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La genesi di una sceneggiatura. Un’analisi del processo di scrittura cinematografica visto dal suo interno: I primi della lista

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

La genesi di una sceneggiatura

Un’analisi del processo di scrittura cinematografica visto dal suo interno:

I primi della lista

TESI DI DOTTORATO DI RICERCA (S.S.D. L.-ART/06)

Candidato

Roan Occam Anthony Johnson Prof.ssa Alessandra Lischi Relatore

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Indice

Introduzione: rischio o opportunità?

1 Dalla realtà al racconto: il soggetto di Renzo Lulli (Sinossi del film)

1.1 I due approcci

1.2 I modelli di riferimento: fra l’eredità della commedia all’italiana e la fascinazione della non-linearità

2 Da persone a personaggi

2.1 Il protagonista Pino Masi

2.1.1 La doppia natura di Pino Masi 2.1.2 La caduta

2.1.3 Il fatal flaw di Pino Masi 2.1.4 Masi, le donne e il padre 2.1.5 Gli archetipi

2.1.6 L’archetipo del Mentore

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2.2.1 Lulli come punto di vista 2.2.2 Lulli e il tema del padre

2.2.3 L’arco di trasformazione di Renzo Lulli 2.2.4 Una trazione anteriore e posteriore 2.2.5 La fase di resistenza

2.2.6 Fra l’eroe e l’antieroe 2.2.7 Lulli leader

2.2.8 L’archetipo dell’Eroe... 2.2.9 … e dell’antieroe

2.3 Il protagonista Fabio Gismondi 2.3.1 L’idealizzazione del leader 2.3.2 Sfaldamento di un mito 2.3.3 Il figlio geloso

2.3.4 Il giudizio degli altri 2.3.5 Il complesso edipico 2.3.6 L’archetipo del trickster

3. I temi

3.1 La figura del padre 3.2 La fuga

4 Lo stile

4.1 Linearità vs non-linearità 4.2 L’inizio del film e i finali 4.3 L’uso della lingua e i dialoghi 4.4 L’attualità

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5 Il comico

5.1 L’equivoco storico

5.2 L’ “effetto Hitchcock” al contrario 5.3 La figura del perdente

6 Conclusioni

APPENDICI

a) La sceneggiatura de I primi della lista

b) La versione alternativa dell’inizio non-lineare c) Il soggetto/memoir di Renzo Lulli

d) Scheda tecnica del film e) La locandina

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Introduzione

Rischio o opportunità?

Perchè fare la tesi di dottorato su un film che ho scritto e girato in prima persona? Intanto perchè si tratta di un’occasione rara. Analizzare, in una tesi di dottorato, i meccanismi di un testo cinematografico dall’interno, con l’occhio di chi ha contribuito alla sua scrittura, non capita spesso.

Tuttavia, e soprattutto, era la cosa più naturale da fare: per nove anni ho studiato cinema all’Università di Pisa per prendere la mia laurea nel corso di laurea di Discipline dello Spettacolo e adesso il Dottorato di Ricerca – e da dieci anni ormai lavoro come sceneggiatore a Roma dopo il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Mi è venuto da provare a unire le mie due anime: quella di studioso e quella di sceneggiatore.

L’idea dirimente è quella di usare gli strumenti analitici per mettere ordine nel caos della scrittura collettiva di una sceneggiatura – un’operazione tutt’altro che asettica e scientifica, ma che vive dell’entusiasmo e degli scontri, delle tensioni interpersonali, dei problemi di budget e produttivi.

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Inutile far finta che non ci siano diversi fattori di disturbo che compromettono l’ideale limpidezza cui aspira ogni lavoro di analisi. Come dice Agenore Incrocci, lo storico partner di scrittura di Furio Scarpelli: «Mi accorgo che scrivere una sceneggiatura è più facile che scrivere come si scrive una sceneggiatura».1 Ma questi fattori spesso costituiscono anche la linfa

vitale del processo creativo e sono sempre filtrati, affiancati e reindirizzati dal lavoro razionale.

Premono, dunque, da una parte il caos della creazione, dall’altro il riordino del momento di sintesi – da una parte l'intuizione, dall’altra la razionalità.2

Questo binomio lo ritroveremo nel lavoro di ricerca che ho fatto: da una parte sono la persona che più di ogni altra ha vissuto questi sbalzi emotivi, dall’altra sono la persona che conosce meglio di tutti i passaggi avvenuti all'interno del magma creativo che ha portato alla sceneggiatura, e che li rielaborerà facendo leva sugli strumenti analitici acquisiti durante questo lungo percorso universitario.

Inoltre questa ricerca potrebbe convalidare un’altra ipotesi, e cioè che il percorso di analisi semiologica e storica che ho fatto durante gli anni accademici abbia influenzato la scrittura della sceneggiatura e di come la stessa scrittura della sceneggiatura influenzerà l’analisi di questa tesi. Da                                                                                                                

1 Age, Scriviamo un film, Net, Milano, 2004, p. 10.

2 Una parte di questo studio dovrebbe parlare anche dell’eventuale doppio binario intuizione/razionalità; però, eviterò di addentrarmi troppo nelle dinamiche psicologiche della creazione; piuttosto in quelle del lavoro, che ha più a che fare con l’analisi strutturalista del film, della ricomposizione dei temi, e appunto dei personaggi che sono (in questo caso specifico) trasformazioni di persone reali.

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questa sorta di feedback e di ricorsività fra creazione e analisi dovrebbero scaturire l’interesse e la specificità di questo lavoro.

C'è anche un altro motivo che spiega come sono arrivato a questa scelta, che è poi una delle ragioni che mi ha portato a scegliere I primi della

lista (2011)3 come mio esordio alla regia: si tratta di un film che ha vari tratti

di originalità nel panorama cinematografico italiano.

Intanto è una delle prime commedie che tratta un periodo teso e cupo della storia italiana e cioè quella linea di confine fra il ’68 e i cosiddetti “anni di piombo”. Ma (e questo per me è il vero interesse) lo fa senza ricorrere a una forzatura dell’immaginazione, a un lavoro “a tesi”, oppure a una trovata produttiva del tipo: “ora mi invento un film che sia una commedia sugli anni Settanta!”. Anzitutto lo fa perché racconta un episodio vero successo in quegli anni che, per sua stessa natura intrinseca, è un episodio buffo.

Già prima di lavorare sul soggetto e sulla sceneggiatura, la vera storia de I primi della lista era dotata di una sua intrinseca ironia. Perfino nella sua unità minima orale, cioè quando si racconta “questa è la storia di tre ragazzi di Pisa che, per paura di un colpo di stato, chiesero asilo politico all’Austria...”, c’è già in nuce tutta la sua natura di commedia.

E qui arriviamo al punto più originale del film, anche rispetto all’analisi accademica: questo è uno dei rarissimi casi di un film italiano che si presenta come una commedia tratta da una storia vera. Nel panorama del cinema

                                                                                                               

3 Il film è stato girato a fine 2010; è stato presentato al Festival del cinema di Roma 2011 ed è uscito nelle sale l’11 novembre 2011.

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italiano e non solo, l’essere “tratto da una storia vera” rimane, infatti, quasi a completo appannaggio di film drammatici4.

