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2. INT GIORNO FOGGIA ALBERGO (BIANCO E NERO)

5.2 L’“effetto Hitchcock” al contrario

Tutto quello che abbiamo detto finora può rientrare curiosamente nella famosa teoria sulla suspense di Hitchcock riportata nella sua conversazione con François Truffaut.174 Dentro questa comicità, c’è, infatti, sebbene possa

sembrare paradossale, una tensione hitchcockiana.

Com’è noto, Hitchcock afferma la sua preferenza per la suspense in luogo della sorpresa, perché “l’effetto sorpresa” genera un’emozione, magari anche forte e scioccante, ma di brevissima durata, mentre la suspense è un tirante costante e durevole sullo stato emotivo dello spettatore. Possiamo citare il famosissimo esempio della bomba: se esplode all’improvviso sotto il tavolino di un bar, creerà uno shock emorme ma immediato e subitaneo; se, invece, vediamo il momento in cui viene collocata – mentre i personaggi                                                                                                                

174 François Truffaut: Le cinéma selon Hitchcock, Éditions Ramsay, Paris, 1983; tradne. italiana, Il cinema secondo

Hitchcock, Pratiche, Parma, 1985, pp. 60-61.

andranno a sedersi ignari – vivremo un filo di tensione continua e logorante. Da quando si siederanno, fino a quando la bomba non esploderà, qualunque cosa accada, fosse anche la più banale come parlare del tempo, l’attenzione dello spettatore sarà in tensione perché tutto assumerà un significato alterato. La differenza fra il primo e il secondo caso è che, nel primo caso sia lo spettatore, sia il personaggio non possono sapere della bomba, nel secondo caso lo spettatore lo sa, mentre lo ignora il personaggio.

Nel caso de I primi della lista, c’è una tensione che diventa comica perché, esattamente come nel caso della suspense di Hitchcock, ma al contrario: lo spettatore sa che quello di cui hanno paura i personaggi non è plausibile perché poi, storicamente, il tanto temuto colpo di stato non è affatto avvenuto. Lo sa perché, appunto, fa parte ormai del patrimonio storico ed è un sapere che esula dai comuni meccanismi interni alle dinamiche del sapere del film.175 Esistono altri film come questo e sono soprattutto storici, oppure

basati su fatti veri noti ai più, per esempio: Titanic176 o Elephant177 o Diaz178 ;

in tutti e tre i casi sappiamo che a un certo punto si compirà la tragedia. La differenza con I primi della lista è che lo spettatore sa che, invece, la tragedia

non si compirà e questo getta tutto sotto una luce comica.

                                                                                                               

175 Ne abbiamo parlato più dettagliatamente, anche in relazione alle teorie del sapere filmico nel capitolo dedicato a Renzo Lulli.

176 1997, sceneggiatura e regia di James Cameron.   177 2003, sceneggiatura e regia di Gus Van Sant.

Conclusioni

Ripercorrere i processi produttivi, artistici e mentali della scrittura de I

primi della lista è stato, prima di tutto, un tuffo emotivo nel mio recente

passato.

Ripensando adesso a tutte le difficoltà e scogli da superare per arrivare a chiudere questo film, capisco quanto abbia lottato, ma anche quanto sia stato fortunato: ero partito dalla certezza che nessuno avrebbe mai prodotto un film del genere, sono passato attraverso la paura che le riprese del film saltassero all’ultimo minuto, le tensioni sul set, agli scontri anche accesi con il mio produttore Carlo Degli Esposti in sala di montaggio.

E adesso so che ne è valsa la pena: finire il mio primo film da regista e il mio percorso universitario ripercorrendo il processo di scrittura de I primi

della lista è la migliore chiusura del cerchio in cui potessi sperare.

Rianalizzando tutto il processo creativo della scrittura de I primi della

lista mi sono trovato fondamentalmente di fronte a due tipi di analisi: una che

è quella più tradizionale, cioè l’analisi del copione, dei suoi temi, personaggi, caratteristiche, e una invece più specifica sui tratti più peculiari di questa tesi, ovvero l’analisi fatta attraverso la situazione privilegiata di essere al tempo stesso sceneggiatore e studioso del film.

