Capitolo 5 La scrittura autobiografica e l’operatore sociale: tra cura d
5.1 Scrittura e operatore: scrivere di lavoro sociale
Nell’introdurre questa ultima parte trovo personalmente importante interrogarmi sull’uso della scrittura per le professioni di aiuto e fornire alcune considerazioni e spunti di riflessione che saranno di seguito sviluppati nel corso del capitolo, focalizzando lo sguardo in particolare sulla scrittura di sé “per” l’operatore sociale. Lo scrivere di lavoro sociale, come primo nodo.
Non è vero, asseriscono Francesca Merlini e Teresa Bertotti, che gli operatori sociali scrivono poco. Da assistente sociale con esperienza decennale non posso che confermare: la produzione scritta non manca di certo nell’attività quotidiana della professione. Lettere, comunicazioni a utenti, colleghi, enti ed istituzioni, richieste, resoconti di attività, schede di rilevazione, registrazioni sulle cartelle, programmi, relazioni sociali e per le Autorità, annotazioni e appunti, verbali, progetti, abbondano nella prassi quotidiana. La documentazione professionale è uno strumento essenziale dell’agire di ogni giorno. Spiace constatare che con meno frequenza gli operatori sociali cercano, per contro, di trasmettere a terzi attraverso la scrittura quanto emerge dall’operatività quotidiana sottoforma di nodi e riflessioni308.
Lo scrivere del proprio lavoro può rappresentare per l’operatore sociale/assistente sociale/educatore una maniera definita, voluta e ricercata, per poter legare maggiormente pensiero ed azione, valorizzare ed analizzare il proprio ruolo e valutare il proprio agito. L’elaborazione scritta di contenuti, spunti, legati al lavoro aiuta anche il professionista dell’aiuto a far propri e rivisitare alcuni strumenti e tecniche di lavoro senza applicarli in maniera meccanica, cercando di considerare e trattare ogni situazione come unica, con uno sguardo aperto, curioso.
Scrivere di lavoro sociale inoltre, permette di ricucire un po’ di più quella linea immaginaria che separa chi pensa - da chi fa, chi pianifica - da chi esegue.
Riferendosi nello specifico all’assistente sociale, Martini e Bertotti sostengono che: “Ricostruire e riaffermare la dignità di un sapere che connetta costantemente teoria e pratica, costituisce il fondamento per rafforzare e sviluppare un corpus di conoscenze specifiche del servizio sociale […] in un processo di carattere circolare, che passa sostanzialmente attraverso la rielaborazione e la riflessione sull’esperienza”309. La
308 Merlini F., Bertotti T., Scrivere nel lavoro sociale, in Prospettive Sociali e Sanitarie n.2/2009, pagg. 1-2. 309 Ibidem, pag. 2. (Qui le autrici fanno riferimento al pensiero di Donald Schön. Per una approfondimento: Schön
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circolarità tra teoria e pratica è un aspetto da valorizzare all’interno del servizio sociale, come anche in campo educativo e formativo, laddove permette di ricavare
dall’operatività un apprendimento, una guida e un sapere a cui far riferimento per
affrontare nuove situazioni anche in contesti diversi.
La scrittura sul/del proprio lavoro facilita tali riflessioni, rielaborazioni e si può
affiancare alle consuete forme di documentazione professionale, che invece rappresentano scritture più strumentali, funzionali, strutturate e meno personali. Spingersi oltre alle scritture richieste e dovute come professionisti dell’aiuto, cercando di riosservare e rielaborare esperienze lavorative concrete, mettendo nero su bianco idee, contraddizioni, possibilità, pensieri legati ai processi lavorativi, può essere un valido aiuto, sia per ricavare nuove conoscenze dalla pratica lavorativa, sia per assumere sguardi diversi, generare prospettive inedite, anche in modo creativo rispetto quello che già si conosce. Avvicinando per esempio varie situazioni affrontate al fine di cercare analogie, differenze, porre questioni, sollecitare approfondimenti, tentare astrazioni utili alla riprogettazione. Come insegna Bateson, la conoscenza deriva anche dal percepire e interrogarsi sulle differenze.
Scrivere del proprio lavoro può aiutare il professionista, nello scrivere e nel rileggere, a prendere coscienza del modo in cui egli si rapporta a teorie e approcci di
riferimento. In prospettiva, può stimolare la redazione, l’articolazione, la produzione
di personali riflessioni sulle questioni professionali che nella routine quotidiana non trovano adeguati spazi. Elaborazioni da poter, perché no, aprire anche al confronto con colleghi dell’organizzazione o condividere con la comunità professionale.
