• Non ci sono risultati.

Una riflessione in merito alle dinamiche di musealizzazione dell’atelier di Brancus

LA VALORIZZAZIONE MUSEOGRAFICA DELLE DIMORE STORICHE E DEGLI STUDI D’ARTISTA

2.3. Ricostruzione dell’atelier d’artista in contesti diversi da quello originario 1 Il caso dell’atelier di Brancusi a Parig

2.3.3. Una riflessione in merito alle dinamiche di musealizzazione dell’atelier di Brancus

L’atelier per Brancusi, come si è visto, rappresentava molto più di uno spazio fisico: costituiva infatti l’elemento fondamentale della sua produzione artistica, oltre che la cornice ideale all’interno della quale le opere trovavano la giusta dimensione. Avendo di fatto trasformato il suo atelier in una galleria espositiva, obiettivo a cui si dedica con

175 “Entretien avec Germain Viatte”, in L'Atelier Brancusi, 30 janvier 1997: Réouverture de L'Atelier

maggiore assiduità soprattutto negli ultimi anni della sua vita, Brancusi ha rappresentato nel tempo un esempio importante anche per altri artisti. È il caso ad esempio di Daniel Buren, il quale, come si è visto, definisce lo scultore romeno come l’unico artista che ha avuto la lungimiranza di comprendere a fondo le dinamiche tra il luogo di produzione e quello di esposizione: «[Brancusi] is the only artist who, in order to preserve the relationship between the work and its place of production, dared to present his work in the very place where it first saw light, thereby short-circuiting the museum's desire to classify, to embellish, and to select. The work is seen, for better or worse, as it was conceived. Thus, Brancusi is also the only artist to preserve what the museum goes to great lengths to conceal: the banality of the work».176

L’atelier non è quindi un semplice ambiente di produzione ma anche un luogo di concezione del lavoro che cambia di pari passo col mutare delle opere stesse. A tal proposito la studiosa Raluca Cristina Sarǎu sostiene che «d'une certaine manière, l'atelier change avec chaque oeuvre en cours. Il n'est pas seulement un espace tout simplement utile où on travaille; l'atelier devient le coeur même où se déploie l'oeuvre comme outil, une des aires où s'expérimente le non encore connu, l'inattendu de chaque oeuvre; il participe ainsi d'une interrogation sur la réalité de la sculpture, il cristallise l'engagement de l'artiste et devient ainsi un paradoxe actif».177

Essendo spazio vivo e dinamico, in continua evoluzione, non è azzardato posizionare l’atelier di Brancusi sullo stesso piano delle sue opere, come una sorta di proiezione ed estensione della sua attività artistica.

176 D. Buren, “The Function of the Studio”, trans. by T. Repensek, in October Vol.10, Autumn, 1979, pp.

56-58.

177 R.C. Sarǎu, “L'atelier Brancusi – de l'espace privé à l'espace public”, in Communication and

Queste considerazioni lasciano dunque intuire come qualsiasi opera di ricostruzione dello studio di Brancusi in un luogo diverso da quello originario, per quanto il più possibile fedele, non potrà mai comunicare realmente il senso che l’atelier rivestiva per lo scultore.

Lo scopo della ricostruzione di Renzo Piano voleva essere quello di riprodurre, in maniera quanto più prossima alla realtà, l’ambiente e il clima che si respirava nell’ormai abbattuto atelier di Brancusi. In riferimento al lavoro effettuato da Renzo Piano, Viatte sottolinea come l’architetto abbia lavorato minuziosamente per ricreare quel clima di mistero e di fascino che si respirava nell’atelier Brancusi, lavorando sulle luci, sulla distanza e sulla trasparenza.178

Tuttavia, contrariamente alle aspettative, la ricostruzione dello studio di Impasse Ronsin si presenta ripulita di tutti gli elementi che lo caratterizzavano luogo vissuto, consumato dal tempo e dal lavoro. Niente vetri riparati, crepe nei muri, polvere adagiata o attrezzi sparsi nel nuovo atelier di Brancusi. Tutto appare lindo e immacolato, cristallizzato all’interno di quelle teche che suggeriscono una dimensione aspaziale e atemporale dalla quale emerge una sensazione quasi sacrale. Eppure, come osserva il filosofo Stefano Catucci, «Se c’è qualcosa di vero nella definizione della scultura come “arte del levare”, le polveri e i resti del materiale sono una parte integrante del processo creativo, posare gli occhi sui quali equivale a un atto di indiscrezione. Nell’atelier di Brancusi la polvere era bianca come il marmo o dorata come la limatura del bronzo».179

178 “Entretien avec Germain Viatte”, in L'Atelier Brancusi, 30 janvier 1997: Réouverture de L'Atelier

Brancusi, Centre Georges Pompidou, dossier de press, Paris, 1997, p.8.

179 S. Catucci, “La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell’opera d’arte” in D. Fonti,

R. Caruso (a cura di), Il museo contemporaneo: storie, esperienze, competenze, Gangemi Editore, Roma, 2012, p. 60.

La polvere, generalmente intesa come fattore di disturbo, in questo caso appare come il segno e la testimonianza di un processo creativo in svolgimento, del quale tuttavia non si trova più traccia nell’odierna musealizzazione: «insieme alla polvere e agli odori – continua Catucci – svanisce subito anche la povertà di quegli spazi, una caratteristica che non va intesa come vezzo clochard, ma come espressione di una condizione creativa […]. La povertà abbandona l’atelier musealizzato non solo perché questo viene restaurato, messo a norma, medicalizzato, ma perché ne viene meno la funzione euristica, il suo essere intimamente solidale con una strategia di lavoro e di invenzione. […]. La povertà è il segreto che appartiene strutturalmente agli ateliers, finché sono vivi».180

D’altro canto Renzo Piano ha dichiarato, in un’intervista rilasciata in occasione dell’apertura del museo, che era impensabile riprodurre pedissequamente le medesime condizioni dello studio di Impasse Ronsin, il quale sorgeva in un’epoca diversa e in un quartiere estremamente differente rispetto all’attuale. Lo scopo dell’operazione non era quindi quello di copiare una situazione impossibile da replicare ma di restituirne piuttosto l’atmosfera e l’identità.181

Tuttavia se è vero che sia la polvere che la povertà, se istituzionalizzate e quindi musealizzate, perdono il loro fascino e il loro valore simbolico, è anche vero che una volta venute a mancare la loro assenza è avvertita al pari di quella dell’artista.