Il primo punto che mi viene da rilevare è che, analizzando da studioso il copione nei suoi temi, personaggi, parabole, passaggi di adattamento, ho scoperto che c'erano molti più elementi d’interesse di quanto io stesso come autore avessi previsto o di cui fossi cosciente; addirittura, direi che in molti casi si sia trattato di vere e proprie sorprese.

Questo, credo, vada a confermare l’approccio, che si ha come studiosi, di considerare il film o l’opera d’arte in generale, dotata di un significato autonomo e, almeno in parte, “più grande” di quanto sia nelle intenzioni originarie dell’autore stesso. I temi si moltiplicano in maniera anche inconsapevole, ci sono collegamenti interni ed esterni all’opera d’arte che prescindono dall’autore, che o li ha creati in maniera inconscia, o che, in alcuni casi, ne è del tutto estraneo. Lo studioso, quindi, ricrea in qualche modo l’opera d’arte dotandola di più e di altri significati di quanto lo stesso autore avesse previsto. Credo che questa tesi sia un’ulteriore fondamentale prova di questa ipotesi, prendendo atto che mi è toccato analizzare una sceneggiatura che io stesso ho scritto e mi sono sorpreso spesso nello scoprire collegamenti, temi, ricorsività che il film aveva, e a cui come sceneggiatore e regista non avevo nemmeno pensato.

Questa scoperta è avvenuta più nell’analisi delle tematiche, che rispetto a quella sui personaggi. Mentre sui personaggi il lavoro svolto con la funzione di autori della sceneggiatura è stato più cosciente, quello sui temi e sul senso del film è stato lasciato più libero e spesso è rimasto inconscio. Credo che questo sia dovuto al fatto che, in fondo, in un film tratto da una storia vera e così improntato sui personaggi (come la commedia all’Italiana prevede nella sua tradizione), si debba seguire il filo logico ed emotivo delle loro azioni, e

che solo in un secondo momento ci possa riferire poi a un senso (che si spera più ampio e universale) – ma mai il contrario. L’autore, quindi, in questo caso fa un passo indietro, per non correre il rischio di applicare una sovrastruttura ideologica sui personaggi – in modo che non si corra il rischio che “il messaggio” possa inficiare la verità e la spontaneità dei personaggi e, come ricaduta, della storia.

Il tema della fuga, per citare l’esempio più eclatante, era presente in diverse scene del film, senza che noi lo avessimo previsto coscientemente in fase di scrittura – soprattutto nel footage degli scontri della polizia che rincorre i ragazzi che scappano e, nelle prime scene, come la fuga dalla finestra di casa e la fuga dai finti fascisti all’assemblea. Quell’origine ancora embrionica e oscura potrà essere ascritta e attribuita a una sorta di primo nucleo di DNA del tema della storia, da cui sono nate tutte le propaggini del “tema fuga”.

Ma anche il tema del padre pervade il copione più di quanto mi potessi immaginare: intanto, il fatto che tutti e tre personaggi avessero (anche se declinati in maniera diversa) come ossatura principale il tema del conflitto con il padre (biologico o psicologio o simbolico che sia) per me è arrivato come una novità, e che questo poi si unisse perfettamente al tema del contesto storico, è stata una perfetta quadratura analitica.

Certo, da un lato era presente nella premessa di tutto il film (era già dentro sia il memoir di Lulli, sia dentro il vero episodio, che avevamo davanti a noi e che stavamo per raccontare) ed è stata anche in parte una scelta razionale – il lato analitico di me e Lantieri ha provato a legare gli aspetti in quel feedback che vede ogni sceneggiatura procedere con slanci sia creativi sia

riflessivi, ma principalmente è avvenuto per associazioni d’idee, a volte solo casuali, di cui al tempo non eravamo consapevoli.