Mi sono poi sentito autorizzato a prendermi questo rischio oltre che dai diversi premi nazionali e internazionali che ha ricevuto il film soprattutto dalle numerose e pressoché unanimi critiche positive e approfondite che sono state scritte sul film dai più importanti critici italiani, da Mereghetti a D’Agostini per arrivare a Crespi, Ferzetti, Anselmi, Ciotta... tanto che, nella classifica aggregata della critica che compila il quotidiano La Repubblica, I

primi della lista è stato classificato come il miglior film italiano in sala per

diverse settimane di fila.5

                                                                                                               

4 L’elenco dei film tratti da storie vere potrebbe essere lungo forse quanto questa stessa tesi. Per i nostri fini, sarebbe utile dividerli almeno in due categorie che, anche se approssimativamente, riescono a descrivere la produzione principale: film storici che raccontano uno o più avvenimenti cruciali della Storia oppure di uno dei suoi protagonisti (per es. La caduta, 2004, sceneggiatura di Bernd Eichinger, regia di Oliver Hirschbiegel; El Alamein, 2002, sceneggiatura e regia di Enzo Monteleone; La notte di San Lorenzo, 1982, sceneggiatura di Tonino Guerra, Giuliani G. De Negri, Paolo e Vittorio Taviani, regia di Paolo e Vittorio Taviani, il quale, nonostante i tratti di originalità del racconto, può essere considerato un film storico) e film non-storici che raccontano fatti realmente accaduti ma che non fanno parte delle grandi vicende caratterizzanti di un periodo (per es. Erin Brockovich, 2000, sceneggiatura di Susannah Grant, regia di Steven Soderbergh; Alive, 1993, sceneggiatura di Pier Paul Read, John Patrick Stanley, regia di Frank Marshall; Una storia vera, 1999, sceneggiatura di John Roach, Mary Sweeney, regia di David Lynch). I primi

della lista si trova a metà fra questi due poli, perché racconta una vicenda privata reale, ma avvenuta nel

passato e fortemente contestualizzata, tanto che i personaggi, pur non essendone i protagonisti, interagiscono direttamente con la Storia. Film di questo tipo, che oscillano in un senso o nell’altro tra i due poli, sono: Schindler's List (1993, sceneggiatura di Steve Zaillian, regia di Steven Spielberg); I 100 passi (2000, sceneggiatura di Claudio Fava, Marco Tullio Giordana, Monica Zapponi, regia di Marco Tullio Giordana);

Cristo si è fermato a Eboli (1979, sceneggiatura di Tonino Guerra, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, dal

romanzo di Carlo Levi, regia di Francesco Rosi). Non è questo, però, abbiamo detto, il tratto di originalità maggiore del film. Se si va a guardare che aspirazione abbiano tutti i film citati, siano essi storici, o non storici o a metà fra quelli storici e non storici, si noterà che sono tutti film drammatici. Le ragioni di questa tendenza sono così complesse che richiederebbero, e forse sarebbe interessante, un filone di studi a sé stante. Tra i film che mi sono noti c’è una forse sola eccezione: Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975, sceneggiatura di Frank Pierson, tratta dall’articolo di P.F. Kluge e Thomas Moore, regia di Sidney Lumet): si racconta di una surreale rapina in banca avvenuta negli Stati Uniti nel 1972 e finita male. A eccezione del finale e in qualche altro momento ben equilibrato, il film tiene un registro da commedia probabilmente per lo stesso motivo de I primi della lista e cioè che il fatto stesso, per sua natura, si prestava a essere trattato in maniera comica e con ironia.

5  Cito degli stralci di alcune recensioni: “Una tragedia? Una farsa? Una denuncia politica? Ripercorrendo

con simpatia e partecipazione emotiva quei fatti Johnson riesce dove in molti non avevano nemmeno provato: cercare di sorridere di un periodo dove ironia e allegria erano risolutamente fuori legge. Ma senza buttare tutto in farsa, piuttosto cercando di far capire la complicazione mentale, se non proprio la confusione in cui si trovavano molti giovani. [...] La sorpresa delle ultimissime scene è la dimostrazione

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E’ chiaro che queste conferme oggettive di giudizio e di interesse e i riconoscimenti di tratti di originalità del film non cancellano le premesse di un percorso rischioso; d’altronde si vive in un tempo in cui l’orizzonte si sposta in là molto velocemente, e il confine fra analisi e scrittura diventa sempre più sfocato e interconnesso (basti analizzare la tendenza dei corsi di laurea in cinema nelle università, e dei ruoli come editor, lettori, se non di veri e propri “script doctor” che stanno popolando l’industria cinematografica).

Fra gli strumenti analitici che utilizzeremo, non si può prescindere da alcuni pilastri della narratologia: dalla Poetica di Aristotele,6 fino alle ricerche

fatte nell’ambito della ricerca del cinema francese7, e in particolare

anglosassone8 e italiana. Per ovvie ragioni di prossimità, è incalcolabile il

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              dell’onestà e della sincerità con cui regista e attori hanno raccontato quei giorni. Talmente veri da sembrare mitici” (recensione di P. Mereghetti, Corriere della Sera) “Un piccolo gioiello cinematografico. In un crescendo di assurdo e malinconico affetto per approdare ad un finale alla American Graffiti di sottile malinconia. Sempre con leggerezza poesia e intelligenza” (di Lusardi, Ciak); “Divertente e ‘genuinamente grottesco’, I primi della lista è una delle cose migliori viste al festival finora. Ridere di gusto per riflettere sull’ieri e sull’oggi, sui movimenti e le loro contraddizioni, sull’anelito alla fuga e la necessità di affrontare la realtà” (Greco, Paese Sera); “Nella sua comicità lieve e stralunata I primi della lista sembra la risposta extraparlametare a Vogliamo i Colonnelli, girato da Monicelli nel ’73: peccato che il grande Mario non conoscesse questa storia, era perfetta per lui. Ma Johnson italo-inglese cresciuto a Pisa, è degno di cotanto maestro e firma un film davvero insolito.” (di Crespi, L’Unità); “Riuscitissimo esordio alla regia […] e la precisione, l’umorismo, la sottile pietas con cui ricostruisce il clima le ossessioni di quell’epoca la dicono molto più lunga su quel periodo di tanti film ingessati e seriosi su quegli anni…” (di Ferzetti, Il Messaggero); “Atipico nell’attuale commedificio italiano, divertente ma non sciocco, che stuzzica la nostalgia senza sprofondarvi dentro.” (di Anselmi, Il Riformista); “Travolgente e sospeso sapientemente tra indulgenza amorevole verso gli ultimi residui di un’ingenuità ‘contro’ che ancora sopravviveva agli ottimistici anni 60, e implacabile riduzione a farsa grottesca di una stagione di velleitarismo rivoluzionario che avrebbe provocato danni gravissimi al futuro italiano” (di D’Agostini, La Repubblica); “I Primi Della Lista trasformano in oro il ‘piombo’ dei favolosi anni 70, e fa luccicare la stagione delle lotte operaie e studentesche con tenerezza humour e nostalgia. Nel tono da commedia morettiana, dialoghi e battute dolci-amare dei maldestri militanti si infiltra surreale la tragedia. Piccolo imperdibile film italiano.” (di Clotta, Il Manifesto).

6 Alcuni concetti del filosofo greco, in merito alla poesia e la tragedia, attraversano i secoli immutati, oppure si ripresentano in vesti nuove, grazie alle teorie della manualistica americana, a cui pure mi rifarò con le imprescindibili cautele, quelle necessarie a fronteggiare un approccio omologante e semplicistico. 7 In particolare mi interesserà utilizzare le figure attanziali di Greimas.

