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Sindrome di alienazione parentale: la vittimizzazione secondaria della

3.2 Quando la donna vittima di violenza è anche madre

3.2.1 Sindrome di alienazione parentale: la vittimizzazione secondaria della

Dopo un iter burocratico, spesso protratto nel tempo, il giudice sentenzia che il minore sia affidato ad entrambi i genitori; nessuna remore dall’assistente sociale che ha esposto la relazione: il bambino per una crescita sana ed equilibrata necessita della presenza di entrambe le figure genitoriali. Considerando la violenza pregressa agita (dal padre del bambino) sulla donna, il giudice in accordo con i servizi sociali affinché il rapporto tra il genitore e il figlio possa ristabilirsi e rafforzarsi, in un primo momento predispone in un ambiente neutro e con educatori scelti all’occorrenza gli incontri

protetti116. La donna (vittima per anni del maltrattamento) viene obbligata ad

ottemperare alla decisione del giudice; non è raro le venga (anche) intimato di non ostacolare gli incontri con il padre inducendo nel minore paura o reticenza nell’incontrarlo. Alla “vittima” della violenza viene dato un ruolo fondamentale di tramite: un “ponte”. La donna stenta a credere che debba facilitare i rapporti tra il figlio e lo stesso uomo che per anni ha agito su di lei violenza; ritiene di essere stata tradita dalle promesse fatte, non riesce a comprendere come tutti gli sforzi per salvare sé stessa e il bambino da quell’uomo in realtà siano stati vani. Le operatrici dei centri antiviolenza trovano difficoltà nel concepire come venga compiuta una tale decisione:

116 Il novello documento sui Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita evidenzia

come “Particolare attenzione va posta all’opportunità dell’attivazione e della tempistica degli incontri protetti tra vittime di violenza assistita e il padre che agisce violenza, valutando attentamente il rischio psico-fisico per i figli[…] devono essere subordinati alla precedente valutazione delle condizioni del minorenne, e attuati in maniera tale da garantire una effettiva protezione fisica e psicologica per evitare ritraumatizzazioni e vittimizzazioni secondarie” (Cismai, 2017); in realtà sebbene tali indicazioni fossero presenti anche nell’edizione precedente, nella pratica non vengono adottate.

71 sono coscienti che in questo modo la donna diventa soggetta ad una vittimizzazione

secondaria.

La situazione in molti casi però può essere foriera di ulteriori complicazioni; l’uomo accusato solo della violenza agita sulla moglie/compagna, considerato come padre figura “ineccepibile” per la crescita dei figli, non è a conoscenza di come in realtà anche lo stesso bambino sia una vittima del suo comportamento: in tutti gli anni di violenza perpetrate ai danni della madre era spettatore. Sebbene una percentuale di uomini sia al corrente dei danni provocati sui figli, una buona parte di essi difatti è all'oscuro delle conseguenze che la violenza agita sulla figura di riferimento possa avere sui bambini; le istituzioni e chi è preposto a giudicare tali comportamenti, se privi di una adeguata formazione sulle modalità in cui si estrinseca la violenza interpersonale e gli effetti prodotti su ogni membro, possono correre anche il rischio di vittimizzare nuovamente la donna. Fattori degni di interesse, in grado di innescare un effetto domino117 e causare, se le condizioni risultano “favorevoli”, anche la trasmissione intergenerazionale della violenza.

Questa non è la sede per assoldare una “caccia alla strega”, divulgando chi sia il colpevole. Per l’obbiettivo stabilito118 ci si limita a sottolineare come l’uomo autore di

violenza difficilmente sarà reso in grado di modificare il proprio comportamento se chi

è preposto a giudicarlo, “colpevolizzarlo” non possiede le “capacità” per imputargli gli errori commessi e non dispone degli strumenti per imporgli119 un percorso finalizzato alla valutazione e all’eventuale recupero delle capacità genitoriali. L’assenza di un’accusa sull’inadeguatezza nell’essere padre, non ritenendo il comportamento agito motivo di sofferenza per il figlio, rende difficile accettare che il bambino non mostri affetto nei suoi confronti, sia reticente o non voglia incontralo120.

Non sono rari i racconti delle donne o delle educatrici testimoni delle urla dei bambini

117 Terminologia presa dal progetto “PANGEA Onlus, Una barriera per fermare l’effetto domino della

violenza domestica sui minori: esperienze e linee guida, Roma, 2014”

118 Comprendere perché la maggior parte degli uomini non provi neppure a modificare il proprio

comportamento, peggiorando sempre più e soprattutto perché i figli crescendo possono presentare gli stessi agiti.