Non potendo riprodurre lo stato di usura dell’atelier, Piano segue, con lo scopo di interpretare al meglio la volontà dello scultore, il concetto di “visione di insieme”, progettando un allestimento in cui i pezzi, sia quelli finiti che quelli non finiti, si presentano nelle loro stanze, nella stessa identica posizione in cui li aveva lasciati

180 Ibidem

181 “Entretien avec Renzo Piano”, in L'Atelier Brancusi, 30 janvier 1997: Réouverture de L'Atelier

Brancusi. Posizione dettata da una serie di valutazioni che tengono conto della distanza, della luce e del risultato nel complesso, ovvero di quel linguaggio che si instaura tra opere e spazio ma che, ad ogni modo, finisce con l’annientare quel senso di “work in progess” che caratterizzava lo studio dell’artista.

Nel coniugare la necessità di rispettare la volontà di Brancusi con il bisogno di restituire una musealizzazione quanto più possibile dignitosa, Piano punta tutto sulla ricerca di degli equilibri generati dalle opere, prese singolarmente e nella loro visione di insieme, in modo tale da richiamare quel paesaggio interiore.182

Se lo storico dell’arte Paolo Balmas descrive questa distanza come una sorta di senso di irrealtà e frustrazione che rappresentano «il giusto prezzo da pagare»183 per una

ricostruzione che come sottolineato da Buren, oltre a non essere mai stata richiesta da Brancusi è addirittura peggiore delle precedenti,184 Albrecht Barthel da un giudizio

impietoso sul risultato finale di questa reinterpretazione dell’atelier che, a suo avviso, si presenta in maniera atemporale e dunque non in linea con lo spirito dell’artista che tutto voleva tranne che rinchiudere le sue opere in un ambulacro esterno.185

182 Ivi, p. 7.

183 P. Balmas, “Atelier Brancusi”, in A. B. Oliva, Musei che reclamano attenzione. I fuochi dello sguardo,

Gangemi Editore, Roma, 2005, p. 155.

184 «In leaving his studio to the French state he decided to keep the very lively aspect of the artist in the

studio where the work was most comprehensible. He wanted to show that it is this site where the work is most readily understood. It is where you speack with the artist and see the environment where he creates. In the case of the Brancusi studio, in its first incarnation, you had a conceptual totality as designated by the artist rather than a reconstruction that was never requested by him, as happened later when the studio was recontructed outside the Centre Pompidou in 1977 and again and even worse in 1997.». D. Buren, “The Function of the Studio Revisited: Daniel Buren in Conversation”, in M. J. Jacob, M. Grabner (eds.), The Studio Reader. On the space of Artists, The University of Chicago Press, Chicago, 2010, p. 165.

185 A tal proposito Barthel sostiene che “The most recent trial is a radical reinterpretation of Brancusi’s

studio, dwelling, and artwork. It casts the installation as something timeless, as far removed from its origin as from its decay. In this iteration, there are no intrusions on substance, but Brancusi’s artistic intentions are rendered null, since he never intended for his sculptures to be viewed from an outside

Le differenze tra i due atelier sono percepite come più evidenti da quanti hanno potuto visitare entrambi gli studi, l’originale e quello ricostruito. Emblematiche a tal proposito sono le parole del pittore Jacques Herold, il quale sostiene che la ricostruzione dello studio sia alquanto diversa dall’originale «[…] which did not exude the same power, the same intensity. Brancusi’s studio was very old, the ground only soil, the walls partly damaged and dissolving» e quelle dello scultore François Lalanne: «[…] that is absolutely ridiculous and not in his sense. Brancusi himself never thought of reconstruction. He wanted his studio to remain on its original site…that there would be an artistic colony, with his studio as the center».186

Nonostante si sia cercato di ricostruire l’atmosfera di Impasse Ronsin, anche tramite l’inserimento del giardino antistante o dei lucernari sul tetto per produrre l’illuminazione naturale, così come la possibilità di ascoltare la musica jazz e folk preferita dallo scultore mentre si percorrono gli ambienti della struttura, il distacco tra l’atelier originale e la sua ricostruzione è quanto mai evidente: si è passati da un luogo dinamico e in continuo mutamento a uno spazio estremamente rarefatto e ordinato che nulla, o poco, conserva di quella carica energetica tanto cara all’artista. I moderni sistemi di esposizione hanno condizionato le logiche di allestimento, neutralizzando di fatto il contesto in favore di una valorizzazione delle singole opere anche laddove si tratti di prove, bozzetti e non finiti. E dunque oggi il museo appare come una sorta di eterno mausoleo volto a celebrare passivamente la figura di un artista. A questo bisogna aggiungere inoltre che la sua gestione è stata completamente affidata al Centre Pompidou il quale l’ha relegato a una sorta di lato B della visita integrata all’istituzione museale.

ambulatory”. Cfr. A. Barthel, “The Paris Studio of Constantin Brancusi: A Critique of the Modern Period Room”, in Future Anterior, N°III, 2006, p. 42