8 A parte l’imprescindibile riferimento di Branigan (Narrative Comprehension and Film, Routledge, London and New York, 1992), mi è stato molto utile all’inizio della mia ricerca il volume di Seymour Chatman (Story and

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valore delle ricerche di Lorenzo Cuccu a questa tesi. La raccolta di saggi curata assieme ad Augusto Sainati (Il discorso del film – visione, narrazione,

enunciazione, ESI, Napoli, 1988) forma la base più solida sulla quale mi sono

mosso in per tutte le questioni inerenti alla gestione del sapere filmico e del punto di vista.9

Oltre a quelli già citati, non mancheranno contributi specifici sul problema della sceneggiatura, in particolare di matrice statunitense, e studi più recenti, tra cui quelli italiani che forniranno sostanza e materia per un dibattito attorno al tema, sempre aperto, dell’adattamento cinematografico. Come a dire che le “scoperte” fatte sul campo cercheranno un loro corrispettivo speculare nel mondo delle idee teoriche, per confermarle, rivederle, riposizionarle.

Più di tutto, però, sarà data importanza all’analisi dei personaggi, perché è così che nasce e si sviluppa ogni sceneggiatura nella tradizione della commedia all’italiana (come ho avuto modo di imparare e di verificare sui vari lavori di scrittura per il cinema o per la televisione – in fondo la mia scuola è stata il Centro Sperimentale di Cinematografia dove la tradizione della “bottega” di scrittura di Age, Scarpelli, Vincenzoni, veniva tramandata dai miei docenti, come Francesco Bruni, Enzo Monteleone, Umberto Contarello,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               prima ediz. it., 1981), grazie al quale sono riuscito a organizzare in maniera più scientifica i vari aspetti dalla narrazione, distinguendoli ed isolandoli fra loro come consente di fare lo schema di Chatman, e a formare una prima versione di indice di questa tesi, sebbene poi, nella versione finale, ne sia rimasto solo qualche fossile. Tra gli studi anglosassoni vanno inclusi anche quegli autori che hanno contribuito alla più recente manualistica americana, scritti principalmente da quegli “script doctor” di cui parlavo poc’anzi: Chris Vogler e Dara Marks su tutti.

9 E poi ancora: Franceso Casetti e Federico Di Chio (Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990) assieme, ancora, ad Augusto Sainati e Massimiliano Gaudiosi (Analizzare i film, Marsilio, Venezia, 2007) hanno fornito gli strumenti basilari per compiere la scomposizione del mio stesso film. Ma anche molto importante per gli strumenti analitici Vito Zagarrio (Regie, La messa in scena del grande cinema italiano, Bulzoni, Roma, 2011). Infine, riguardo al problema dell’adattamento, c’è il contributo di Umberto Eco (Dire quasi la

stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003) e di Armando Fumagalli (I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a cinema, Il Castoro, Milano 2004).

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Doriana Leondeff...).10 Se il nucleo di partenza, discussione, e l’intero percorso

emotivo e narrativo di un film è sempre legato ai personaggi, in questo caso si tratta di analizzare tre personaggi (quasi tre protagonisti alla pari) che si dividono ruoli, temi e archetipi. Ne consegue che i tre più importanti capitoli della tesi saranno dedicati a loro. Poi ci saranno due capitoli dedicati all’altro perno su cui si basa la scrittura del copione nel lavoro della sceneggiatura e cioè “il tema” o, meglio, “i temi” più importanti, che in questo sono due: il tema del padre e quello della fuga.

Un ulteriore motivo di interesse dipende dal fatto che questo film è più adatto di altri a un’analisi del genere perchè è tratto da un testo che non è un soggetto originale degli autori della sceneggiatura (cioè mio e di Davide Lantieri);11 il testo di Lulli, quindi, può essere considerato un racconto

letterario a sé stante (una fonte letteraria da cui si è tratto il film)12 nonché, a

sua volta, questo pre-soggetto era il resoconto di un fatto realmente accaduto. L’ipotesi è che il lavoro di sceneggiatura sia stato, di conseguenza, più analitico e di messa in ordine che non, di primo afflato, intuitivo. E inoltre, che questa doppia “traduzione” abbia lasciato tracce del proprio percorso, permettendo, tra l’altro, che l’analisi sia più chiara e oggettiva. Lo studio non

                                                                                                               

10 Quattro fra i più importanti sceneggiatori degli ultimi anni, hanno scritto commedie importanti quali

Ovosodo, Mediterraneo, Marrakech Express, Pane e tulipani.

11 Davide Lantieri, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia in sceneggiatura, ha scritto il film

Dieci Inverni di Valerio Mieli, e L’Intrepido di Gianni Amelio.

12 C’è da dire a questo riguardo che è stato pubblicato anche un romanzo di Ico Gattai che racconta questa stessa vicenda dal titolo Mamma dormo fuori edito dalla ETS, Pisa, 2006, 96 pp. che è stato scritto da Gattai dopo che aveva provato a collaborare ad una sceneggiatura con lo stesso Renzo Lulli. Lulli aveva trovato il fatto disdicevole e scorretto, non era stato contento del risultato del romanzo e quindi mi chiese di non prenderlo in considerazione per il lavoro di sceneggiatura che stavo per iniziare, ma di considerare solo il suo soggetto che era poi lo stesso testo che aveva proposto a Gattai di adattare. E io mi attenni alle sue istruzioni, quindi il libro di Gattai non ha avuto nessuna influenza sul film I primi della lista, ma mi sembrava giusto specificare questa vicenda.

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si basa, quindi, su dei percorsi mentali persi nella mia memoria, ma principalmente su dei testi esistenti:

- Il memoir-soggetto di Renzo Lulli13

- Un inizio alternativo della sceneggiatura - L’ultima versione della sceneggiatura - Il montaggio finale del film14

Eppure, le fondamenta del copione d’altronde erano già lì: nel testo di Lulli e nell’episodio reale.

Per questo proverò a distinguere e intrecciare questi due approcci: come se il copione fosse un adattamento letterario di un testo che è il racconto di Renzo Lulli, ma al tempo stesso come se fosse la trasposizione di un fatto reale, ribaltando in questo modo l’assunto narrativo di Ricoeur – “la connessione di fatti mediante la costruzione di un intrigo”15 – arrivando così

alla costruzione di un intrigo mediante una connessione di fatti (reali, in questo caso).

Poi, piano piano mi addentrerò nelle fasi e nei temi della costruzione della sceneggiatura, facendo uno sforzo per provare a dividere i diversi aspetti del lavoro: la scelta dello stile narrativo (che chiama, tra l’altro, un necessario breve excursus sulla storia della commedia all’italiana, a cui ci siamo ispirati); l'interconnessione fra Storia con la esse maiuscola e la storia con la esse minuscola, e i temi che i fatti veri portavano con sé. Ancora, l’analisi del                                                                                                                

13 Nell’Appendice A si trova la versione integrale del testo. 14 Nelle Appendici B e C e in allegato col DVD del film.

15Paul Ricoeur, Temps et récit I, Éditions du Seuil, Paris, 1983; trad. italiana,

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rapporto che la storia intrattiene con il contesto storico e sociale, della trama, dell’intrigo e più di tutto, come già detto, sul lavoro di costruzione dei personaggi.

Il modello migliore da seguire per fare questa ricerca è ripercorrere, tenendo presente questa griglia analitica di partenza, le varie fasi che ha avuto il lavoro di scrittura: come se la genesi del copione fosse simile a quella di un quadro in cui si parte da un paesaggio che si ha di fronte, si provano alcune bozze a matita, se ne buttano alcune, in qualche momento ci si pente della scelta fatta, ci si ripensa, poi finalmente ci si decide e si passa il primo strato di colore, poi si cambia di nuovo, e così via, percorrendo le stesure e le analisi che si fanno man mano.

(Come già detto in nota, i testi dei passaggi fondamentali di questo percorso si troveranno nelle appendici, in fondo alla tesi.)