119 L’aspetto giuridico, le norme sottese alla fattispecie presentata saranno oggetto di studio nel par. 3.4 120 Ipotesi plausibile, derivante dalla consapevolezza che molti esperti del settore ne siano all’oscuro.

72 quando vengono accompagnati (con la forza121) agli incontri protetti con il genitore in questione. In questi casi il padre, negando la violenza commessa ai danni del minore, (spesso minimizzando quella agita sulla moglie/compagna) addossa la colpa del disagio rilevato nel bambino alla donna, sostenendo che sia la stessa a indurre il figlio a “ostacolare” gli incontri, adducendo di essere vittima di alienazione parentale.

A tal proposito risulta utile domandarsi cosa si intenda per alienazione genitoriale ed in particolar modo se la stessa sia stata riconosciuta in ambito scientifico.

La Sindrome da alienazione parentale, meglio nota come PAS (Parentale alienation

syndrome) viene “ideata” in America da R.A Gardner; già nel 1985 lo psicologo dopo

aver svolto alcuni studi e analisi sul fenomeno ha tentato di definire il disturbo. Si ritiene sia riscontrabile nei casi di separazione/divorzio e in alcune situazioni potrebbe essere anche soggetta a false accuse di pedofilia nei confronti del padre non affidatario. Secondo lo psicologo forense, il genitore al quale venga affidato il figlio, spesso la figura materna, attraverso il “lavaggio del cervello” indurrebbe il bambino a ripudiare la figura paterna distruggendo progressivamente il rapporto padre-figlio; affinché sia svelato il piano architettato dalla donna, Gardner sostiene che i bambini debbano essere osservati in modo da poter rilevare gli effetti tipici delle vittime di PAS (Crisma.M. Romito.P, 2007).

Sono otto i sintomi considerati utili per comprendere l’esistenza della sindrome, quelli che meritano particolare rilevanza sono: un comportamento ostile messo in atto dal bambino nei confronti non solo del padre ma anche della sua famiglia d’origine122,

il fatto che il minore preferisca prendere le difese della madre e la creazione di una campagna denigratoria che vede il padre vittima della figura materna (Gardner, 2003a; 2002a., in Crisma. M, Romito.P., 2007).

Nonostante la gran mole di volumi che lo ha visto autore, la sindrome si è attirata molte critiche fino a non ottenere rilevanza scientifica e ad essere esclusa dal “manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali” (DSM) riconosciuto a livello mondiale.

121 “Nei casi in cui si evidenzi il “rifiuto del figlio” a vedere il padre, occorre valutare in prima istanza

l’ipotesi che esso sia dovuto alla paura conseguente all’aver subito e/o essere stato testimone di violenza agita dal padre stesso” (Cismai, 2017).

122 Di diverso avviso appare il documento sui requisiti minimi dove viene ricordato che “Attenta

valutazione e monitoraggio sono necessari anche rispetto all’opportunità o meno degli incontri con i parenti del padre perpetratore, nel rispetto della salute psico-fisica del/della minorenne.” (Ibidem)

73 Per sottolineare l’assoluta assenza di rigore scientifico pare utile ricordare come la stessa American Psychological Association (APA) non abbia voluto ritenerla degna di considerazione.

Se la Pas è stata valutata una giustificazione inappropriata, risulta utile domandarsi il perché alcuni tribunali ancora oggi durante i processi la ritengano affidabile e nel caso venga giudicata psicologicamente rilevante, quali siano le implicazioni per la famiglia. Due domande che risultano essere doverose per entrare nel merito della questione; per rispondere al primo interrogativo, al padre viene preclusa ogni possibilità di cambiamento data la mancanza di consapevolezza sugli errori compiuti, la donna subisce un’ulteriore vittimizzazione e al figlio/a viene negata una vita priva di violenza (sia nell’infanzia che nell’età adulta). Come la stessa American Psychological Association sostiene:

Le aule dei tribunali spesso minimizzano l’impatto dannoso che ha per i bambini assistere alle violenze tra i loro genitori e a volte sono restii a credere alle testimonianze delle madri123(APA, 2005).

Inoltre, se durante la valutazione sulla madre, il tribunale non pone attenzione al passato di violenza, il comportamento della stessa potrebbe apparire ostile, non cooperante e mentalmente instabile124.

