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La consulenza tecnica nel processo civile

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

LA CONSULENZA TECNICA NEL PROCESSO

CIVILE

Candidato Relatore

Giulia Bellagotti Chiar.mo Prof. Claudio Cecchella

(2)
(3)

“I giovani che usciranno dalle facoltà giuridiche

porteranno con sé l'orgoglio di essere chiamati nella

società, come avvocati o come giudici, a una missione così

alta come quella dell'applicazione della legge.

E qualunque sia il vostro partito, dovete sentire che vi è

nello Stato una forza superiore ai partiti, che è la giustizia,

e dev'esser per voi impegno d'onore impedire che le ire di

parte la sfiorino, che gli intrighi di corridoio la

corrompono, che le ambizioni dei politicanti

l'avvelenino...”

P. Calamandrei

(4)

INDICE SOMMARIO

INTRODUZIONE . . .

1

CAPITOLO I - Evoluzione della disciplina

1 Dal giusperito ai consilli nell’età comunale . . . .4

2 La consulenza nei codici pre-unitari . . . 14

2.1 La perizia nel codice unitario . . . .21

2.2 “Carnelutti legislatore” . . . 26

3 I progetti di riforma al nuovo codice di procedura civile . . .30

3.1 Il progetto Chiovenda . . . .33

3.2 Il progetto Mortara ed il progetto Carnelutti . . . 35

3.3 Il progetto Redenti ed il progetto Solmi . . . .39

4 La consulenza tecnica nel codice di procedura civile del 1942. . . .42

4.1 Le figure affini e controverse . . . .48

4.2 L’albo . . . 50

4.2.1 La formazione . . . 51

4.2.2 Requisiti richiesti . . . 55

CAPITOLO II - Profili processuali

1 La nomina con la L.69/2009 . . . .59

1.1 La natura discrezionale del provvedimento. . . . 62

1.2 Uno sguardo al passato: i tempi e le preclusioni 65 1.3 L’ordinanza di nomina . . . 69

(5)

1.5 Il giuramento . . . .76

2 Il contraddittorio . . . .78

2.1 Oggetto della consulenza tecnica . . . .80

2.2 La comunicazione alle parti . . . 83

2.3 Il consulente tecnico di parte: la nomina . . . 84

2.4 Attività del consulente tecnico . . . .91

2.5 L’attività del C.T.P. . . . 95

2.6 Esame dei documenti . . . 96

3 La relazione . . . 101

3.1 Assenso-dissenso del giudice . . . .104

4 Rinnovazione C.T.U. . . . .107

5 La sostituzione. . . . 109

6 La nullità della C.T.U: il caso . . . .109

CAPITOLO III – La consulenza tecnica

nell'affidamento dei minori a seguito dei

procedimenti di separazione e divorzio

1 L'importanza della consulenza tecnica . . . 112

2 La separazione e gli effetti sui minori . . . .114

3 La disciplina previgente . . . .115

3.1 Inquadramento normativo . . . 118

4 Linee guida: il protocollo di Milano . . . 125

4.1 L'esperto psicologo . . . .126

4.2 Il quesito . . . .127

5 Modello di accertamento peritale: la consulenza “sistemica” . . . 129

5.1 La consulenza di matrice psicoanalitica . . . .130

(6)

6 L'attività del C.T.U. . . 132

7 L'attività del C.T.P. . . .134

8 L'ascolto del minore . . . .135

9 Il caso . . . .139

CAPITOLO IV - Responsabilità e compensi

1 La responsabilità in generale . . . 141 1.1 La responsabilità disciplinare . . . .141 1.1.1 Alcuni esempi . . . .143 1.1.2 Procedimento disciplinare . . . 145 1.1.3 Sanzioni disciplinari . . . .146 2 La responsabilità civile . . . .148

2.1 Il grado della colpa . . . .150

2.2 L'applicazione dell'articolo 2236 c.c . . . 151

2.3 I danni risarcibili . . . .152

3 La responsabilità penale . . . .153

4 Il caso . . . .157

5 Il compenso del C.T.U. . . .159

5.1 Gli onorari . . . .161

5.2 Indennità di viaggio e di soggiorno . . . 162

5.3 Rimborso spese sostenute per l'adempimento dell'incarico . . . 163

6 Il compenso negli incarichi collegiali . . . 163

(7)

CAPITOLO V – Oltre i confini nazionali: un

sintetico raffronto con l'ordinamento americano

1 I limiti della scienza nel processo . . . .166

2 Le difficoltà del giudice . . . 169

3 Expert Testimony . . . 170 4 Il caso Frye . . . .172 5 Il caso Daubert . . . 173CONCLUSIONI . . . .176BIBLIOGRAFIA . . . 179SITOGRAFIA . . . .187NORMATIVA . . . .191GIURISPRUDENZA . . . 192RINGRAZIAMENTI

(8)

INTRODUZIONE

Nella presente trattazione è analizzata la figura della consulenza tecnica e la sua importanza in ambito processuale.

A ben vedere, si tratta di un settore in cui i professionisti, i c.d C.T.U e C.T.P, svolgono un ruolo di primo piano che richiede sempre più frequentemente rilevante specializzazione e repsonsabilità.

Non si può non sottolineare che la realtà e le singole articolazioni dell’istituto della consulenza tecnica d’ufficio, come anche il ruolo del C.T.U, che trovano omologhi in ogni diverso sistema processuale, per essere compresi vanno calati nel contesto più ampio del processo civile, informato intimamente dai principi di parità delle parti, parità delle armi, contraddittorio, imparzialità del giudice, ma, soprattutto, dal principio dispositivo in materia di prova (art. 115 c.p.c.), con il risultato complessivo di un processo volto più allo scopo di risolvere le controversie che non alla conoscenza della verità dei fatti (o delle deduzioni difensive) come necessario presupposto. E’ però significativo che l’istituto di cui ci occupiamo costituisca forse la più rilevante eccezione, sia pure circoscritta e delimitata, al principio dispositivo, a significare che, in molte occasioni, lo strumento della conoscenza della verità dei fatti costituisce un imprescindibile criterio di risoluzione delle controversie. Il CTU, dunque, viene in gioco quando il sistema non può fare a meno di conoscere la sussistenza o meno di determinati fatti, per raggiungere le finalità di giustizia che gli sono proprie. E questo già di per sé fa ben percepire quale essenziale ruolo svolga il CTU nel processo civile.

La consulenza tecnica, poi, trova una propria collocazione a livello codicisctico: nel Libro I “Disposizioni generali”, Titolo I “Degli organi giudiziari”, Capo III “Del consulente tecnico, del custode e

(9)

degli altri ausiliari del giudice” (art. 61-64 c.p.c); Libro II “Del processo di cognizione”, Titolo I “Del procedimento davanti al Tribunale”, Capo II “Dell’istruzione della causa”, Sezione III “Dell’istruzione probatoria”, “Della nomina e delle indagini del consulente tecnico” del c.p.c. (art. 191-201 c.p.c.); Titolo II “Degli esperti ed ausiliari del giudice”, Capo II “Dei consulenti tecnici del giudice”, Sezione I “Dei consulenti nei procedimenti ordinari” delle disposizioni di attuazione del c.p.c. (artt.13-23); Tiolo III “Del processo di cognizione”, Capo II “Del procedimento davanti al Tribunale”, Sezione“Dell’istruzione della causa” (artt. 89-92 disp. att. c.p.c). La descritta distribuzione sistematica, è indicativa di una ripartizione nella disciplina dell’istituto, tipica, in realtà, dell'intero impianto codicistico, tra parte statica e dinamica. Infatti, tale bipartizione connota anche la strutturazione della mia tesi. Ora, la parte statica governa soprattutto lo status del soggetto processuale; la parte dinamica, invece, attiene prevalentemente al processo e alle posizioni giuridiche attive e passive. Quest'ultima ha come scopo quello di garantire il rispetto del principio del contraddittorio e quello della ragionevole durata del processo. Pertanto, stando alla seguente bipartizione, ho affrontato nel primo capitolo la c.d parte statica, tenendo conto dell'evoluzione della consulenza tecnica. Inizialmente ho affrontato le origini della stessa che già, anche se sotto diversa forma e denominazione, si ritrovano nel diritto romano. Successivamente mi sono calata nell'analisi della stessa, interrogandomi se essa sia o meno un mezzo di prova, procedendo a ritroso nella valutazione e nei cambiamenti che hanno portato ad escludere tale ipoesi. Per poi arrivare a quella che è la consulenza tecnica oggi, partendo proprio dall'iscrizione nell'albo ed i requisiti richiesti per poter essere consulente tecnico. Nel secondo capitolo ho invece affrontato la c.d parte dinamica, quella più strettamente