Un’ultima premessa: per una naturale predisposizione, o forse per il lavoro svolto anche negli anni universitari che mi ha dotato di strumenti analitici, tra le due grandi categorie in cui si dividono i registi, quelli che usano una sorta di canovaccio per improvvisare con gli attori (Rossellini, Bertolucci, Bellocchio, per citarne alcuni italiani) e quelli che invece seguono il filo della “sceneggiatura di ferro” (Germi, Monicelli...) alla maniera di Pudovkin,16 io

(senza evocare alcun termine di paragone, ovviamente) appartengo sicuramente alla seconda categoria.

                                                                                                               

16 Vsevolod Pudovkin, Kinostsenari, Kinospeciat, Mosca, 1926; trad. italiana, Il soggetto cinematografico, Le Edizioni d’Italia, Roma, 1932.

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Insomma, mi sembrava giusto chiarire che “la prefigurazione del film”17

stia in stretto contatto con il risultato finale, e cioè il film girato e montato: I

primi della lista non è altro che una ulteriore riscrittura18 – non, di certo, uno

stravolgimento – della sceneggiatura che analizzeremo in questa tesi.

                                                                                                               

17 Ha intitolato così il suo bel saggio Maurizio Ambrosini: La prefigurazione del film. Sulle sceneggiature di Paolo e

Vittorio Taviani, Edizioni ETS, Pisa, 2008.

18 Ha molto insistito sul concetto di “film come continua riscrittura”, specie in relazione al montaggio, Giuseppe Tornatore, in occasione della lectio doctoralis pronunciata per aver ricevuto la laurea magistrale

honoris causa presso l’Università IULM di MIlano e successivamente pubblicata dalla Bompiani in un

volumetto intitolato La menzogna del cinema: “Quindi il montaggio. L’ennesima e forse la più drastica delle riscritture. La fase in cui ogni inquadratura deve rinunciare a una parte di se stessa, per consentire alle altre di esprimere la loro funzione narrativa. Sembra quasi l’allegoria di un sistema di vita democratico, dove la libertà di ciascuno finisce lì dove comincia quella dell’altro»: Giuseppe Tornatore, La menzogna del cinema, Bompiani, Milano, 2011, p. 47.

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(Sinossi del film)

Mi sembra giusto scrivere, per chi non avesse visto il film o l’avesse visto da molto tempo, una breve sinossi de I primi della lista. (Ricordo comunque che questo è un riassunto basato sul montaggio finale del film, e che in appendice si trovano sia il soggetto di Lulli, sia la sceneggiatura completa).

Il film prende le mosse dalle immagini di repertorio che raccontano del colpo di stato militare in Grecia, della scoperta del tentato golpe in Italia del generale dei carabinieri De Lorenzo nel 1964, di Piazza Fontana, della caccia agli attivisti anarchici, come i presunti colpevoli della strage, della morte di Pinelli, della strategia della tensione e della fama di Pino Masi come cantautore del movimento.

Poi entriamo in casa Lulli, dove il diciannovenne Renzo sta avendo una delle sue solite discussioni con il padre. Questi, oltre a sgridare il figlio per un’ennesima multa, gli vieta di andare a fare il provino con Pino Masi: manca poco all'esame di maturità, quindi Renzo deve studiare. Tuttavia, suonare la chitarra è il suo sogno e proprio quel giorno ha la sua occasione: il cantautore che ha inciso “la ballata del Pinelli” e l’inno di Lotta Continua, lo vuole incontrare. La madre lo fa uscire a patto che torni a casa al più presto.

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Renzo, dopo aver incontrato Fabio Gismondi (che suona già con Masi) e dopo essere passato da un’assemblea contro la dittatura militare in Grecia, arriva nella soffitta di Pino Masi. Il cantautore è nervoso, e interrompe il provino a metà, quando entrano in casa dei giornalisti che mettono a parte il famoso cantautore di un imminente colpo di stato.

Pino Masi, dopo un fallito tentativo di trovare rifugio da amici convince Lulli a usare la macchina di suo padre per andare a 500 metri dal confine Jugoslavo. Se non dovesse succedere niente, torneranno indietro, se il colpo di stato dovesse invece accadere, espatrieranno, chiederanno asilo politico, canteranno con una tournée europea e mondiale la tragedia di cui è vittima l’Italia.

Anche se ancora dubbioso, Lulli chiama sua madre dicendole che resterà fuori la notte per studiare. In realtà, i tre partono verso nord. Nella notte si fermano per fare benzina a una stazione di servizio nel Veneto, e mentre stanno prendendo un caffè, vedono sfilare e parcheggiare camionette e mezzi militari che viaggiano verso sud, direzione Roma.

Ormai certi dell’imminente golpe (dopo aver deciso che la Jugoslavia è un paese fin troppo comunista per loro) i tre sfondano il confine con l’Austria inseguiti dalla polizia di frontiera italiana e da quella austriaca. Nella rocambolesca fuga che segue, mentre Gismondi e Masi si affidano alle forze dell’ordine austriache, Lulli scappa inseguito dai carabinieri nei boschi, rifugiandosi in un fienile.

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Egli sarà svegliato dalla voce di Masi che lo chiama da un megafono: non ha più nulla da temere, stanno andando a fare le pratiche per la richiesta di asilo politico.

In carcere, però, i tre iniziano a sospettare che la situazione non sia così tranquilla; dopo essere stati sottoposti a foto segnaletiche e impronte digitali, si ritrovano chiusi in una cella. La loro paura, che siano stati schedati, in quanto estremisti di sinistra e che presto verranno interrogati e forse torturati, li assale.

Invece, niente di tutto questo accade. La mattina dopo, vengono portati davanti al capo dell’Interpol che chiede le ragioni del loro sconfinamento: hanno fatto una rapina? Trafficano droga? I tre spiegano che stanno scappando dal colpo di stato, che hanno visto i militari andare verso Roma.

In una surreale e concitata discussione, viene finalmente spiegato l'equivoco: quella era la notte del 1 giugno, e il 2 giugno a Roma si tiene, come ogni anno, la parata militare, ecco perché i militari stavano andando a sud. In Italia non è successo nulla, a parte un paio di articoli che parlano del loro sfondamento di confine come se fosse la fuga di comuni criminali.

I genitori di Lulli e Gismondi sono esterrefatti: come hanno potuto cacciarsi in un guaio simile? Perfino l'allora Ministro degli Esteri Aldo Moro viene chiamato a confrontarsi con la strana questione. I tre carabinieri all'inseguimetno di Masi e compagni hanno sconfinato armi in pugno in Austria creando un incidente diplomatico di una certa portata. Moro non si capacita dell'assurdità della cosa, come il comandante dei carabinieri che

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redarguisce i tre militari che hanno commesso il grave errore di attraversare armati il confine austriaco.

In cella, intanto, Masi continua a ipotizzare un imminente colpo di stato, mentre Gismondi si preoccupa delle conseguenze di questo loro folle gesto che sta già avendo la sua eco a Pisa. Mentre rinfaccia a Masi di averli cacciati in questo guaio, i nodi vengono al pettine, e ne nasce una lite definitiva fra i tre ragazzi.

Al colloquio con i genitori le cose non vanno meglio. I rapporti sono incrinati e Lulli, che avrebbe l’opportunità di uscire dal carcere e tornare con babbo e mamma a Pisa, decide di rimanere in cella al fianco dei suoi amici.

Alla fine, vedendo Masi affranto (l’unico a non aver ricevuto visita dai suoi genitori con cui i rapporti non sono per nulla semplici), Gismondi e Lulli riescono a ricucire il rapporto con il cantautore del movimento e a non vederlo più come un mito ma come un essere umano.

Qualche giorno dopo, i tre vengono scarcerati e, prima di rimpatriare, essendo tornati in possesso delle loro chitarre, improvvisano l’unico concerto che faranno insieme, nel cortile vuoto del carcere.

