi Doria nel 1958 (M. Rossi Doria, Dieci anni di politica agraria, Bari, Laterza, 1958), e poi ripresa con successo a distanza di qualche decennio dalla rivista Meridiana 44/2002, nella riedizione di alcuni scritti di M. Rossi Doria (La terra dell’osso, a cura di G.Acocella, Mephite 2003) La polpa e l’osso. Scritti su agricoltura, risorse

naturali e ambiente, a cura di M. Gorgoni, L’Ancora del Mediterraneo 2005), in numerosissimi articoli e

saggi.

19 Così ad esempio le presentazioni ufficiali tuttora presenti sul magistrale lavoro di ricerca che Henri

Desplanques svolge a partire dagli anni cinquanta per la sua tesi di dottorato (Les campagnes Ombriennes:

contributions à l’étude des paysages ruraux en Italie centrale, Paris,PUF, 1969).

20 Accanto a molte esperienze concrete di riscoperta, spesso faticosa, delle aree interne come luoghi di

vita e di produzione, e dalle teorizzazioni compiute a questo riguardo da molti dei fondatori della Scuola territorialista (in particolare G.Dematteis, M.Quaini, R.Pazzagli), un ruolo importante va riconosciuto al lavoro teorico e politico di Fabrizio Barca, a partire da An Agenda for a Reformed Cohesion Policy A place-based approach to meeting European Union challenges and expectations, April 2009

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metropolitane e nei centri maggiori21, e dunque a promuovere l’abbandono

delle aree marginali, che si vanno progressivamente allargando.

Gli indizi di una controtendenza non soltanto simbolica sono tuttavia numerosi, e assai interessanti. Non soltanto le aree interne e/o marginali alto- collinari e montane rappresentano infatti la gran parte della superficie del nostro paese, ma la loro fragilità è emblematica di una condizione che se caratterizza da sempre in modo peculiare l’Italia, in prospettiva appare in modo crescente ‘la’ sfida per l’intero pianeta.

Globalizzazione economica e cambiamenti climatici evidenziano con sempre maggiore urgenza la fragilità dei luoghi e dei loro mutevoli equilibri, con dinamiche demografiche, economiche, idrogeomorfologiche spesso polarizzate e difficilmente controllabili. Lo stesso terremoto, da questo punto di vista, rappresenta un evento estremo connesso alla fragilità idrogeomorfologica, che può produrre effetti assai diversi in conseguenza delle diverse modalità di organizzazione sociale. In senso lato, sono molti oggi i luoghi ‘terremotati’ dalle diverse dinamiche che generano fragilità.

Considerare ciascun luogo, nella propria unicità, come specifico patrimonio in grado di garantire la sopravvivenza, e leggerne il paesaggio come costrutto umano finalizzato a migliorarne la capacità di ospitare la vita, significa riconoscerne le potenzialità per il futuro, ma anche comprendere che una progettualità efficace si nutre di ciò che l’esperienza sedimentata nel patrimonio territoriale e nel paesaggio è in grado di trasmetterci.

Ciò presuppone ovviamente l’abbandono di una prospettiva puramente deterministica e funzionalista, rivalutando il ruolo della comprensione e dell’interpretazione. Come scrive Augustin Berque,

Per riprendere un’immagine utilizzata da Uexkuell, nella prospettiva dell’ambiente il vivente è considerato come una macchina, che reagisce per riflesso a degli stimoli materiali, mentre nella prospettiva del milieu è considerato un macchinista, che interpreta i segnali dando loro un significato. Il milieu è una questione di valori e significati, l’ambiente una questione di fatti e cause. Valore e significato presuppongono necessariamente un interprete,