(10)

processuale. In essa ho analizzato il tema del contraddittorio tra i consulenti, che vede la contemporanea presenza del consulente tecnico di parte e di ufficio e le garanzie ad esso connesse. In questo capitolo ho tenuto conto anche i temi affrontati nella Conferenza su “Le conoscenze esperte nel processo civile” tenutasi a Firenze e a cui ho avuto il piacere di partecipare, menzionando anche i pareri espressi sul tema da Professori e Avvocati.

Nel terzo capitolo ho invece esaminato la C.T.U da un altro punto di vista: il tema dell'affidamento dei minori a seguito dei procediment di separazione e divorzio. L'importanza del consulente tecnico in tema di ascolto del minore e le novità introdotte a seguito del D.lgs del 28 dicembre del 2013, n154. Ho inoltre, esposto un caso di C.T.U nei casi di alienazioni parentale e le modalità in cui si esplica la consulenza tecnica in tale settore.

Il quarto capitolo riguarda l'aspetto dei compensi spettanti al consulente tecnico e le responsabilità in cui incorre il C.T.U.

L'ultimo capitolo, invece, analizza il tema della consulenza tecnica da un punto di vista comparativistico in relazione a due noti casi. Si tratta di un capitolo che risente anch'esso della mia partecipazione alla conferenza di Firenze (prima menzionata), ove il Professor Dondi ha trattato il modo in cui il caso Daubert ha stravolto il mondo giuridico statunitense sulla consulenza tecnica e delle conoscenze scientifiche.

(11)

CAPITOLO I

Evoluzione della disciplina

1. Dal giusperito ai consilii nell'età comunale

In tutti gli ordinamenti, si è da sempre sentita l'esigenza, da parte di magistrati e giudici, di avvalersi delle conoscenze esperte. Spesso i temi trattati in ambito processuale presentano profilo ad alto contenuto tecnico e, senza il parere di un esperto del settore, la decisione del giudice non sarebbe sufficientemente equa e precisa. A tal fine, il legislatore ha disposto all'interno dell'art 61 primo comma c.p.c :” Quando è necessario, il giudice può farsi assistere,

per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica.”

Negli ultimi anni, è stata data grande importanza alla C.T.U, anche a seguito del progresso scientifico e tecnologico che ha richiesto conoscenze specifiche in determinate materie, di cui il giudice era sprovvisto. Per questo, ritengo necessario svolgere un'analisi dettagliata della consulenza tecnica, la quale si afferma già a partire dal diritto romano, ambito in cui le consulenze venivano svolte da giuristi preparati nelle specifiche discipline, sulle quali avrebbero dovuto porre il loro esame ai fini della decisione. 1

La più importante testimonianza che abbiamo per quanto riguarda l'evoluzione della giurisprudenza romana ci è offerta da Pomponio, in una sua lunga narrazione inserita nel Digesto (II. d.C) .2

Qui, inizialmente la figura del giureconsulto (o giusperito) non era

1 E. Protetti, M.T.Protetti, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè Editore, 1999, p.1

2 Consilia, sezione di storia del diritto medievale e moderno in www.historia.unimi.it

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regolamentata, ma nonostante questo non si può non far menzione della notevole rilevanza che, all'epoca, veniva rivestita non solo dai magistrati che si occupavano di applicare le leggi, ma anche e sopratutto dagli esperti. Entrambi contribuivano, in maniera rilevante, al miglioramento del diritto.

Pomponio si rese conto che era necessario, al fine di regolare i rapporti instauratosi tra i privati, procedere ad un'interpretazione corretta ed efficace delle leggi. Questo compito che inizialmente veniva praticato dai pontefici, successivamente venne svolto dai

prudentes, ovvero gli esperti del diritto (iuris prudentes).3

Dal IV-III secolo, infatti, si determinò il passaggio che portò dalla giurisprudenza pontificale alla scienza giuridica laica, basata sulla ragione e sui legami con la tradizione.

Ci si rese conto che un difetto della giurisprudenza di allora era di non stare molto attenta a quella che era la sostanza delle cose, aspetto questo che avrebbe portato ad una sorta di “deformalizzazione”, che non era ben vista dai pontefici che nell'età arcaica si erano trovati di fronte ad un diritto per lo più formalistico.

Ma c'era di più: se fino ad allora si era assistito ad un'attività dei sacerdoti che operavano con segretezza, ad un certo punto si iniziò ad assumere un nuovo modo di intendere la conservazione giuridica, ovvero la possibilità di renderla pubblica.

Fu per questo che il monopolio pontificale cominciò così a subire un duro colpo, incrementato ulteriormente dalla pubblicazione da parte di Cneo Flavio, scriba di Appio Claudio Cieco, del calendario dei giorni fasti e dei formulari delle legis actiones. 4

3 “La repubblica” in www.didattica.unitus.it

Il fatto che per molto tempo ci sia stato questo ruolo predominante di una classe formata da pontefici-esperti, ovviamente, non può essere messa in dubbio: se ne trova conferma nelle fonti, ma, per di più, è confortata dalla constatazione secondo la quale vi è una forte compenetrazione tra la componente civilistica e quella sacrale.

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Si iniziò, così, a diffondere, alla fine del IV secolo a.C, una forma di produzione giuridica non più ancorata ai formulari negoziali e processuali. E fu proprio in questo periodo che si sviluppò ulteriormente l'attività del giureconsulto, dal latino iuris o

iure-consultus, un soggetto dotato di vasta conoscenza sui principi

generali del diritto. Si trattava di una figura di primaria importanza all'epoca, in grado di divulgare il suo sapere mediante pubblicazioni o volta a dare consulti e decisioni, contribuendo al progresso delle discipline stesse.

A Roma i giureconsulti avevano un ruolo rilevante ed una considerevole posizione sociale e politica, proprio a causa della loro influenza sullo svolgimento del diritto.

Tuttavia l'insieme delle attività svolte dal giureconsulto iniziò a crescere e ad espandersi, facendosi più intensa in età ciceroniana. Cicerone, infatti, ritenne che l'attività svolta dai giuristi nel periodo della laicizzazione era da distinguersi in tre modalità: agere, cavere e

respondere. 5

Il cavere consisteva nel curare un interesse mediante atti, nel consigliare le clausole dei contratti e le cautele per assicurare diritti e prevenire le controversie. L'agere invece si caratterizzava per la sua peculiarità nel fornire consigli ai difensori delle parti e nel coadiuvarli nelle loro difese.6 Ma la vera attività del giureconsulto si

concretizzava nel respondere e nel responsum che egli forniva.7 Respondere, offrire consulti, rispondere a quesiti che venivano

presentati da soggetti privati, magistrati o da giudici. 8

ridimensionare questa notizia, secondo alcuni studiosi non fece altro che contribuire ad un ulteriore diffusione della scienza pontificale, anziché procedere ad introdurre elementi nuovi che portarono alla vera crisi del formalismo.

5 “La repubblica” in www.didattica.unitus.it

6 Agere, cavere, respondere in www.iuscavere.blogspot.it 7 Derecho en red in www.derechoromano.it

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Questo tipo di attività non si esauriva solo ed esclusivamente nel fornire pareri o consulti di carattere giuridico, ma poteva riguardare anche, ad esempio, la possibilità per un padre di dare in sposa la propria figlia o il valutare l'opportunità di acquistare un terreno.9

Ambiti questi non strettamente processuali.