Il film si chiude con una scritta che ci informa del dato storico che, a distanza di appena sei mesi, Valerio Junio Borghese, in effetti, tenterà un colpo di stato in Italia. Poi si vedono i tre personaggi della storia che incontrano i tre veri protagonisti della vicenda. Tramite delle scritte, veniamo a sapere del proseguimento della loro vita dopo questa incredibile vicenda: una sorta di prolungamento di quella fuga.

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1 Dalla realtà al racconto: il soggetto di Renzo Lulli:

Un soggetto? Un memoir? La trascrizione di un racconto orale di un fatto vero?

Il primo problema da affrontare è quello di un’esatta definizione del testo redatto da Renzo Lulli, da cui siamo partiti.

Certamente rientra in un genere specifico, cui appartengono, a sua volta, codici altrettanto specifici, dettati dalla natura stessa dell’oggetto narrato: l’autobiografia. Da non troppi anni, gli studi sull’autobiografia hanno individuato un altro sottogenere, ancora più specifico, o meglio, un “co-genere”, cioè un genere che si affianca, per storia, dignità e definizione, al primo ed è il memoir.

Che cos’è il memoir? E che cosa lo distingue dall’autobiografia? Principalmente due aspetti. Il primo è che l’autobiografia tende a raccontare, come l’etimologia dello stesso nome suggerisce, la propria vita, intesa nella sua interezza o, almeno, catturata in un arco esistenziale di una certa entità. Il

memoir: si profila come una porzione di esistenza piuttosto piccola,

generalmente legata a un argomento o a un tema, oppure a un flusso emotivo. Il secondo è che l’autobiografia cerca, di norma, di rispettare l’oggettività dei fatti così come si sono svolti, incappando, occasionalmente, anche in clamorose falsificazioni, ma, in ogni caso, non è questa la sua specificità. Il

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emotiva,19 garantita dall’autenticità, cioè dal fatto che chi la racconta se la

ricorda nel modo in cui la racconta.20 Questa distinzione non riguarda solo il

contenuto, ma anche la forma e la struttura del racconto (il così come): seguendo il flusso delle emozioni, la ricostruzione dei fatti avvenuti non può che essere imprecisa o, comunque, confusa. Non segue un ordine cronologico, ma un percorso emotivo.

Mettendo al centro del racconto non la verità, ma l’autenticità, tutto e tutti diventano narrativamente interessanti (perché quello che conta è la questione di come il protagonista vive gli eventi che gli capitano, non quello che gli succede). In questo senso il memoir diventa una forma di scrittura

democratica,21 caratteristica che, ancora una volta, segna la differenza con

l’autobiografia, normalmente appannaggio o di personaggi illustri oppure di chi, in vita, ha compiuto azioni degne di essere ricordate per la memoria collettiva.

                                                                                                               

19 Judith Barrington, in Writing the Memoir: From the Truth to Art, Eighth Mountain Press, Portland (Oregon), 1997 distingue factual truth da emotional truth.

20 Louise de Salvo, forse una delle più note autrici di memoir, ha dato anche un notevole contributo al dibattito teorico. In una intervista a Caterina Romeo, studiosa italiana del memoir, ha dichiarato: “Per me il memoir è incentrato sulla memoria, al contrario dell'autobiografia, che invece è incentrata su fatti verificabili. Ad esempio, se dico: “Quando ero piccola, stavo aspettando mia madre seduta sui gradini dell’Accademia del Sacro Cuore, e i gradini erano di cemento» questo è come lo ricordo io. I gradini erano duri e io mi ricordo la sensazione di quella durezza. Questo è il modo in cui si è impresso nella mia memoria e quindi è memoir. Se si scrive autobiografia, invece, i fatti devono essere verificati: è necessario andare a controllare che i gradini siano effettivamente di cemento. Il memoir esplora le storie che conserviamo nella mente e quella è la nostra realtà. Non ‘ciò che è successo veramente’ ma il modo in cui lo ricordiamo”: in M. R. Cutrufelli, E. Giunta, C. Romeo (a cura di) Origini – Le scrittrici italo americane, numero monografico di “Tutte-Storie” n. 8, marzo-maggio 2001, pp. 7-9.

21 È Tristine Reiner a sostenerlo in Your Life as a Story: Writing the New Autobiography, G. P. Putnam's Sons, New York, 1997, preferendo, tra l’altro, la definizione di new autobiography a memoir. Questa definizione apre inevitabilmente una finestra sul dibattito circa la reale e sostanziale differenza fra l’autobiografia e il memoir. Reiner, pur riconoscendo l’indice di novità, preferisce sottolineare la continuità, immaginando quello che noi chiamiamo memoir come una evoluzione interna a un genere già esistente. È ancora Caterina Romeo a riconoscere la scivolosità di queste definizioni: “Il memoir, seppur simile per molti aspetti all’autobiografia “tradizionale”, attua allo stesso tempo una forte resistenza nei suoi confronti in quanto fonde diversi generi letterari e include soggetti tradizionalmente esclusi dalla scrittura autobiografica. Questo rapporto di simultanea continuità e discontinuità rende l’operazione di definire il memoir e di sistematizzare gli studi critici sull’argomento deriva dal fatto che questo è un genere i cui confini sembrano sfuggire a una delimitazione precisa e devono essere continuamente ridefiniti e rinegoziati» in Narrativa tra due sponde,

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Il testo di Lulli aderisce a tre delle caratteristiche descritte, in una soltanto forse in maniera parziale: da una parte, racconta un lasso di tempo circoscritto (all’incirca una decina di giorni); dall’altra, rispetta un ordine

cronologico preciso a livello macrodrammaturgico, ma nella

microdrammaturgia delle singole “scene” si fa confuso (non è, ovviamente, un giudizio di merito) accatasta nodi emotivi, elenca fatti, voci, pezzetti di dialogo, impressioni. È, poi, il fatto stesso che sia stato Lulli ad averlo scritto che lo rende aderente al genere memoir: Lulli non è un protagonista della Storia, la sfiora, ci passa accanto; e non è nemmeno un personaggio illustre. È un testimone democratico, come vuole che sia il memoir.

C’è, però, una caratteristica formale che rende il testo di Lulli un

memoir ambiguo o, comunque, un’autobiografia sui generis: e cioè che usa la

terza persona per raccontare l’episodio della fuga in Austria per paura di un colpo di stato.

La scelta di Lulli di usare la terza persona è importante sotto due profili: è una storia di tre personaggi, uno sguardo collettivo più che individuale e, inoltre, l’uso della terza persona gli è servita per il tono. Gli ha permesso di prendere le distanze dall’oggetto del racconto e di ironizzarvi.

Questa, e tutte le altre caratteristiche che abbiamo elencato, sono state traghettate in sceneggiatura, portandoci, a volte in maniera anche inconscia, a fare delle scelte al posto di altre.

Per esempio, da subito abbiamo capito che il memoir di Lulli (che poi è stato accreditato nei titoli come Soggetto di Renzo Lulli) poteva essere trasposto nel copione segendo due diverse modalità stilistiche. Una che si

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rifaceva più alla prima commedia all’italiana, come La Grande Guerra22 o

Tutti a casa,23 quindi un racconto più lineare che stesse addosso ai personaggi

in maniera più oggettiva e meno intrusiva e l’altro, invece, che avrebbe seguito il filone più moderno, alla Divorzio all’italiana24 o, ancora meglio, alla

C’eravamo tanto amati,25 con salti temporali, voci over, mescolando materiali

di repertorio, diversi tipi di linguaggio, facendolo diventare anche un racconto metanarrativo e metafilmico, quindi giocando molto con gli strumenti della narrazione.