Il giudice non avendo le conoscenze adeguate per decidere quale sia la scelta migliore per il minore, spesso si avvale della consultazione della c.t.u, acronimo comunemente usato per indicare la Commissione tecnica d’ufficio. Il compito del professionista incaricato è quello di valutare il comportamento della madre nei confronti della relazione padre-figlio e in caso di esito negativo, cercare di comprendere le motivazioni che vi sono sottese e la sua effettiva capacità nel facilitare il rapporto. Nel caso in cui la c.t.u sia una figura preparata (sugli effetti che l’assistere alla violenza commessa ai danni della figura di riferimento possa aver provocato nel bambino), sarà in grado di avanzare una valutazione concreta e rispondente alla situazione realmente vissuta dalla donna; risulterà in grado di considerare le motivazioni che impediscono la stessa nel rassicurare il figlio (intimorito dall’essere

123 Nostra traduzione 124 Nostra traduzione

74 lasciato solo con la figura paterna) e comprenderne anche il disagio mostrato dalla stessa, nel costringere il bambino ad incontrarlo contro il suo volere.

Il problemapuò sorgere nel caso (già avanzato) in cui il professionista, indicato per la valutazione delle capacità genitoriali materne, non sia formato sulla violenza domestica. In questo caso nella valutazione psicologica difficilmente sarà in grado di dimostrare come la reticenza del minore a instaurare un rapporto positivo con l’altro genitore possa essere l’effetto dell’aver assistito il padre percuotere e maltrattare la propria mamma.

I bambini hanno paura di stare da soli con un padre che hanno visto usare violenza nei confronti della loro madre oppure un padre che li ha abusati. A volte i bambini fanno capire chiaramente al giudice che desiderano restare con la madre perché hanno paura del padre ma i loro desideri vengono ignorati (APA, 2005)125.

L’APA ha sottolineato infatti come una valutazione che non tenga in considerazione l’effettivo timore del bambino e minimizzi la violenza agita sulla madre possa non solo accusare la stessa donna di alienare il minore dal padre, ma potrebbe anche indurre le figure preposte alla valutazione a giudicarla un genitore inadeguato perché, senza una motivazione idonea, impedisce la relazione tra il figlio e lo stesso padre; ad esempio

“potrebbe rifiutarsi di lasciare il suo indirizzo, oppure potrebbe opporsi a visite non sorvegliate se pensa che il suo bambino possa essere in pericolo”126(APA, 2005).

Inverosimilmente ci sono buone possibilità che il processo si concluda con la decisione di affidare il bambino esclusivamente alla figura paterna, implicando la decadenza della stessa donna dalla responsabilità genitoriale (Ibidem).

Sebbene non siano molti i processi in cui vedono indicato come prova decisiva “la

sindrome di alienazione” alcuni casi giurisprudenziali ci permettono di considerarne

l’eventualità. Tra le sentenze esistenti una in particolare si ritiene meriti attenzione perché, oltre a chiarire il fenomeno, presenta gli effetti sul minore e sulla donna; esiti devastanti senza considerare le conseguenze sullo stesso padre, al quale essendo precluso il superamento della “negazione” vanifica ogni possibilità di cambiamento.

125 Nostra traduzione 126 Nostra traduzione

75 Ci si riferisce alla sentenza numero 7041127 del 20 marzo 2013 della Corte di Cassazione (Sezione 1 civile), “goccia nel mare” perché dopo un iter iniziato nel 2009, nel 2013 la donna ha ottenuto giustizia.

Si riportano solo alcuni frammenti della sentenza, risultati maggiormente utili per acquisire conoscenze sui possibili danni provocati dalla “sindrome di alienazione parentale”:

con decreto del 2 ottobre 2009 pronunciava la decadenza dalla potesta' genitoriale della madre sul minore, che veniva affidato al servizio sociale del Comune di (OMISSIS), pur rimanendo collocato presso la stessa (OMISSIS), ivi residente. […] poiche' la permanenza del figlio presso la famiglia materna comportava un inasprimento della situazione patologica, gia' diagnosticata in precedenza dal consulente tecnico d'ufficio, e definita come "sindrome da alienazione parentale", il bambino doveva essere collocato in un ambiente diverso e maggiormente idoneo a favorire il riavvicinamento alla figura paterna.[…]il minore fosse affidato al padre ed inserito in una struttura residenziale educativa, prescrivendo la programmazione di incontri con entrambi i genitori, sulla base di uno specifico e dettagliato programma psicoterapeutico.