I responsa giurisprudenziali che si trovavano negli archivi familiari del consulente e che venivano analizzati e riproposti dai suoi

auditores ed i loro allievi erano spesso sintetici, concisi e privi di

motivazione e tendevano a fare richiami a giuristi precedenti per avvalorare o confermare le loro teorie. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che il valore del responsum era proprio l'oralità, il tramandare un parere che non era scritto in una pagina, fisso ed immutabile, ma si affermava in via dialogica, attraverso il confronto tra il giusperito e le parti. Il superamento dal periodo precedente, connotato dalla presenza predominante dei pontefici, trovò una conferma ulteriore in questo tipo di attività, che mette in luce il rapporto tra la voluntas (volontà) e le parole (verba) nell'analisi di norme autoritative e clausole negoziali, segnando il definitivo abbandono dell'approccio formalistico al diritto, a cui erano tanto legati gli uomini di chiesa del tempo. Ad incrementare, ancora una volta, il ruolo del giusperito contribuì anche il notevole sviluppo di tecniche interpretative sempre più raffinate fondate su schemi logici ed espositivi.

L'attività importantissima svolta dai giureconsulti fece sì che questi conservassero grande importanza anche dopo la caduta di Roma, il loro parere ebbe sempre funzione consultiva.10

E fu proprio questa funzione di “consulto” che connotò il ruolo da essi svolto, ma che in realtà finirà per manifestarsi molto più tardi,

9 F.Arcaria, O.Licandro, Storia costituzionale di Roma, Torino, Giappichelli, 2014, p. 220

10 L.Franchini, La nozione di laicità nella giurisprudenza romana in www.ledonline.it

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nell'età dei comuni. 11 In quegli anni si sviluppò un importante

genere letterario, quello dei consilia. Si trattò di opere strettamente legate all'attività del consulente svolta dai giuristi: come nell'antichità romana l'attività più autorevole che un giurista potesse svolgere era quella del respondere, qui si affermò un nuovo modo di rivolgersi al giurista-consulente attraverso le varie forme di consilii.

Mario Aschieri, infatti, in un saggio del 2003, individuò ben cinque tipologie di consilli, ma in realtà analizzerò solo alcune di queste, in particolare quelle in cui emerge in misura maggiore l'importanza e le funzioni svolte dall'esperto. Lo stesso Aschieri, in uno studio sulla prassi consiliare, si rese conto che il consilium presentava degli aspetti funzionali peculiari, destinati a creare uno stato di tensione durante il basso medioevo: formato da un corpo di tecnici che non risultava essere ben integrato nelle strutture di governo. Svolgevano un ruolo quasi di supplenza del giudice, tanto che furono considerati degli strumenti atti a “deresponsabilizzare” il giudice ordinario, che si limitava ad inserire il tenore del consilium nella sentenza. Si trattò fin da subito di un pericolo, avvertito soprattutto in ambito ecclesiastico e canonico, da personaggi di spicco, quali Guglielmo Durante che conosceva bene la prassi italiana e francese. Durante aveva individuato le disuguaglianze tra Italia e Francia, dove i

consiliarii:”nec premissi consiliarii audient disputationes advocatorum, sicut in Lombardia e Tuscia vidimus observari“; in

particolar modo si era reso conto del punto più complicato di quest'istituto, ovvero che potesse risultare un mezzo per sostituirsi al giudice, compiendo atti processuali, esaminando documenti, ascoltare testimoni.12

Ma in sede di politica comunale, il consilium sapientis iudiciale si

11 “L'evoluzione del modello comunale” in www.mondimedievali.it 12 G.Rossi, Consilium sapientis iudiciale: studi e ricerche per la storia del

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sviluppò al punto tale da risultare uno strumento utile, volto soprattutto al controllo dell'attività dei giudici forestieri da parte di giuristi cittadini. E' necessario però tener conto che nel settore comunale vi era una complicanza in più. Le città del XIII e XIV secolo avevano un governo su base bipartita: il potere esecutivo era di spettanza di una familia di magistrati e giudici forestieri; i provvedimenti aventi natura politica, invece, erano riservati al consiglio comunale ed ai vari organi di governo corporativi, come il consiglio degli Anziani o i Priori. Spesso accadeva che i giudici forestieri fossero in difficoltà circa l'interpretazione o la risoluzione di un determinato caso dubbio e di conseguenza si rivolgevano ai sapienti consultori locali, la cui carica era ricoperta da giuristi di scuola o giudici. Si creava così tra giudici forestieri e consulenti, all'interno di quelli che erano i consigli cittadini, una sorta di coesistenza non coordinata.

In sintesi avevamo: da un lato, la prassi consiliare che consentiva ad una classe di sapienti esterno alle istituzioni di governo, ma ben radicate nell'élite politica cittadina, di intervenire nelle cause giudiziarie sostituendosi ai giudici forestieri; dall'altro avevamo riferimenti tecnici e culturali delle soluzioni trovate dai giuristi che erano profondamente influenzati dagli schemi del diritto colto- a volte raccordati al dettato degli statuti cittadini che gli stessi giuristi avevano contribuito a scrivere- ma non sempre erano coerenti con gli indirizzi di politica giudiziaria stabiliti dal comune e imposti ai giudici forestieri.13

Il consilium sapientis iudiciale è fenomeno di istituzionalizzazione (rispetto ad un'organizzazione giudiziaria stabilmente integrata da laici) della collaborazione di esperti, complementare all'assessorato collegiale. Della commistione di fatto e di diritto nell'istituto

13 “Consilia: il modello di Andrea Alciato. Tipologie formali e argomentative fra il mos italicus e il mos gallicus” in www.cliothemis.com

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consultivo, in cui risiede la nascita della moderna perizia civile, rimane emblematico il caso esposto in un noto consilium medievale, espresso nella causa promossa da una donna, una certa Baldaniana. Scioltasi dal matrimonio con Ugolinus, chiese in giudizio che il marito le restituisse il doppio della dote di sessanta lire lucchesi che le aveva dato trentasette anni prima (1167), anno in cui si era sposata. Fu così che il consilium accolse la richiesta e statuì la condanna in

duplum. Già si comprende che per giungere a tale conclusione non

bastava solo il materiale giudico, ma era necessario introdurre in causa una serie di fatti secondari in relazione alla dinamica macro-economica del tempo, fatti da cui inferire la percentuale di deprezzamento della moneta per effetto del suo minor peso o della inferiore qualità di conio. Come a dire che il primo valore aggiunto

dell'esperto è quello di conferire sempre nuovi fatti generali alla materia dubbia. 14

Questo esempio è uno dei tanti casi che trovarono terreno fertile nel

consilium sapientis iudiciale, istituto di natura processuale e

consuetudinaria. 15

Nella tradizione comunale, il consilium veniva disposto dal giudice su richiesta di una delle parti o di entrambe. Il giudice individuava il

sapiens che doveva essere accettato anche dal o dai richiedenti. Il

dubbio prospettato dal giudice doveva risultare valido, quindi suscettibile di risoluzione da parte di uno specialista. Talvolta, però, il confine tra la richiesta perentoria di una parte e la dubitatio approvata dal giudice non era chiara. Davanti ad una petizione motivata di un procuratore, in altre parole, il giudice concedeva la consulenza anche per evitare le conseguenze di una probabile contestazione del processo in altra sede, per esempio durante il

14 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, Cedam, 2002, p.24

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sindacato (l'esame del suo operato condotto da cinque giudici cittadini a fine mandato).

Di norma, il consilium era a spese del richiedente se a volere il

sapiens era una parte soltanto, altrimenti era a carico di tutte e due le

parti, se era voluto da entrambe.