L’elemento conoscitivo che appariva ovvio da una prima analisi del soggetto era, però, che questo secondo metodo narrativo si poteva applicare in maniera naturale soltanto alla prima parte del racconto, perché la seconda parte della storia era veramente troppo lineare e consequenziale (fin troppo organica a un’unità di spazio tempo e azione): e ci sembrava pressoché impossibile “aprirsi” a uno stile non-lineare, sincopato e metanarrativo.

Quindi, avevamo avuto chiaro sin dall’inizio che, anche nel caso che si fosse scelta questa strada, comunque ci si sarebbe dovuti limitare a un inizio e a una fine con uno stile non-lineare per poi forzare altri due (al massimo, se non uno) momenti di “apertura” nel mezzo della sceneggiatura.

Questa riflessione, tra l’altro, mette in luce da subito un tema che approfondirò con maggiori particolari in seguito, e che probabilmente fa parte di una possibile meta o obiettivo di questa ricerca e cioè: come avere indagato                                                                                                                

22 1959, scenggiatura di Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni, regia di Mario Monicelli.

23 1960, sceneggiatura di Age & Scarpelli, Luigi Comencini, Marcello Fondato, regia di Luigi Comencini. 24 1961, sceneggiatura di Ennio De Concini, Pietro Germi, Alfredo Giannetti, regia di Pietro Germi. 25 1974, sceneggiatura di Age & Scarpelli, Ettore Scola, regia di Ettore Scola.

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e aver percorso a lungo una pista che alla fine si è abbandonata, abbia comunque contribuito a plasmare anche la pista alternativa (ma preponderante), e quindi il film nella sua versione finale.

La prova più grande di questo processo è il punto centrale del film, dove per la prima e unica volta nel film abbandoniamo il punto di vista dei tre protagonisti per fare il piccolo excursus scena avvocato con genitori -> scena

di Moro alla Farnesina –> scena dei carabinieri con il loro superiore,26 che

potremmo definire in questa chiave analitica una sorta di fossile che ci ricorda l’esistenza della versione alternativa e non-lineare (o postmoderna).27

Perché mai ci è venuta da subito l’idea di un racconto non-lineare? Perché pensavamo che potesse essere più giusto per questa storia?

Il soggetto di Lulli poneva due importanti problemi dal punto di vista della narrazione filmica: il primo era che dava per scontato qualsiasi tipo di contesto storico.

Il memoir, infatti, parte così:

Cominciò col sole, appena dopo mangiato, in una oliveta di Calci nel primo giorno di un giugno del settanta.

Sopra un prato secco si ritrovarono tre tipi, componenti del canzoniere pisano, pseudomusicisti e cantanti del popolo in lotta, comunisti duri, militanti dal sessantotto, amanti del sessantanove, presenti nel settanta, appunto.28

                                                                                                               

26 Cfr. Appendice B: Sceneggiatura, Scene 47-49.

27 Mi occuperò della definizione e specificità di questo termine nel capitolo 4.1 della tesi. 28 Cfr. Appendice A, p. 1.

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Non dava quindi mai nessuna giustificazione per la paura del colpo di stato né per la tensione del contesto storico. L’escamotage di partire in medias

res, che Lulli ha usato nel suo racconto-memoir, era letterariamente un ottimo

accorgimento narrativo, perché aiutava molto nell’abbrivo della lettura, ma probabilmente faceva parte della radice “orale” del racconto di Lulli.29

Nonostante una levità e felicità di penna encomiabile, Lulli dava per scontate delle premesse storiche. E sia per un pubblico vasto, ma in particolare per le nuove generazioni (che non hanno né vissuto né studiato quel periodo) quella di un possibile colpo di stato poteva suscitare una paura in qualche modo esagerata, una storia fuori dalla realtà, non calata in un contesto specifico. E quindi, oltre a una mancanza storica oggettiva, questa lacuna avrebbe fatto sì che i personaggi sarebbero stati percepiti come dei veri sprovveduti, cioè che quella componente definibile come “equivoco storico” fosse completamente sbilanciata verso la stupidità dei tre protagonisti e non avesse invece quel contrappeso fondamentale della ragionevolezza storica della paura di un imminente colpo di stato.

Il secondo potenziale problema era, appunto, che la storia fosse troppo “piccola” e quindi rimanesse un aneddoto, una sorta di barzelletta.

La nostra prima preoccupazione nell’approccio al lavoro di sceneggiatura è stata quindi rispetto a questi due problemi – da una parte la sospensione dal contesto storico (il dare per scontato tutta una serie di premesse – non immergerlo in quella che era la realtà del momento) e                                                                                                                

29 Lulli ci ha spiegato che questa storia l’aveva dovuta raccontare a voce, al termine di lunghe cene con amici di quei tempi e nuovi. Solo dopo ha deciso di scriverla, quindi possiamo dire che è una storia che nasce dall’oralità per poi trovare una sua forma scritta solo in seguito.

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dall’altra il pericolo di un racconto fatto di sequenze episodiche e buffe che portavano avanti la narrazione lasciando quasi sempre in ombra, quasi come delle marionette sullo sfondo, senza approfondimento psicologico, i personaggi.

I tre protagonisti raffigurati nella narrazione di Lulli non sono personaggi convincenti, né in termini fenomenologici, né in termini formali; sono stati proposti, invece, come fossero istanze logiche e astratte. Questo accade sia per il particolare stile narrativo che gli impediva di soffermarsi troppo a lungo su azioni o gesti o dialoghi che potessero far emergere l’identità e l’individualità dei personaggi, sia perché l’intenzione di costruire un racconto corale (con una terza persona alla stregua di un “noi”) non permetteva di disegnare delle sfumature all’interno del gruppo. I personaggi trasmessi dal memoir di Lulli aderiscono – nel senso che possono essere letti e analizzati secondo queste modalità – allo schematismo degli attanti di Greimas30 e non sono credibili né come “imitazioni di persone” che siano

“verosimili”, per citare Aristotele al momento in definisce i caratteri di una storia,31 perché non aspirano a una concretezza specifica – anzi, è difficile

                                                                                                               

30 Nelle due principali contributi semiotici A. J. Greimas sviluppa e perfeziona il cosidetto “schema attanziale” (si veda: Algirdas Julien Greimas, Joseph Courtés: Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du

langage, Paris [trad. italiana, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007:

prima edizione, 1986]; Algirdas Julien Greimas, Sémantique structurale, Larousse, Paris 1966 [trad. italiana,

Semantica strutturale, Meltemi, Roma, 2000: prima edizione, 1968]). Se, nella linguistica generale, gli attanti

sono semplicemente gli elementi nominali che realizzano l’azione indicata dal verbo, di conseguenza, in ambito narratologico – in particolare nella sua applicazione cinematografica – gli attanti finiscono per essere delle funzioni paradigmatiche che possono essere in grado di attuare l’intero meccanismo narrativo di un film. Greimas immagina un’asse portante che vada dal Soggetto all’Oggetto e, in relazione a questo, si dispongono le coppie: Destinatore e Destinatario, l’Aiutante e l’Oppositore. I personaggi di Lulli aderiscono a questo schema perché sono personaggi privi sia di una propria identità specifica sia di una propria identita tipica e esistono solo in quanto funzionali alla struttura del racconto. Masi aderisce all’attante di Soggetto – assieme a Lulli e Gismondi – ma anche di Destinatore e, assieme agli altri due, di Destinatario. L’Oggetto è la Fuga, l’Oppositore lo Stato/l’Esercito. L’Aiutante (o, spesso, gli Aiutanti) si realizza nel memoir come una funzione variabile.

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negare che siano, viceversa, “inverosimili” – non essendo né sfere d’azione,32

né ruoli,33 così come le hanno definite Propp o le teorie sulla sceneggiatura

americane, cioè rimanendo personaggi modellati su dei tipi fissi, individuati attraverso gli archetipi della fiaba e del mito.