21 Purtroppo il contributo fondamentale dato da F. Barca con l’impostazione di una Strategia nazionale

per le aree interne (SNAI) è stato tradotto operativamente in alcune limitate azioni di mitigazione alla continua erosione di servizi e opportunità, continuando a considerare le aree interne “aree insufficientemente sviluppate”, piuttosto che in un effettivo rovesciamento della prospettiva. Nel frattempo si è invece andando accentuando il divario, per la chiusura degli uffici postali e delle piccole banche del territorio, i tagli alla spesa dei Comuni che garantisce la manutenzione delle strade piuttosto che i servizi di scuolabus, la concentrazione dei servizi ospedalieri in pochi presidi territoriali, la riduzione o soppressione dei servizi ferroviari (linee e stazioni) sulle tratte secondarie, in un avvolgimento perverso che riduce progressivamente ogni opportunità di rinascita per queste aree fondata sul ruolo dello Stato.

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vale a dire l’essere per il quale le cose hanno un certo valore e un certo significato.22

A questo complesso cambio di prospettiva, tuttora in corso e non privo di contraddizioni, i contributi pubblicati a seguire portano evidenze di casi concreti e riflessioni di ricerca che sollecitano ulteriori approfondimenti più sistematici. Numerosi passaggi metodologici e operativi che nella nostra piccola comunità culturale di territorialisti diamo per impliciti o consideriamo quasi scontati non lo sono affatto nella prassi delle politiche istituzionali maggioritarie, né nell’orizzonte degli scenari politici tratteggiati dai partiti o dai loro think tank per il futuro dei nostri luoghi e della loro democrazia.

L’importanza di una visione collettiva del paesaggio e del patrimonio capace di combinare conoscenze e rappresentazioni esperte con le conoscenze e rappresentazioni contestuali è ad esempio un tema molto trattato, esplicitandone anche alcune conseguenze solitamente trascurate, ovvero la necessità di mantenere la visione collettiva anche quando si passa alle realizzazioni, gestendo operativamente dei finanziamenti. La cornice che sta a monte, fondamentale da ricordare, è tuttavia quella che mette al centro della programmazione (e del discorso politico, praticando un minimo di coerenza fra i due momenti) la cura del territorio anziché concentrare l’attenzione (e la spesa) su mirabolanti progetti di trasformazione. Nulla di nuovo, anche rispetto al terremoto, ricordando la conservazione programmata dei beni culturali proposta ormai più di mezzo secolo fa da Giovanni Urbani23,

riprendendo il concetto di “restauro preventivo” introdotto anni prima da Cesare Brandi nelle sue lezioni tenute all’Istituto Centrale di Restauro24.

Rispetto a questi importanti precedenti cambia tuttavia l’oggetto di riferimento: non più i beni culturali, bensì il paesaggio, il territorio che lo sottende, il luogo in tutta la sua complessità. La conoscenza di ciò che costituisce patrimonio, e va quindi curato e manutenuto, è necessariamente incrementale, non è data una volta per tutte.

È evidente come questa complessità richieda ‘visioni’ di futuro adeguate, costruite collettivamente, che includano anche il trattamento dei rischi. Troppo spesso si risolve invece in una piena ‘delega’ ai soggetti istituzionali, che manifestano ahinoi, in molti casi concreti, un’evidente ‘irresponsabilità istituzionale’. I disastri costituiscono da questo punto di vista l’occasione per esautorare ulteriormente le comunità locali dalle decisioni che riguardano il loro territorio di riferimento.

22 BERQUE A. (2017), Là, sur les bords de l’Yvette, Édition s Éoliennes, pag.71 (traduzione dell’autrice). 23 URBANI G. (1973) Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria.

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Il riconoscimento della forma (e della relativa estensione) del territorio di vita è peraltro essenziale anche per poter esercitare appieno e con maggiore consapevolezza forme di democrazia (anche rappresentativa). Rimane la difficile questione di come pretendere, e poi praticare, democrazie dei luoghi capaci di rispondere positivamente a questa necessità, sempre più drammaticamente evidente25, il che va tuttavia ben oltre il tema trattato.