Dopodiché il consulente promulgava un parere sulla legittimità della

quaestio che gli era stata rivolta. Il suo consilium solitamente veniva

accolto in sentenza. Ovviamente, vi era la possibilità per il giudice di respingere la consulenza presentata, ma nel caso in cui si verificasse questa ipotesi il giudice era costretto a formulare una successiva

quaestio ad un nuovo consultore e ricevere questo secondo parere

nella sentenza.16 Il consilium iudiciale era il luogo dove emergeva in

misura maggiore la sapienza del consulente, impostata sullo ius come criterio guida delle sue decisioni ed anche in questa seconda quaestio l'esperto doveva analizzare gli atti che mostravano le divergenza che vi erano tra il giudice e le parti.17 Le forme di questo esame sono

difficili da cogliere, poiché nella maggior parte dei casi nella stesura finale non si conservano sempre le tracce della procedura seguita dai

sapientes.

Un aspetto significativo per capire il livello giurisdizionale reale occupato dal consilium è costituito dai mezzi di prova utilizzati dai consultori. Nella maggior parte dei casi, la menzione di questo momento era presente nell'atto del consilium solo come appunto, sintetizzato nella formula latina visis et inspectis rationibus o iuribus. Questo brocardo stava ad indicare la presa visione e ispezione dei diritti, quindi sicuramente il consulente veniva a conoscenza di quello che era l'incartamento scritto, ma a volte, soprattutto nelle cause più gravi, vi era la possibilità per le parti di poter dibattere in

16 “Consilia iudicialia: sapienza giuridica e processo nelle città italiane” in http://webcache.googleusercontent.com

17 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatorio mediante consulente tecnico, Padova, Cedam, 2002, p.24

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forma orale dinanzi al consultore. Vi sono molte cause che facevano riferimento a questa possibilità: una fu nel 1276, relativa alla distruzione dei beni di un bandito in cui vennero sentiti i testimoni, portati dal curatore, con il relativo ricorso all'usus loci, cioè alle consuetudini della città, un sapere a cui il giudice forestiero difficilmente poteva attingere.

Dunque, un dato è certo: si riesaminano gli atti, le testimonianze e le confessioni fatte dalle parti e dai loro testimoni, ma si ascoltano anche i due litiganti con le loro nuove allegazioni.

Un paragone importante per l'attività consiliare è rappresentato dal caso di Milano verso gli ultimi anni del Duecento. Lì la situazione era forse più complicata, perché avevamo un vero e proprio “trasferimento” del giudizio di primo grado dal giudice ordinario, che spesso era un forestiero, verso i giusperiti cittadini che compievano tutti gli atti istruttori. Se le parti lo richiedevano, i giudici lasciavano la causa ai periti che guidano l'intero confronto processuale: ascoltavano le accusa, le positiones e le contestazioni di lite, valutavano le prove, allegationes et probationes. A Milano, la prassi prevedeva la possibilità di nomina di un sapiens che poi di fatto si riuniva con altri fino a creare un collegio, tanto da farla sembrare come un regola della consulenza milanese.

Oltre al consilium processuale, un'altra forma di consulenza è composta dai pareri dati dai giuristi a ufficiali comunali che, davanti ad un caso dubbio o ad un'eccezione procedurale, delegavano la soluzione ai sapienti. Un primo esempio di ricorso al consilium è negli anni '60 del Duecento, quando si creò un ufficio di banditi del

comune, presieduto da un giudice e da un miles. Quest'ufficio riceveva spesso le eccezioni da parte dei procuratori dei banditi che obiettavano sulle regolarità del bando o la correttezza della procedura in cui veniva svolto: in questi casi i giudici delegavano la soluzione

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ad uno o più giuristi. Il tema del bando era delicato e per molti anni rimase al centro della discussione, ma ciò che interessa è la procedura seguita da giudici e consultori. I primi consilia del 1250, infatti, non specificavano quali atti dovevano fare i consultori: alcune volte si affidava al procuratore il compito di effettuare un riesame, altre volte si chiamavano i testimoni. In ogni caso i consultori dovevano esprimere un giudizio di merito sulla petitio del procuratore o della parte, come la petizione ha comprovato. Si formava una procedura mista, quasi d'appello, con un nuovo modello giudicante formato da giuristi consultori.

E' evidente che il consilium contenesse un giudizio sulle prove prodotte dalla parte richiedente circa le irregolarità amministrative dei funzionari del podestà. Si tratta di un livello giurisdizionale di merito e lo sarà sempre di più negli anni a seguire.

Altra tipologia sono i consilia collettivi presi da bàlie di giuristi che agiscono in via mista, in parte come collegio di sapienti e in parte come organi decisionali del comune. Vi è un ingente patrimonio di

consilia collettivi, il cui interesse è duplice: da un lato si confermava

la complessità del rapporto tra giuristi e strutture politiche del comune e dall'altro si constatava che le materie affrontate non erano solo di carattere giuridico. Anzi dalla casistica di Perugia e di Bologna potevamo individuare tre campi di intervento: il primo era occupato da questioni di natura giudiziaria, derivanti dall'interpretazione degli statuti; il secondo riguardava i rapporti tra città e comunità del contado per stabilire le modalità di sottomissione o alleanza anche della guerra; il terzo caso, i consilia per risolvere le vertenze con i poteri sovralocali, in particolare col papato.

Ultimo consilia, non di minor importanza , è quello pro parte, ovvero il parere fornito dal giurista ad una delle parti nel corso di una controversia giudiziaria. Il dotto consultato aveva il compito di

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trovare gli argomenti giuridici per sostenere la posizione del soggetto che lo aveva incaricato. Questo consilia pareva più una memoria difensiva che il più delle volte faceva scattare la controparte che presentava un ricorso per tutelare i propri interessi. 18

Questa dissertazione fa comprendere quanto l'attività dei consilia sia notevole, al punto tale da svilupparsi non solo a livello nazionale, ma anche livello europeo, costituendo un base sicura su cui sviluppare l'attività consiliare degli anni successivi.

2. La consulenza nei codici pre-unitari

Sembra opportuno effettuare una ricostruzione diacronica che il problema dell'utilizzazione del sapere tecnico-scientifico nel processo civile continua ad avere all'interno dell'ordinamento italiano. Si tratta della tendenza a far coincidere l'utilizzo delle conoscenze extragiuridiche con la consulenza tecnica e con l'applicazione della relativa disciplina all'interno del processo. 19

Nella cultura processualcivilistica italiana, a differenza di quanto accade nel diritto penale e nella relativa cultura (soprattutto nell'ultimo ventennio), risulta del tutto assente un dibattito circa la qualificazione probatoria dei saperi specialistici usati per l'accertamento delle circostanze di fatto rilevanti per la risoluzione delle controversie.20 Inoltre, vi è anche la mancanza di una disputa

sulla qualità , da intendersi come affidabilità e correttezza dal punto di vista scientifico e tecnico, delle informazioni e delle conoscenze introdotte tramite il consulente. Oggi è opinione diffusa che mezzi come la C.T.U costituiscono a tutti gli effetti uno strumento

18 Consilia iudicialia. Sapiena giuridica e processo nelle città comunali in https://mefrm.revues.org

19 F. Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, 2002, p30

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fondamentale per introdurre nel processo non soltanto le conoscenze necessarie per la corretta interpretazione di circostanze di fatto, ma anche di materiale probatorio autonomamente formato, o comunque acquisibile, per il tramite dell'esperto. La funzione del consulente è quella di procedere al convincimento del giudice su fatti rilevanti per la risoluzione della controversia, attraverso l'apporto di materiale conoscitivo usufruibile in termini strettamente probatori. A fronte di questa percezione, diffusa in dottrina e in giurisprudenza, si pone la disciplina della C.T.U che si colloca al di fuori dei mezzi di prova. A tale riguardo è necessario ripercorrere le varie tappe che hanno consentito il passaggio dalla perizia alla consulenza tecnica d'ufficio, tenendo conto degli apporti dottrinali e giurisprudenziali diffusi tra il XIX-XX secolo. 21

La caratteristica principale della disciplina continua ad essere l'estrapolazione della consulenza dai mezzi di prova tipici. Mentre in tutti i codici pre-unitari, prima ancora di confluire nel codice del 1865, la perizia era qualificata come mezzo di prova. In tali codici si fa nota la notevole influenza effettuata dal Code de procédure civile francese del 1806, dove si fa menzione del catalogo “des rapports

d'experts”, come mezzo di prova. Al di là del fatto che vi sia una

prevalenza della normativa francese, all'interno dei codici preunitari si rinviene anche una pluralità di soluzioni in tema di prova peritale. Quali esempi di codificazione differente da quella francese, si fa menzione degli ordinamenti di derivazione austro-ungarica e del ricorso, nel loro contesto, al perito scelto dal giudice. Altre soluzioni diversificate si ritrovano in altri ordinamenti, come in quello estense o in quello toscano, in cui si adottano soluzioni diverse e “culturalmente autonome”.