Rispetto al modello di Greimas, possiamo disegnare uno schema che assomiglia a questo:

- L’Oggetto è la salvezza grazie alla fuga dal colpo di stato; - Masi, Lulli e Gismondi sono riferibili invece al Soggetto;

- Masi, Lulli e Gismondi sono riferibili anche al Destinatario (cioè coloro i quali trarranno beneficio dall’Oggetto);

- Masi, in questo caso da solo, è anche Destinatore (i.e. colui il quale affida la missione).

- L’Oppositore appare come il possibile nuovo dittatore, aiutato da uno Stato di polizia che si concretizza nella figura dell'Esercito e nelle forze dell’ordine; - L’Aiutante (o gli Aiutanti) sono variabili (identificabili con il giornalista che li informa del colpo di stato in procinto, con chi li dovrebbe accogliere in Jugoslavia...).

Solo all’inizio, nelle primissime righe, possiamo leggere una descrizione dei tre con delle caratteristiche che, però, sono ininfluenti sul piano                                                                                                                

32 Cfr. Vladimir Jakovlevič Propp, Morfologiija skazki, 1928; trad. italiana Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1928. I personaggi immaginati da Lulli non possono essere letti secondo le sfere d’azione di Propp (i celebri personaggi tipo ricorrenti da lui individuati nell’analisi delle 100 fabie russe: l’eroe, l’antagonista, il donatore, l’aiutante, la principessa e il re, il mandante, il falso eroe) perché, all’interno del memoir, nessuno si distingue per ua propria funzione tipica. Per esempio, non potremmo nemmeno dire, come poi avverrà in sceneggiatura, che Masi è il donatore, cioè il mentore, di Lulli e Gismondi, perché i tre protagonisti sono trattati come soggetto collettivo.

33 Christopher Vogler, The Writer's Journey, Michael Wiese Productions, Studio City (CA), Third Edition, 2007 (First Edition, 1992); trad. italiana, Il viaggio dell’Eroe, Nuova edizione, Audino, Roma 2011. Per gli stessi motivi che squalificano i personaggi del memoir di Lulli dall’essere interpretati in chiavi proppiana, essi non possono essere nemmeno letti in chiave vogleriana: fra loro, i personaggi non sono sufficientemente differenziati né psicolgicamente, né come tipi.

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dell’azione, tanto è vero che quasi mai è stato specificato da Lulli chi è che fa

cosa.

I personaggi di Lulli servono solamente a portare avanti i fatti, le singole azioni, la narrazione. Sono Soggetti che si muovono verso l’Oggetto (il confine e la salvezza) e non dei personaggi tridimensionali con uno spessore psicologico, ma delle operazioni logiche per portare avanti il racconto, il plot e il divertissement. La trama erode lo spessore psicologico dei personaggi.34 A

noi tocca il compito, in sceneggiatura, di restiturgli tridimensionalità.

Un’ultima questione che abbiamo dovuto fronteggiare era quella dell’aderenza ai fatti storici e della rispettiva coerenza. Per esempio, rileggendo il memoir di Lulli proprio per lavorare a questa tesi, mi sono accorto di una stranezza, cioè del fatto che l’aneddoto della visione dell’esercito diretto a Sud – che avevo sempre pensato fosse avvenuto nella notte – è raccontato invece come se avesse avuto luogo la mattina, in Friuli Venezia Giulia, al ridosso del confine. Versione che non combacia con il ricordo il Gismondi, per esempio, quando mi ha raccontato tutta la sua versione della storia in diverse interviste.

Occorre quindi dividere l’analisi fra l’analisi della sceneggiatura come adattamento da un testo letterario (il memoir di Lulli) e l’analisi della sceneggiatura come un adattamento da un fatto realmente accaduto (l’episodio ricostruito dalle conversazioni registrate a tutti e tre i protagonisti e da altri amici o parenti che l’hanno vissuto, seppur in maniera esterna, e dagli articoli di giornale del tempo). La diversità dei materiali cui abbiamo attinto                                                                                                                

34 Forse c’era anche un pudore di Lulli nel raccontare se stesso, ma soprattutto gli altri due suoi compagni. In fondo, nella loro percezione, si tratta pur sempre di un episodio che al tempo fu vissuto come umiliante.

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per la costruzione della storia ci ha costretto a intraprendere un diverso approccio teorico nella fase di adattamento. In entrambi i casi – cioè sia nel caso di adattamento dal memoir di Lulli, sia nel caso di adattamento dalle testimonianze reali – si è trattato di operare in una direzione simile a quella indicata da Jakobson nel suo Aspetti linguistici della traduzione,35 nell’istante

in cui parla di “traduzione intersemiotica” o “trasmutazione”. Jakobson fa rientrare l’adattamento in una pratica di traduzione, rilevando però che non si tratta di un passaggio da una lingua all’altra, ma piuttosto da un sistema di segni all’altro. Il patto implicito è che il significato resti lo stesso. Questi assunti aprono a una serie di questioni, su vari livelli:

1) In che modo porsi teoricamente nei confronti del “materiale reale”, cioè delle testimonianze dirette e delle interviste: va trattato o no come un “testo”, cioè esattamente come una fonte letteraria?

Il testo di una fonte letteraria è, di per sé, un testo chiuso, dotato di una propria coerenza interna. Il “materiale reale” è, invece, frammentario e scomposto, non organico. Anzi, il compito dello sceneggiatore impone di dare organicità a questo materiale scomposto, portando il cinema a essere quello che Pier Paolo Pasolini ha definito “la lingua scritta della realtà”.36 Nel caso di

“materiale reale” non si tratta, dunque, di realizzare solo una operazione di traduzione, ma di eseguire una vera e propria operazione di scrittura o composizione, per colmare i vuoti nei quali, inevitabilmente, incappa la realtà e per legare i frammenti scomposti. La definizione di Jakobson, certamente tarata sul problema dell’adattamento, inteso nel suo senso più classico, non è                                                                                                                

35 In Essais de linguistique générale, Éditions de Minuit, Paris, 1963; trad. it. Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966 pp. 56-64.

36 Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000 (prima edizione, 1972).  

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sufficiente ai nostri fini, cioè per circoscrivere sul piano teoretico quello che siamo andati a fare sul piano pratico. Questo nodo teorico riguarda tutto quel genere di film comunemente chiamato biopic (ne abbiamo portato qualche esempio parlando dei film tratti dalla realtà). I primi della lista non rientra, esattamente, nella categoria di un biopic, perché non racconta una vita nel suo arco complessivo, ma solo un episodio molto circoscritto nelle vite di tre persone. Da questo punto di vista, potremmo affermare che I primi della lista sta al biopic, come il memoir sta alla biografia. Anche nel caso del biopic, le fonti alle quali si attinge possono essere differenti e includere i “materiali della realtà”, nei confronti dei quali l’autore deve operare non solo in senso traduttivo ma compositivo.

2) In che modo il significato può restare immutato se cambiamo sistema di segni e soprattutto, se, come abbiamo visto, talvolta il materiale di partenza non è un testo chiuso dotato di significato e, anzi, il significato va composto?