Pensare al nesso teoria/pratica per chi si occupa di un lavoro di cura serve, da un lato, per non applicare in modo passivo teorie e metodi nell’azione, dall’altro per evitare quel distacco (spesso frequente e consapevole) dagli impianti teorici e metodologici della professione che porta a privilegiare, giustificati dalle condizioni stringenti, solo l’aspetto operativo, contestuale, spesso emergenziale, del proprio lavoro.
Al di là dei tempi lavorativi compressi e delle difficoltà oggettive a ricavare nel
quotidiano momenti e spazi per scrivere quello che si fa, come lo si fa, perché lo si fa,
mi pare interessante riportare quanto affermano Merlini e Bertotti rispetto ai possibili momenti in cui un operatore sociale, nel corso dell’esperienza professionale, può sentire il bisogno di scrivere del/sul proprio lavoro. Nei primi anni, sostengono le autrici, la scrittura si accompagna più facilmente alla comprensione del ruolo, dell’utenza del servizio, delle modalità relazionali; lo scritto sedimenta consuetudini, costruisce mappe, fissa e rafforza rapporti interorganizzativi. È una scrittura legata all’apprendimento che viene dalla pratica.
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Dopo qualche anno di lavoro, una volta stabilizzata un po’ di più la dimensione del
saper fare, l’operatore acquista più sicurezza nel ruolo, ponendosi con meno assillo
domande sul fare, e sul fare bene, nella pratica. Secondo le autrici, “si instaura una solidità non solo nell’area del saper fare ma anche in quella del “sapere” e del “saper essere”310. In questa fase, la spinta allo scrivere, data dalla consapevolezza di sapere, potrebbe stimolare il professionista a spiegare, argomentare, comunicare ad altri le proprie ragioni, le ipotesi che lo guidano, nelle esperienze e nelle azioni. A mio avviso anche il contesto in cui opera, il grado di dimestichezza e la capacità di organizzare il pensiero in una produzione scritta, il legame con la formazione permanente, giocano un ruolo altrettanto determinante, in questa fase più esperta/matura, per lo stimolo a fissare elaborazioni, riflessioni, considerazioni o approfondimenti del/sul proprio lavoro sulla carta.
Questo insieme di osservazioni mi sembra di particolare interesse anche perché ricorda che la scrittura per un professionista della cura non si riduce ad un’azione di documentazione meramente descrittiva, esplicativa di situazioni e condizioni che si illudono di fotografare la realtà nel riportarla, come meri esecutori. Il prodotto della scrittura del lavoro professionale è una produzione che incrocia diverse dimensioni dell’operatore (personali, etiche, deontologiche, organizzative, cognitive, emozionali), una costruzione complessa di saperi di cui tener conto.
Da un confronto con la letteratura in materia emerge che la sana abitudine di scrivere della/sulla pratica professionale viene ritenuta in grado di portare effetti positivi sia
al singolo operatore che al contesto organizzativo in cui lavora: un atteggiamento
più riflessivo, competenze di analisi/lettura della realtà per proposte e progettualità future, maggior sensibilità nelle relazioni con soggetti esterni, consapevolezza dell’ottica parziale con cui ci si rapporta alle problematiche del contesto, maggior cura nella tenuta della documentazione, competenze comunicative. Anche quando i contenuti delle scritture professionali riguardano tematiche controverse, formulazioni critiche o innovative, se condotte con scopi costruttivi, si può affermare che possano costituire una fonte di apprendimento per il servizio in questione o per il contesto interorganizzativo più ampio. Se poi quanto elaborato dall’operatore sociale assume la forma di una scrittura divulgativa e di comunicazione esterna, può rappresentare altresì un’occasione per valorizzare la professione, o quella che Wenger definisce comunità di pratica. Infine, scrivere di lavoro sociale procura effetti positivi e stimativi all’operatore stesso, alimenta l’energia per la professione, il proprio senso di idealità, può rafforzare il legame comunitario e lo scambio con i colleghi. Proprio a
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questo riguardo molte sono le iniziative sviluppatesi negli ultimi anni, anche attraverso il web311: spazi virtuali per un confronto con o tra professionisti, siti dedicati al lavoro sociale, educativo, psicologico, di cura; creazione di forum, chat, blog; spazi per pubblicare approfondimenti, articoli o rivolgere domande, e recentemente, infine, la costruzione di pagine professionali attraverso i social media. Dopo questa panoramica introduttiva, proviamo ora ad immaginare quando la scrittura in cui si impegna l’operatore non riguarda solo il lavoro sociale, educativo o di cura esercitato nel quotidiano, ma coinvolge la dimensione personale di chi svolge quella professione. Veniamo dunque al punto focale di questo capitolo che, nel considerare il nesso tra scrittura ed operatore, richiede un passaggio ulteriore: dallo
scrivere nel/del/sul proprio lavoro, allo scrivere di sé nel/sul/per il proprio lavoro. L’operatore sociale e la penna autobiografica.