L'influenza esercitata dal Code del 1806 è talmente imponente che

21 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel proceso civile, Milano, Giuffrè, 2011, p.111

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talvolta si arriva a parlare di un'adesione totale, se non di una quasi imitazione, tant'è che sono numerose le riedizioni quasi identiche a tale codice. Questo approccio in alcuni codici si fa particolarmente sentire, al punto che la disciplina francese viene totalmente riprodotta. Non si fa riferimento solo all'an o al quomodo del ricorso dell'esperto, ma anche alle disposizioni relative alle modalità di selezione, assunzione e qualificazione probatoria. Una conferma in questo senso ci arriva dai codici parmense e i codici sardi del 1854 e 1859, tali da essere considerate delle traduzioni del codice di riferimento. Si utilizzano le stesse definizioni, con delle assonanze sia nel testo delle norme che nella titolazione delle rubriche in cui l'attività peritale viene inquadrata. Vi sono inoltre somiglianze anche per ciò che concerne la scelta del consulente, il numero, la regolamentazione delle loro attività, i loro poteri e quelli delle parti, il valore probatorio dei risultati e, infine, i poteri del giudice in merito all'utilizzo dell'opinione degli esperti. 22

Uno degli elementi caratterizzanti il codice francese del 1806 era la possibilità per il giudice di disporre la perizia, ma non di nominare i periti, compito spettante alle parti. 23

Ci sono delle similitudini che permangono nei codici per-unitari italiani rispetto a quello che è il codice di riferimento, ma vi sono anche delle innovazioni che occorre menzionare. 24

Sulla linea di una maggior specificazione di quelli che sono i compiti da attribuire agli esperti si menziona il codice per gli Stati Estensi. Si attribuisce al giudice l'individuazione dell'oggetto su cui deve esser svolta la perizia; si prevede inoltre che debba formulare “tutte

22 L.Mortara, Commentario al codice e alle leggi della procedura civile. Teoria e sistema della giurisdizione, Milano, Vallardi, 1923, p. 663

23 Le prove nel processo civile. Atti del XXV convegno nazionale, Milano, Giuffrè, 200, p.345

24 M.Taruffo, La giustizia civile in Italia dal '700 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, p.76

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quelle ulteriori istruzioni che ritiene opportune al migliore scoprimento della verità”. Una disposizione che si riflette anche sullo svolgimento della relazione peritale, che deve avvenire in via

“ragionata e distinta per ogni capo degli oggetti sopra i quali (gli esperti) devono riferire”. E' disposta inoltre la possibilità per la parte

di richiedere una consulenza d'urgenza, in tutti quei casi in cui “ si

faccia luogo a tenere ragionevolmente che venga a perire o cambiare di stato la cosa, la quale è per formare oggetto di civile contestazione”25 Anche il Regolamento del Granducato di Toscana si differenzia rispetto al codice francese per alcune peculiarità. In tale contesto si subisce l'influenza germanica e si assiste ad un potenziamento del ruolo del giudice. La scelta dei periti, inoltre, non è rimessa totalmente sulle parti, ma vi è disposta la possibilità per le parti di nominare un perito ciascuna e il terzo di esser nominato dal giudice stesso. Se invece le parti non provvedono, a quel punto il giudice nominerà tutti e tre i periti, attribuendone uno per parte e il terzo per l'interesse di ambedue. La disciplina in esame si differenzia, inoltre, da quella di riferimento per la previsione di istruzioni da fornire al perito, disposte dalle parti. Esse possono essere eventualmente modificate o confermate dal giudice e, come accade nella scelta del perito, se le parti restano inerti a quel punto spetterà al giudice fornirle. La relazione peritale dovrà essere esaustiva e contenere tutti gli elementi idonei per risolvere la questione.

Altra normativa che si distacca dal modello francese è quella del Regolamento generale del processo civile per il Regno Lombardo Veneto; in tale ambito si registrano impostazioni diverse rispetto al passato, sicuramente ciò è dovuto anche al diverso rapporto instauratosi tra lo stato e il singolo, cittadino esperto e istituzioni giudiziali. 26 L'aspetto di maggiore interesse in tale Regolamento è la

25 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, p.120 26 M.Taruffo, La giustizia civile, Bologna, Il Mulino, 1980, p.32

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configurazione dei doveri del giudice nel procedimento di assunzione della prova peritale. Sembra quasi attribuire al giudice stesso il compito di valutare che la perizia si svolga secondo determinate modalità. All'interno del Regolamento, infatti, si stabilisce che il giudice può disporre la perizia solo “in vista di necessità e , per conseguenza, dopo che esso avrà acquistato una sufficiente cognizione dell'oggetto controverso”27 La previsione di specifici

compiti al giudice è controbilanciata dalla presenza di doveri, quali la motivazione, ovvero specificare la ragione che giustifica il ricorso alla perizia. Un altro aspetto che differenzia tale Regolamento dal codice francese è la nomina del perito, che nel codice di riferimento prevedeva che venisse rimessa alle parti e solo in caso di disaccordo delle stesse al giudice. Nel Regolamento, invece la nomina del consulente è rimessa interamente all'organo giudicante. Questa impostazione oltre a differenziarsi dal codice francese, differisce anche dal precedente Regolamento austriaco per il Lombardo Veneto del 1796. Nel 1815 invece la scelta è rimessa al giudice e questo connota il Regolamento stesso di elementi di modernità e somiglianza rispetto al codice del 1942. A tale riguardo è interessante notare che nella selezione soggettiva degli esperti, attenzione particolare è data alla determinazione della qualifica professionale del perito, consentendo in tal modo di far entrare nel processo solo soggetti qualificati dal punto di vista tecnico-scientifico. Tant'è che si prevede che il giudice può attribuire tale qualifica solo a persone che “possiedono sufficiente abilità a saper giudicare sulla qualità dell'oggetto in questione”. 28 L'attività del perito viene fatta

coincidere con alcune professioni, tanto da imporre al giudice, nella scelta, di non nominare coloro che della scienza e delle cognizioni

27 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2011, p. 123

28 G.C.Sonzogno, Manuale del processo civile austriaco, Trento, Studio bibliografico Apuleio, 1855, p.322-323

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non ne fanno una professione pubblica. Inoltre, la modernità della nomina dell'esperto è avvalorata dalla presenza di liste di esperti tenute e aggiornate a livello locale e sarà il giudice a prendere conoscenza delle competenze di tali soggetti al fine di inserirli nelle liste stesse. Inoltre, si prevede la possibilità di nominare periti soggetti appartenenti ad istituti di cultura particolarmente qualificati a livello accademico, come professori universitari, e solo qualora non fosse possibile nominarli o ricorrere a loro veniva nominato un privato intelligente. 29 Si tratta di una disciplina molto articolata che

rimette sul giudice il dovere di verificare la presenza delle cognizioni specialistiche in capo agli esperti, ma allo stesso è anche carente in quanto vi è la mancanza ex lege di requisiti di capacità o preparazione professionale degli esperti che ormai pare connotare la maggior parte dei codici pre-unitari.