La corte di cassazione nel 2013 ha cassato il decreto impugnato dal padre del minore perché, tra le motivazioni addotte, viene rilevata l’assenza di rigore scientifico nella

PAS:

il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome o malattia; che si e' evidenziato che vari autori spagnoli, all'esito di una ricerca compiuta nel 2008, hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS e che, nel 2009, le psicologhe (OMISSIS) e (OMISSIS), la prima spagnola e la seconda argentina, hanno sostenuto, in una pubblicazione del 2009, che la PAS sarebbe un "costrutto pseudo scientifico". Nell'anno 2010, inoltre, la Asociacion Espanola de Neuropsiquiatria ha posto in evidenza i rischi dell'applicazione, in ambito forense, della PAS, non diversamente da quanto gia' manifestato nel 2003, in USA, dalla National District Attorneys Association, che in nota informativa sosteneva l'assenza di

127 Non si è dato sapere se in precedenza esistesse una situazione di violenza, l’interesse in questo

caso è osservare come la valutazione di inadeguatezza genitoriale sia stata confermata afferendo alla sindrome di alienazione parentale, soffermandoci sul fatto che l’essere ritenuta non valida scientificamente ha impedito ulteriori conseguenze nel minore e nella madre stessa.

76 fondamento della teoria, "in grado di minacciare l'integrita' del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittima di abusi"

Dalla sentenza si evincono chiaramente gli effetti che conseguirebbero in ambito forense se le venisse riconosciuta rilevanza scientifica.

Prendere coscienza degli strumenti ritenuti dallo stesso Gardner come i più appropriati per “guarire” dalla sindrome si crede possa superare (se presenti) le ultime perplessità sulla bontà del suo utilizzo.

Partendo dal presupposto che le madri alienanti siano propense ad essere seguite da altre donne (le quali mosse dalla misandria, risultano disponibili a credere a tutto ciò venga loro detto purché sia utile per screditare il mondo maschile), secondo lo studioso per scongiurare questa collusione, il giudice avrebbe il compito di impedire che i bambini siano valutati dalla stessa professionista indicata dalla madre. Secondo lo psicologo forense il nuovo terapeuta dovrebbe non solo mostrarsi autoritario con la madre, intimandole (nel caso ostacoli il rapporto padre-figlio) l’incorrere in sanzioni, modificazioni dell’affidamento, fino alla reclusione; nei confronti del minore la figura scelta “deve avere la pelle dura ed essere in grado di tollerare le grida e le dichiarazioni sul pericolo di maltrattamento” (Gardner,1999a; p. 201 in Crisma.M, Romito, P., 2007). In caso lo ritenga necessario è giusto che utilizzi qualsiasi espediente come possa essere anche il riferire al bambino che la madre resti chiusa in prigione finché lo stesso non accetti di vedere il padre e di relazionarsi con lui128 (Crisma.M. Romito.P, 2007).

Un sistema giurisdizionale inadeguato sia per non essere formato sulle implicazioni che la violenza domestica ha su ogni membro della famiglia, sia perché si avvale di figure professionali che, malgrado la non rilevanza scientifica, adottano la sindrome

di alienazione parentale come una motivazione valida, comporta effetti devastanti per

ogni soggetto implicato. L’uomo autore di violenza che nonostante il maltrattamento

128 Sebbene non sia aspetto rilevante per l’oggetto di studio risulta, utile ricordare come la” sindrome di

alienazione parentale” sia nata prettamente per dimostrare la falsità delle accuse mosse dalle madri “isteriche” e dai bambini stessi ai padri denunciati di essere pedofili e di abusare sessualmente sui figli. Nonostante siano molteplici le accuse mosse al fondatore, una in particolare merita particolare attenzione perché risulta utile per screditare ulteriormente il professore e la sua” scoperta”; nei suoi scritti come riporta anche Romito.P: “Le sue posizioni rispetto ai rapporti sessuali tra bambini e adulti sono molto ambigue[…]alcune sue affermazioni minimizzino le conseguenze dannose per i bambini e tendano a scusare gli abusanti e la pedofilia”. (Crisma.M. Romito.P, 2007)

77 agito sulla compagna viene ritenuto un ottimo padre e (non essendo consapevole degli errori e degli effetti sul bambino) sarà “portatore” dell’ereditarietà della violenza anche nel figlio; dall’altra la madre doppiamente vittima perché, dopo anni di maltrattamenti subiti dal marito/compagno, non solo non viene ascoltata nel suo dolore e nei suoi timori nei confronti del figlio ma nei casi peggiori essendo indentificata nel genitore “protettivo” viene sottoposta alla valutazione sulle capacità genitoriali fino ad essere considerata lei stessa una madre non adeguata, con il rischio di incorrere anche nel decreto di decadenza dalla responsabilità genitoriale.