Stesso ragionamento, credo, si possa applicare anche alla creazione dei personaggi. Attuando il ruolo di autori, sicuramente abbiamo seguito dei

pattern di personalità umane (partendo dalle persone vere e plasmandoli, a

secondo di quello che ci serviva per lo sviluppo drammaturgico e narratologico), tuttavia, senza mai fare lo scarto che poi ho dovuto fare come analista, cioè compiendo lo sforzo di categorizzare, di trovare invece dei modelli teorici per definire sapientemente i ruoli di personaggi, come, per esempio, il Destinatore o il Mentore, piuttosto che il Trickster.

Questo è successo anche per quanto riguarda la comicità. Mentre per un discorso politico e storico c’è stata un’analisi razionale, a tavolino (quasi da studiosi, appunto) la scrittura del comico si è basata su un approccio più istintivo e intuitivo, “a pelle”, basandosi sulla semplice domanda: “questa soluzione ci fa ridere, o no?”.

Solo con l’analisi sono riuscito a capire perché alcuni meccanismi facevano scattare la comicità, e perché in sé tutta la storia fosse una sorta di quello che ho chiamato “effetto Hitchcock al contrario”. A questa consapevolezza, tra l’altro, ci sono arrivato passando anche attraverso l’analisi del sapere e delle polarizzazioni di Gremais, cioè ragionando sul fatto che ne I

primi della lista ci sia un carico di informazioni esterne all’opera stessa – la

consapevolezza storica che il colpo di stato non è avvenuto, che fa sì che lo Spettatore ne sappia di più di tutti, sia del Personaggio, ma anche, in qualche modo, dell’Enunciatore che si è dovuto adeguare al punto di vista e quindi all’ “ignoranza” del Personaggio che è il punto di vista del film, arrivando quindi

(forzando il concetto quel tanto che è necessario per renderlo ermeneuticamente efficace) a quel caso insolito: P≤En<Sp che abbiamo già analizzato e che ci ha fatto scoprire che la comicità intrinseca dell’episodio si basava, in realtà, su un meccanismo anche di stratificazione semiotica molto più complesso ed intrigante.

Il fatto che la sceneggiatura sia tratta da un episodio reale ci ha portato a usare alcune forme ibride che, rianalizzandole, ci portano a una riflessione su come sceneggiatori e registi utilizzino strumenti dell’analisi semiologica per trovare nuove connessioni e soprattutto rivedere scelte fatte sul proprio copione.

A volte, come per la battuta di Masi: “[…] e se l’avessimo fermato noi, con questo gesto, il colpo di stato!?”, abbiamo applicato retrospettivamente al suo personaggio inserito nella finzione una battuta della persona reale, però espressa quarant'anni dopo. A volte abbiamo usato adattamenti letterari ma non del soggetto principale del Lulli – come per Il sogno di una cosa di Pasolini – e ribaltandone il tono da serio a comico. Insomma, quest’analisi incrociata, questo feedback fra realtà e finzione, è risultato decisivo per dare il massimo della forza alla storia e ai personaggi. Questo mescolamento, come fra vasi comunicanti, ha creato la miscela chimica dotata delle potenzialità migliori.

Mi viene in mente in questo senso il “non finito” michelangiolesco. Cioè, una sorta di sostrato di realtà e verità da cui spuntano di volta in volta forme artistiche e narrative più costruite e di finzione. Tra l’altro, dopo quest’analisi e rilettura, credo di poter asserire che questo tipo di lavoro di

sceneggiatura presenta i suoi spunti migliori proprio in quella terra di mezzo, in quel confine labile e, alla fine inconoscibile, che sta tra verità e invenzione.

L’adattamento dal soggetto del Lulli ha spesso voluto dire partire da un sentimento o episodio vago per arrivare a una messa a fuoco utilitaristica: in altre parole, usare qualunque risorsa che potesse risultare la più utile per scolpire i personaggi in un loro unico carattere e in una loro unica parabola.

E stessa cosa, come mi viene spontaneo dire, che è successa per l’adattamento dal fatto vero. Solo che qui spesso si partiva non da una vaghezza endemica, come nel soggetto di Lulli, ma da una precisione e da dettagli minuziosi che abbiamo usato forzandone a volte la natura. L’esempio più chiaro è aver dato in sceneggiatura l’unica carta d’identità valida per l’espatrio a Lulli anzichè a Gismondi, che ne era il vero proprietario.