A tale riguardo, una ricezione del Code de procedure civile francese del 1806 si ritrova nel codice napoletano, parmense e sardi del 1854 e 1859. Si prevede la possibilità di estendere la qualifica di expert, che nel codice per il Regno delle due Sicilie, nel codice parmense e sardo del 1854 viene attribuito anche agli analfabeti. Con riferimento proprio alla scelta dei periti effettuata dalle parti, l'impostazione prevalente nei codici pre-unitari è quella di escludere qualsiasi forma di controllo o censura dell'adeguatezza di tale scelta da parte del giudice. La giustificazione di ciò deriva dal fatto che la scelta del perito è rimessa quasi esclusivamente alle parti, spetta a loro la qualificazione in termini di fiducia. L'impressione è quella di avere delle parti che scelgono gli esperti in quanto di loro gradimento, anziché basarsi su determinate cognizioni specialistiche.

Il Granducato di Toscana invece si allontana dall'impostazione propria del codice francese, prevedendo una “classe di periti”. Quasi

29 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2011, p.126

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in analogia con i modelli germanici, nella Toscana dei Lorena la qualificazione professionale dei periti sembra derivare dall'appartenenza ad una determinata categoria professionale, tanto da consigliare la scelta degli stessi all'interno di classi professionali.30

Anche nel Codice Estense si individua qualche indicazione sulla qualificazione dell'esperti, tanto che l'art 2383 del codice Estense prevede la possibilità di nominare “periti matricolati o, non potendosi avere comodamente, persone esperte nelle materie che formano oggetto di perizia o stima”.31

C'è una conclusione da trarre da questo quadro sulla nomina del perito, ovvero che nelle normative italiane che precedono il 1865 vi è una duplicità di modelli disciplinari, con una differenziazione da collegare alla derivazione o meno dal modello francese. Mnetre per quanto riguarda lo svolgimento della perizia si registra una omologazione delle normative pre-unitarie, indipendentemente dalla loro derivazione culturale. Il ruolo delle parti è quello di poter intervenire nello svolgimento dell'attività peritale, anche per effettuare osservazioni che ritengono opportune nel loro interesse. Anche il Regolamento per il Lombardo-Veneto si caratterizza per la previsione di un intervento riconosciuta alle parti in via più circoscritta rispetto al modello francese, tanto che sembra quasi affermare che l'intento fosse quello di escludere le parti dal procedimento. In conclusione, l'analisi delle discipline italiano prima del 1865 ci permette di fare delle brevi considerazioni. Intanto, la duplicità dei modelli di riferimento (Code francese e normativa austriaca) non si registrano soluzioni in contrasto con la qualificazione della perizia quale mezzo di prova. Differenze si hanno sulla graduazione delle prerogative giudiziali e l'attribuzione

30 F.Pesendorfer, Ferdinando III e la Toscana in età napoleonica, Firenze, Biblioteca storica, 1986, p. 55

31 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2011, p.128

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di un'efficacia probatoria più o meno intensa ai risultati della perizia. Nei modelli processuali ove la scelta del perito è rimessa al giudice si nota la previsione di requisiti professionali degli stessi; per converso nei casi in cui la scelta ricade sulle parti, nei confronti dell'esperto non si esige una speciale competenze.

2.1 La perizia nel codice unitario

Per poter comprendere la figura del consulente, così come è oggi, ritengo necessario ripercorrere un'altra tappa, il 1865,in cui la perizia veniva disciplinata insieme alle altre prove (252-270 c.p.c). 32 La

perizia nel codice di procedura civile del Regno d'Italia si colloca nella IV Sezione, capo I, titolo IV del primo libro dedicato alle “prove”. E' posta dopo l'interrogatorio, il giuramento, la testimonianza e prima dell'accesso giudiziale, la verificazione delle scritture (dove si legge di un'apposita “prova col giudizio dei periti, art 284) e la querela di falso, in una sequenza di mezzi in senso stretto e procedimenti probatori. Per il diritto vivente nelle decisioni dei tribunali e delle corti, la perizia appartiene alle prove da farsi, costituende, attraverso il dovuto procedimento legale.33

In questo periodo si registra: da un lato l'acquisizione, da parte del legislatore italiano, delle soluzioni tecniche adottate già dal modello francese; dall'altro invece vi è la volontà di superare tale modello e introdurre soluzioni originali. Conforme al primo punto, vi è la qualificazione della perizia come mezzo di prova “tipico”, tanto da esser considerato quasi come una prova testimoniale. A ciò risulta necessario menzionare l'espressione usata da notevoli commentatori del codice del 1865, i quali definiscono la perizia come “la

32 M.Rossetti, Il C.T.U: “l'occhiale del giudice”, Milano, Giuffrè, 2012, p.5 33 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico,

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testimonianza di una o più persone esperte diretta a far conoscere un fatto, di cui l'esistenza non può essere accertata o giuridicamente apprezzata, fuorché col corredo di speciali cognizioni scientifiche e tecniche”. Il parallelismo tra perizia e testimonianza risulta essere

molto frequente, tale da risultare un aspetto caratterizzante l'approccio della dottrina italiana post-unitaria. La cristallizzazione del dibattito sulle analogie o meno tra i due istituti ha distolto l'attenzione sull'esercizio concreto e multiforme delle attività peritali. Un'impostazione questa che si protrae per tutto il XX secolo e probabilmente incide anche sul codice del '42.

Lungo la direttiva perito-teste si rileva la Relazione Pisanelli, introduttiva al codice del 1865, in cui si afferma che l'unica differenza tra perizia e testimonianza riguarda i fatti sui quali questi due soggetti sono chiamati a riferire. Mentre oggetto della testimonianza sono i fatti transeunti, al perito spetta il compito di introdurre nel processo fatti permanenti.

Che la perizia del 1865 fosse una prova, al pari della testimonianza o dell'ispezione è un'opinione che trova conferma nella relazione Pisanelli. 34All'interno di quest'ultima si afferma che la perizia si

palesa necessaria, nel momento in cui “il punto di fatto che divide le parti non può esser chiarito se non dappresso un arte poco famigliare alle cognizioni ordinarie dei giudici”. In conseguenza di ciò il perito viene qualificato come un “testimonio speciale”. 35 Tra i due istituti

sicuramente viene disposta una vicinanza funzionale, che però non fa fronte alla mancanza di disciplina propria della prova peritale. Il rapporto intercorrente tra la perizia e gli altri mezzi di prova sembra essere inteso dalla nostra dottrina come un rapporto di non esclusione.36 Tale affermazione è anche confermata nel codice del

34 M.Rossetti, la C.T.U:l'occhiale del giudice, Milano, Giuffrè, 2012, p.5

35 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2011, p.135

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1865 da una serie di disposizioni, come ad esempio la previsione circa la possibilità di assumere, in relazione agli stessi fatti, sia una prova testimoniale che una perizia. L'influenza esercitata nel codice del 1865 deriva, quasi sicuramente, dalla ricezione dell'impostazione permeante il Code de procédure civile napoleonica del 1806, la disciplina del “rapports des experts”, di conseguenza è del tutto esplicito l'intento del legislatore del '65 di rimuovere il modello “perito-testimone di parte”, intendendo con tale figura un ruolo del perito come mandatario cui era attribuito il compito di curare gli interessi di una delle parti. Sempre a seguito della diffusione del modello francese, la perizia contenuta nel codice del 1865 si connota di tre elementi essenziali: dal punto di vista della disponibilità dei mezzi di prova, vi è la possibilità che la nomina avvenga sia da parte del giudice che delle parti; non viene richiesta una particolare qualifica nell'assumere la carica di perito, non si menzionano competenze specifiche; inoltre, i risultati dell'attività peritale devono confluire all'interno di una relazione scritta, attribuendo a tale atto valore di prova. La natura ibrida della perizia, tuttavia, emerge ancora una volta nella Relazione Pisanelli, dove si afferma che il perito svolge un ruolo analogo a quello del testimone per quanto riguarda l'accertamento dei fatti e analogo a quello del giudice per l'avviso che è chiamato ad emettere. Emerge già da ora la distinzione tra consulenza percipiente e deducente, che assumerà notevole importanza con la fine dell'Ottocento. Infatti si riconosce al perito la facoltà di accertare un fatto materiale (percipiente) ed esprimere un giudizio sullo stesso, sulle cause da cui ha origine e le conseguenze (deducente). Ed è proprio in questo ambito di attività che il perito tramite ragionamenti deduttivi e induttivi introduce le proprie conoscenze specialistiche. Inoltre, si può ben affermare che in tale