È implicito, ancorché evidente, che usando il termine ‘comunità’ non si fa riferimento a comunità ‘originarie’, bensì a comunità di (cura del) patrimonio e comunità di progetto, solitamente variegate e complesse, ibridanti ma non sostitutive del ‘locale’, e in ciò spesso innovative. Nel momento in cui il progetto non consiste nell’allocazione di funzioni, ma nella valorizzazione del patrimonio, la violenza dell’imporre una destinazione d’uso non basta più, essendo invece fondamentale la collaborazione attiva, corale26, di almeno parte

della comunità.

Relativamente al ruolo degli attori rispetto ai luoghi, sono interessanti le considerazioni emerse circa il ruolo degli attori interni ed esterni. Ribadendo quanto sia importante che il desiderio e l’iniziativa di migliorare la conoscenza del patrimonio territoriale locale nasca dal basso e dal luogo, coinvolgendo soggetti anche esterni in grado di dare contributi significativi, è stato sottolineato come non vada tuttavia dimenticato il potenziale di soggetti esterni attivatori, ‘enzimi’ capaci di assumere ruoli analoghi a quello svolto in Sicilia da Danilo Dolci. Spesso è la contemporanea internità/esternità di alcuni soggetti chiave a rivelarsi fondamentale per attivare e portare a compimento un percorso di patrimonializzazione del territorio.

Rispetto infine al ruolo crescente dello spazio digitale della comunicazione, anche in riferimento a luoghi e territori specifici che vi sono comunque indirettamente e direttamente rappresentati, va notato come oggi le geografie digitali trattino generalmente i luoghi, e i loro abitanti, come soggetti passivi. La maggior parte delle rappresentazioni sono infatti costruite a mezzo di flussi quantitativi trattati da algoritmi. A fronte di questa tendenza vi è tuttavia, ancora sottovalutata, la possibilità di costruire geografie digitali che vedano gli abitanti come soggetti attivi delle stesse. Praticare questa possibilità sarebbe utile e importante nella prospettiva di costruire conoscenze comuni e visioni condivise del patrimonio territoriale di vita e dei paesaggi praticati.

È stato infine sottolineato da più d’un contributo come, essendo stati trattati numerosi casi di iniziative intraprese all’interno di aree designate quali

25 A questo tema è dedicato il convegno annuale SdT 2018, Castel del Monte 15-17 novembre.

26 Riprendendo la metafora della coralità produttiva, e del “territorio come soggetto corale” da

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Parchi nazionali o regionali, questi appaiano come luoghi particolarmente adatti a sviluppare progetti pilota di costruzione/ricostruzione di comunità intorno a progetti di valorizzazione durevole del patrimonio territoriale e paesaggistico. Sempre che non prevalga l’ambientalismo negazionista del territorio e del paesaggio dell’abitare umano, visto sempre e comunque come minaccia all’orso o ad altre specie animali, anche quando si propone soltanto di ripopolare i borghi montani abbandonati.

Patrimonio territoriale e paesaggio non sono soltanto costrutti culturali, ma nemmeno dati oggettivi né ambiente originario. È il loro carattere ibrido a renderli due concetti così interessanti, e ancora da metabolizzare pienamente nella loro effettiva portata.

Il titolo stesso di questo laboratorio testimonia un profondo cambiamento nella cultura del paesaggio, da percezione estetica riferita a un’area limitata al territorio complessivo dei mondi di vita, testimoniando una sua nuova centralità nel governo del territorio, destinata a modificare la stessa forma e il ruolo della pianificazione territoriale27.

27 Vedasi MiBACT, Rapporto sullo stato delle politiche per il paesaggio, Roma 2017, in particolare A.Barbanente e

A.Marson, “3.1.3 La recente pianificazione paesaggistica: forma, processi, contenuti” e “3.1.4 Il rapporto con le norme regionali di governo del territorio”.

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Scenari di ricerca, innovazione, pianificazione, valorizzazione

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