Nel primo caso, cioè nel caso in cui, com’è successo nel caso dell’adattamento dal memoir di Lulli, è abbastanza facile descrivere che tipo di soluzioni teoriche abbiamo adottato, perché trovano ampiamente riscontro nella teoria, specialmente in quella anglosassone. Da una parte c’è il già citato

Chatman che, dividendo “La Storia” dal “Discorso” 37 – e quindi,

sostanzialmente, la Narrazione dall’Enunciazione –, offre un sistema teorico già pronto ad accogliere l’adattamento e, nello specifico, la definizione di che cosa debba esattamente cambiare e di cosa invece debba restare uguale in questa operazione trasmutativa. Ciò che cambia è il Discorso, le modalità                                                                                                                

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enunciative, ciò che resta identico è la Storia, ciò di cui si parla. Quanto possa restare “identico” il contenuto della “Storia” costituisce un dato variabile e potrà assumere molte sfumature. Dudley Andrew ha provato a descriverle tutte, supponendo tre casi:38 a) borrowing b) intersection c) fidelity of

transformation. Nel primo caso si tratta di usare il testo preesistente come un

universo disponibile, dal quale attingere – prendere a prestito – una serie di soluzioni strutturali, e tematiche, narrative. In genere, e Andrew lo precisa in modo autorevole, questo genere di adattamento ha come fonte testi di grande riconoscibilità archetipica, come l’Odissea ad esempio. L’intersection è invece un adattamento talmente fedele da non essere perfettamente integrato nel testo di destinazione. La fonte, in qualche modo, è dichiarata e presente. In questo tipo di adattamento, è come se, oltre alla Storia, si portasse appresso nel testo di destinazione anche una parte del Discorso, che attiene al medium originario e che Chatman, nel suo schema, colloca fra la Sostanza dell’espressione, cioè il modo in cui una data narrativa si manifesta e ciò fra cui lo spettatore deve “infraleggere” per scorgere l’oggetto estetico. La fidelity

of transformation è un adattamento che resta fedele allo spirito del testo

originario. Fra i tre è l’elemento di più difficile definizione, perché indefinibile è lo spirito. Se si volesse provare a tratteggiarne le caratteristiche includerebbe il tono, il ritmo e e le componenti tematiche di un testo. I primi della lista, rispetto al memoir di riferimento scritto da Lulli, è certamente definibile come un adattamento di spirito: abbiamo provato non solo a tenere fede ai fatti realmente accaduti, ma anche allo spirito con cui Lulli li ha raccontati, più precisamente, in modo ironico, spesso comico. Entrambi gli aspetti si faranno                                                                                                                

38 In Concepts in Film Theory, Oxford University Press, Oxford–New York, 1984, in particolare nel capitolo dedicato all’adattamento.

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evidenti via via che procederò con l’analisi del film. Nel suo saggio, Andrew ha anche scritto che c’è adattamento solo quando la fonte è un testo preesistente, chiuso e cristallizzato in una forma narrativa.39 Questa riflessione sostiene

quella che abbiamo indicato al punto precedente, relativa alla fonte come “materiale reale”; ed essa, in qualche modo, anticipa il nodo teorico di cui stiamo per parlare. Nel secondo caso, quello, appunto, in cui attingiamo alla realtà per scrivere la sceneggiatura, la questione si fa assai più scivolosa e ambigua: come possiamo preservare nella sua trasposizione cinematografica un significato di cui non siamo sicuri che esista nella realtà? In altri termini, la domanda da cui partire e che precede tutto questo è: la realtà, presa nella sua originale autenticità, è dotata di significato autonomo? L’impressione è che, se anche ne avesse, non potrebbe essere che soggettiva e frutto di un’operazione di composizione arbitraria, quella che compie l’autore. Provando a forzare, però, le categorie proposte da Andrew, ci sentiamo di dire che, nel caso di adattamento dalla realtà, si compie un’operazione di borrowing, vale a dire, di presa a prestito delle istanze reali non solo nelle loro strutture archetipiche, ma anche nel saccheggiamento di certi dettagli che restituiscono poi un’impressione di realtà.

I primi della lista porta a termine, dunque, un mix fra un primo

adattamento, diremmo classico, partendo dal testo di Lulli, e poi un altro, assai più indefinibile e a rischio, dalla realtà.

Vediamo adesso come il testo di Lulli e il “non-testo” della stessa realtà abbiano influito, ciascuno a suo modo, più nel dettaglio sulla nostra scrittura.

                                                                                                               

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Abbiamo avuto subito l’impressione che già il memoir di Lulli si fosse in qualche modo discostato in alcuni momenti dai fatti veri per entrare in un regime letterario; o per la volontà di rivedere quel fatto storico tramite il suo filtro e quindi affidandosi alla sua memoria, naturalmente e soggettivamente distorta, o per sua esplicita volontà, ha spinto la realtà dei fatti dentro una sfera semiologica di narrazione portata ai massimi effetti e strutturata di conseguenza.

Infatti, quando sono andato a fare le interviste a Fabio Gismondi e Pino Masi, ho scoperto che c’erano delle discordanze su modo in cui gli eventi effettivamente erano andati: il memoir è stato, a tutti gli effetti, una rilettura soggettiva di Renzo Lulli di quello che era successo. Questa lettura soggettiva, inevitabilmente, ha portato a un percorso di cambiamento, di riscrittura: all’aver “romanzato” l’evento.

1.2. I due approcci

La prima preoccupazione mia e di Lantieri è stata quella della contestualizzazione storica, che in qualche modo rientra in quello che Vanoye definisce riappropriazione.40 Questo problema è stato risolto (in montaggio –

anche se avevamo sviluppato ipotesi molto simili alla scelta finale già in

                                                                                                               

40 La premessa sottesa a questo discorso è che esista una differenza storica, sociale, politica e culturale fra l’autore adattato e quello adattante, determinata dagli anni che li separano. L’autore adattante per fare proprio il racconto deve comporre un’operazione di intermediazione culturale fra il passato e se stesso. In Francis Vanoye, Scénarios modèles, modèles de scénarios, Éditions Nathan Paris, 1991; trad. italiana, La sceneggiatura.

Forme, dispositivi, modelli, Lindau, Torino, 1998. p. 149. Armando Fumagalli nota come la riappropriazione si

renda maggiormente evidente nel cambiamento del finale, perché è il portatore del senso della storia. In Armando Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore – L’adattamento da letteratura a cinema, Il Castoro, Milano, 2004.

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alcune versioni della sceneggiatura) con un’introduzione di scritte e filmati di repertorio.

Questa possibilità ha lottato per molto tempo con altre soluzioni. La prima idea era appunto di iniziare il film con un’introduzione (come corpo autonomo) tramite alcune scritte in cui si contestualizzavano gli anni precedenti al 1970, e in particolare si tematizzava la paura del colpo di stato, si spiegavano insomma quali fossero stati gli eventi che rendevano la paura del colpo di stato in Italia pervasiva e ragionevole.

La seconda soluzione (provata e riprovata in diverse versioni alternative d’inizio della sceneggiatura) era che l’introduzione del tema della paura suscitato dal colpo di stato fosse parte della narrazione. Dovevamo quindi trovare il modo che gli stessi personaggi raccontassero questo preambolo prima della loro fuga con diverse voci over e trovate metafilmiche (un approccio alla C’eravamo tanto amati, per capirsi).

Uno dei problemi che comportava questo secondo tipo di scelta (percepita da un’ottica narrativa)41 era che, fondamentalmente, il punto di

vista del film si sarebbe diviso in tre. Avrebbe smesso di essere il punto di vista di Renzo Lulli e basta, e sarebbe diventato, di volta in volta, il punto di vista di Gismondi, Lulli e Masi, mettendo tutti e tre i personaggi alla pari.

Abbiamo capito, dopo molto lavoro di scrittura e analisi del copione che questo tipo di scelta avrebbe paradossalmente tolto forza anche agli altri personaggi. Il punto di vista di Lulli che racconta il suo rapporto con il Gismondi che “ci porta” nel mondo del Masi, in realtà, dava più spessore al rapporto fra i tre e, forse, in una maniera più sottile ed elegante.

                                                                                                               

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