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periodo l'attività del perito può spingersi oltre nella formulazione di giudizi. 37 Infatti la dottrina fin da subito aveva percepito la capacità

per il perito di estendersi oltre la mera percezione di fatti esistenti e formulare giudizi, quali ad esempio lo stabilire se un determinato fatto si era realizzato in un modo piuttosto che in un altro. 38

Per quanto riguarda la duplicità funzionale dell'esperto vi fu un ampio dibattito dottrinale. A fronte della configurazione normativa tendenzialmente aperta, indefinita dei risultati probatori ottenibili mediante perizia, emerge la volontà della dottrina di restringere e definire al meglio tali risultati. Un processo realizzabile andando ad individuare le affinità tra perizia e testimonianza. Si voleva assimilare l'avviso del perito alle affermazioni del testimone sul piano probatorio, come di per sé non vincolanti per il giudice, ma soggette al suo libero apprezzamento. 39 Ma la vivacità del dibattito è

confermata dal fatto che la dottrina del tempo prevede la possibilità di effettuare una differenziazione del valore probatorio della perizia, a seconda della funzione esercitata dall'esperto. Prendendo alla lettera l'art 270 cpc del 1865 si sostiene che l'intentione legis volesse rimettere all'apprezzamento del giudice l'avviso del perito, mentre l'attività di percezione diretta dei fatti di efficacia vincolante venne qualificata come attestazioni di pubblico ufficiale. 40

Aspetti di rilievo sono la qualificazione soggettiva del perito e le modalità di scelta o selezione dello stesso. Ambiti in cui si ripropone il duplice approccio già esaminato nel c.p.c italiano e che ripropone segnali di innovazione rispetto al codice francese del 1806. Sicuramente per quanto riguarda la scelta dei periti, questa viene

37 E.Cuzzeri, Il codice italiano di procedura civile illustrato, Milano, Roma, Napoli, Unione Tipografico Editrice Torinese, 1908-1909, p.193

38 M.Rossetti, la C.T.U, l'occhiale del giudice, Milano, Giuffrè, 2012, p5 39 E.Betti, Diritto processuale civile italiano, Roma, Società editrice del Foro

Italiano, 1970, p.399

40 V.Ansanelli, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2011, p. 139

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attribuita alle parti. In analogia col modello francese, la normativa italiana infatti prevede che la questa avvenga in accordo tra le parti, le quali si occuperanno di individuare i soggetti e il numero dei periti. 41 Nel caso in cui il le parti non arrivano ad una conclusione,

allora interverrà il giudice nella scelta del perito. La dottrina formatesi nel 1865 appoggia questo approccio, prevedendo anche la possibilità per le parti di comune accordo, finchè non iniziano le operazioni peritali, di sostituirsi ai periti nominati. Un altro aspetto che pare derivare in toto dal codice francese riguards la selezione soggettiva dei periti, che pare esser ripresa dal legislatore del '65. Invece un ambito che pare differenziarsi dal precedente e apportare profili di novità attiene alla ricusazione del perito, dove sono ammesse due soluzioni diverse, a seconda che la scelta del perito sia delle parti o del giudice. Se la scelta dei periti è rimessa alle parti, non acquisiscono rilevanza “motivi di sospetto” o “cause di ricusazione”. Per converso per i periti nominati ex officio è possibile proporre una richiesta di ricusazione. In sintesi l'assetto delineato dal codice unitario pare indicare che solo i periti nominati dal giudice sono soggetti a ricusazione, mentre per quelli individuati dalle parti, anche in presenza di cause di ricusazione, il giudice è vincolato all'indicazione fornitagli dalle stesse.

Inoltre, viene disposta l'interpellazione, cioè una serie di quesiti-guida che vengono proposti dal giudice al perito. Si afferma, al riguardo, che non sono ammissibili aree di delimitazione di tale attività, posto che il perito deve poter svolgere un'ampia ricerca volta ad aiutare il giudice nella ricerca della verità. 42 A fronte di

questi elementi è possibile rinvenire che l'utilizzazione dei risultati dell'attività peritale sia strettamente connessa alla realizzazione

41 L.Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario, Milano, Fratelli Bocca, 1909, p.897 42 C.Lessona, Trattato delle prove in materia civile, Firenze, Fratelli Cammelli,

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dell'attività decisoria. Questo approccio è confermato dall'art 269 c.p.c per il distacco che realizza rispetto al modello francese, stabilendo di conferire al giudice il potere di valutare la chiarezza e efficienza delle prova fornite dal perito e in caso di scarsa concludenza richiedere ulteriori chiarimenti. Nel procedimento di formazione della prova peritale è utile menzionare l'art 252 c.p.c, il quale dispone che il giudice possa ricorrere ex officio alla prova dell'esperto e provvedere alla delimitazione dell'oggetto. Parte della dottrina è arrivata ad interpretare tale disposizione come un'eccezione in ambito probatorio, una sorte di potere discrezionale in capo al giudice, il quale può ricorrervi anche in assenza di un'istanza di parte. Tuttavia il ruolo dell'esperto già allora era influente, tanto che si ammetteva la possibilità che la lite potesse esser decisa dal parere dell'esperto. Approccio finalizzato sostanzialmente a confermare il carattere ausiliario del perito. Questa funzione di ausilio è confermata in altre norme del codice del 1865, ove si prevede che il giudice , all'art 269, possa richiedere una nuova perizia per eventuali schiarimenti. Quindi ciò che si nota è un ruolo del giudice volto alla gestione dell'organizzazione delle prove peritali. La funzione di ausilio era solo ai primordi, essa tenderà ad affermarsi sempre di più fino ad arrivare all'attuale codice.

2.2 “Carnelutti legislatore”

Nella nostra dottrina vi è un aspetto importante che attrae l'attenzione di molti studiosi: la collocazione sistematica dell'istituto della perizia e della figura del perito. Al riguardo è necessario prendere in considerazione il pensiero di un noto studioso italiano, Carnelutti, la cui teoria è considerata, da sempre, un punto di non ritorno per

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l'assetto della materia. 43 Nel primo decennio del XX secolo, infatti, il

dibattito dottrinale circa la qualificazione funzionale del perito e la sua collocazione nella disciplina giuridica aveva raggiunto un notevole livello di gravità.44 Carnelutti interviene spostando

l'indagine scientifica dall'individuazione del valore conoscitivo della perizia quale risultato probatorio al problema del riconoscimento del ruolo assegnato al perito nel procedimento di decisione della controversia. A tal fine incentra le sue riflessioni e la sua indagine soprattutto sul rapporto tra il perito e il giudice e su quella che era l'analogia tra i due soggetti. Tant'è che ritiene che il perito, così come il giudice, utilizza metodologie di ragionamento sillogistico fondate sull'uso di regole di esperienza. Infatti, il perito, stando a tale ricostruzione, opera nel campo della ”posizione della regola d'esperienza”, mentre le fonti di prova servirebbero per la “posizione del fatto”. 45 Ed è proprio su questo che Carnelutti fonda la

correlazione tra giudice e perito, posto che entrambi svolgono la loro attività formando ragionamenti di tipo deduttivo e non rappresentativo. L'esperto veniva così qualificato come mezzo di integrazione dell'attività del giudice e venne escluso il suo valore probatorio. In realtà è alla dottrina tedesca che si deve la giustificazione “a posteriori” delle richieste che tendevano ad una diversa collocazione della perizia. Nota, al proposito, è sul finire del XIX secolo una monografia di Friedrich Stein sulla scienza privata del giudice. 46 Nella processualistica tedesca si qualificava l'attività

del perito come giudizio, ritenendo l'esperto un mero giudice di fatto.47 Negli stessi anni si procede a delimitare il contenuto della