Questo tipo di “conflitto” fra lo strumento razionale e analitico e l’ispirazione più intuitiva e libera, si è poi delineato in maniera lampante nella primissima fase del lavoro sulla sceneggiatura – quando si è dovuto scegliere fra una versione e stile non-lineare e un’altra, che seguisse, invece, in maniera più naturale il filo dell’episodio reale. E in modo altrettanto lampante si è potuto analizzare come questo “conflitto” sia stato, in realtà, non solo una risorsa per la scelta migliore rispetto a quel bivio, ma di come ci abbia permesso di utilizzare alcuni spunti della versione scartata per conferire un’incisività maggiore e una originalità alla strada che avevamo di fatto intrapreso. Questo mi ha portato a individuare anche quelli che ho denominato “i fossili” della versione alternativa.

Provando varie strade, insomma, si può, con la dovuta attenzione e cautela, riuscire nel difficile trapianto genetico di innestare nell’altro corpus elementi di un diverso approccio. Se poi continuiamo a ragionare su questo metodo di lavoro potremmo anche arrivare a domandarci: se, in fondo, non sia, forse, un meccanismo molto simile a quello che ci ha portato a innestare altri episodi veri, altro materiale letterario o aneddotico, dentro la nostra storia.

In generale, direi che ho notato in diversi momenti della scrittura come siamo riusciti a riapplicare in modo nuovo strumenti di studio e semiotici che ho appreso nel corso della mia formazione, non solo nella rilettura e revisione della sceneggiatura (che, direi, è il momento che più si presta a questo tipo di analisi) ma anche (in maniera inconscia e non) nella scrittura vera e propria.

Il privilegio di essere autore dell’opera che analizzavo, stava nel sapere con precisione ogni scelta e variabile di scelta che avevo preso o scartato; c’era il vantaggio supplementare di essere in grado di analizzare ipotesi che, per periodi durati da un’ora a varie settimane, sono state possibilità concrete di vedere alla fine un film diverso da quello che è adesso.

Quanto vale il poter analizzare l’opera, non come cosa data e impressionata nella pellicola, ma potersi addentrare nelle vie alternative come se fossero allo stesso livello di dignità artistica? E’ stato un privilegio incalcolabile.

Allo stesso tempo c’è stato il privilegio opposto: ovvero di essere analista e quindi potersi interrogare (anzichè difendere il film senza se e senza

ma, come un regista fa istintivamente o addirittura dovrebbe fare) 179 in

merito al dilemma se le scelte compiute siano state le migliori, se, ripercorrendole, si possono individuare meccanismi creativi deboli o opinabili, o invece replicabili (anche se dapprima inconsci e adesso, dopo il lavoro di analisi, chiari).

Credo che ci sia sempre questa sorta di costante feedback fra il lavoro creativo e quello analitico, e che, nel mio caso, quello analitico spesso assomigli – o comunque nasca e sia stato influenzato – dal percorso di studi universitari che ho fatto. Ed è stato così, rileggendo e rianalizzando le scelte compiute, che mi sono accorto che molte delle riflessioni più produttive per scrivere I primi della lista sono anche derivate dagli studi narratologici e dei film che ho affrontato durante gli anni della mia laurea e del dottorato.

Ho una convinzione crescente che queste due professioni o campi (lo studio teorico del cinema e il lavoro pratico dello sceneggiatore e regista) siano troppo distanti e si aiutino troppo poco. Ho inoltre la convinzione che il destino migliore dei dipartimenti e dei corsi che si occupano di cinema, di teatro, di musica, e dello spettacolo sia di integrare sempre di più la pratica con lo studio della teoria e della Storia, di mescolare intimamente questi due rami che rimangono (qui in Italia perlomeno) fin troppo separati.

Esprimendo, in conclusione, la speranza di aver dato un piccolo contributo ai suddetti obiettivi scrivendo questa tesi, sono sin d’ora assai contento di esserne uscito con una consapevolezza maggiore dei miei strumenti, non solo come studioso, ma anche come autore di film.

                                                                                                               

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