43 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Milano, CEDAM, 2002, p.31

44 C.Besso, La prova prima del processo, Torino, Giappichelli editore, 2004, p.52 45 F.Carnelutti, La prova civile, Milano, Giuffrè, 1992, p.71

46 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, CEDAM, 2002, p.32

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massima d'esperienza con la formula “tutte le regole che servono alla deduzione di un fatto ignoto da un fatto noto”. Ed è proprio stando a questa affermazione che Stein introduce nel processo le massime d'esperienza, fornire al giudice definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto. Lo studioso tedesco fa notare che di giudizi non si sostanzia solo e soltanto la perizia, ma anche la testimonianza, finendo così per far coincidere le due attività. Il perito viene considerato testimone delle regole d'esperienza. Ma vi è un aspetto che distingue le due figure, il tipo di fatto a cui ci si riferisce: regola nel caso del perito, fatto-naturale nel caso del testimone, volendo essere più precisi la perizia viene assunta come fonte di prova di regole, la testimonianza come fonte di prova di fatti. 48

In merito a questo approccio, Carnelutti individua i compiti dell'esperto: assistere o sostituire in giudizio il giudice nella percezione dei fatti; aiutare l'organo giudicante nella deduzione , indicandogli le regole d'esperienza da applicare; applicare tali regole. Un insieme di compiti che, a ben vedere, fanno del perito un soggetto le cui funzioni possono essere ricondotte ad unità, sostiene il giudice nella fase di percezione e di deduzione dei fatti. E a confermare ciò è la collocazione della figura nel capitolo dedicato ai soggetti della funzione giudiziaria, “incaricato giudiziario integrativo dell'ufficio del giudice”. Carnelutti ritiene però che il compito maggiormente richiesto all'esperto è quello di valutare i fatti, cosicché tende ad avvicinarlo ancora di più al giudice, quanto a funzioni. L'idea del perito come ausiliario del giudice emerge in misura maggiore in riferimento alla perizia deducente. In quest'ultimo caso si va ad integrare l'attività del giudice, inserendosi nel procedimento decisionale tramite l'indicazione al giudice delle regole di esperienza

48 F.Auletta, Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, CEDAM, 2002, p.33

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o mediante l'applicazione diretta di tali regole. La persona che si sostituisce al giudice, sostiene Carnelutti, non fa altro che essere un mezzo di integrazione del giudice stesso. Si arriva così a differenziare la figura del perito da quella del testimone. Ma al di là di questo, ci sono anche soluzioni diverse, sempre ammesse nella sua opera, che propendono per una qualificazione probatoria della perizia. Facendo leva sul contraddittorio e sui consulenti di parte, Carnelutti rileva che ci sono delle situazioni in cui per procedere ad una composizione della lite è necessario ricorrere a conoscenze tecniche relative ad ambiti del sapere o zone dell'esperienza diverse dal diritto. 49 Per superare gli inconvenienti del codice del 1865 è

necessario da un lato inserire il consulente tra gli esperti del giudice e così facendo si rimette al giudice la scelta stessa e si estende al perito le cause di ricusazione, il tutto per garantire l'imparzialità. Dall'altro è necessario introdurre una disciplina specifica circa la scelta dell'esperto, in modo che la collocazione in appositi albi avrebbe, secondo Carnelutti, garantito maggiore qualità nell'attività espletata. E' inoltre necessario, secondo lo studioso italiano, che le parti si facciano assistere da dei consulenti, considerati come dei difensori. In questo modo si permette la realizzazione del contraddittorio nell'acquisizione delle conoscenze tecnico-scientifiche da acquisire in funzione conoscitivo-valutativa per la risoluzione della controversia. Un contraddittorio che, così formato, potrebbe agevolare l'attività del giudice grazie ai risultati forniti dal consulente. Attraverso il riconoscimento per le parti di nominare dei consulenti, Carnelutti ritiene che dovrebbe instaurarsi un parallelismo nel rapporto giudice-perito e parti-perito.

L'approfondimento in merito alla teoria di Carnelutti pare doverosa, posto la sua incidenza nel codice del 1942. In conclusione ritengo

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che nell'impostazione carneluttiana sia decisivo il ruolo delle “massime d'esperienza” che hanno influito nella assimilazione del ruolo del perito con quello del giudice. Di forte impatto nella sua teoria è stato anche l'influsso della dottrina tedesca con la teoria di Stein, oltre che il codice del 1865. Nell'opera di Carnelutti emerge la necessità di introdurre dei meccanismi che permettano di valutare l'affidabilità delle dichiarazioni fornite dal consulente, è proprio lui che per primo propone di introdurre degli albi appositi, mentre la dottrina italiana riversa scarsa attenzione al riguardo.

3. I progetti di riforma al nuovo codice di procedura

civile.

Il percorso effettuato dalla dottrina italiana, dalla cultura e della stessa società che portò all'emanazione del codice di procedura civile del 1942 e cambiò la denominazione della perizia con il termine consulenza tecnica viene analizzato da una serie di progetti di riforma antecedenti all'instaurazione del nuovo codice di procedura civile. Tali progetti si manifestano in conseguenza alle critiche effettuate dalla dottrina italiana post-unitaria nei confronti della perizia, così com'è stata analizzata nel codice del 1865. In tali critiche si fa emergere con tutta evidenza le carenze dell'istituto , in particolar modo il collegamento tra perito e giudice. Circostanza che riguarda la scarsa efficienza dell'istituto, soprattutto sotto il profilo della perdita, per il giudice, della possibilità di usufruire dei risultati offerti dall'attività peritale. Le problematiche insite all'istituto della perizia si contestualizzano nel panorama processuale italiano di stampo liberale. Un processo che, da alcuni studiosi, è definito come “complicato e formalistico, lunghissimo e costoso”, nel quale “il

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livello qualitativo della magistratura rimane notevolmente basso”. 50

Si tratta di uno stato di cose, che insieme alla critica mossa alla perizia così come è disciplinata nel codice unitario, ha favorito l'espansione di elaborazioni come quella confluita nella teoria carneluttiana. Quest'ultima attribuisce al perito una funzione importante nella decisione dei fatti, al punto da assicurare una maggiore cooperazione tra giudice e perito stesso. L'impostazione dello studioso italiano, già analizzata, si può inserire proprio in questo periodo di crisi della concezione liberale del processo, che si concretizza nell'incapacità di affrontare i problemi caratterizzanti il processo italiano dell'epoca e che si svilupperanno ulteriormente nella seconda metà dell'ottocento. Questa situazione non cambia neanche con le riforme che vengono apportate, alcune sono meramente settoriali, altre invece aspirano a cambiamenti più generalizzanti del modello processuale. Ovviamente, a fronte di tali fallimenti, il legislatore italiano dell'epoca si rende ben presto conto che è necessario far fronte alle trasformazioni sociali ed economiche della società. 51 Si nota già da qui la mancanza, nel legislatore

italiano, di un'impostazione di politica del diritto, con la conseguente assenza di programmi in grado di adeguarsi ai mutamenti sociali e inserirsi in un programma più vasto di ristrutturazione del modello processuale. Si manifestano così due tipi di fenomeni: da un lato un approccio storico agli istituti processuali, come il caso di Mortara, incentrato sulla “ragione storica” degli istituti; dall'altro, ed è quello che si diffonde in misura maggiore, la tendenza a rendere indipendente il rapporto processuale da quello sostanziale. Da qui l'approccio pubblicistico al processo: si registra l'abbandono del modo di intenderlo come “affare delle parti” in favore di una visione

50 M.Taruffo, La giustizia civile in Italia dal '700 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1980, p.183

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