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Il Caso Daubert

Nel documento La consulenza tecnica nel processo civile (pagine 180-198)

Oltre i confini nazionali: un sintetico raffronto con l'ordinamento americano.

5. Il Caso Daubert

Il caso Daubert, del '93, riguardava i supposti effetti collaterali sul feto del Benedectin, un farmaco contro le nausee in gravidanza prodotto dalla Merrell Dow Pharmaceuticals. la Merrell Dow aveva portato in aula lavori scientifici, sottoposti a peer review e quindi generalmente accettati, in cui dimostrava che non vi erano prove che il loro farmaco causasse malformazioni nel feto. I genitori dei bambini nati malformati, per contestare i dati della Merrell Dow, invece, avevano chiesto ai giudici di acquisire anche la testimonianza di altri esperti, in grado di portare evidenze scientifiche contrarie basate su dati non ancora pubblicati, ma che reinterpretavano i risultati ottenuti dalla casa farmaceutica. La Merrell Dow, sulla base del principio Frye si era opposta all’ammissibilità di quel genere di testimonianza: infatti, le prove, essendo state prodotte con metodologie nuove, non riscontravano, all’epoca, l’accettazione generale della comunità scientifica. La Corte, invece, aggirando il principio Frye, aveva deciso di applicare la più generale regola 702 relativa ai criteri di ammissione della testimonianza esperta, e si era così espressa a favore dell’ammissibilità di tutti i testimoni con i requisiti enunciati nella regola stessa.

Secondo la regola 702, un testimone esperto deve:presentare fatti e dati sufficienti; fondarsi su principi e metodi affidabili; applicare in modo affidabile i principi e i metodi al caso. Nella sentenza Daubert, il giudice non si era limitato a ribadire: il principio della generale accettazione da parte della comunità scientifica, ma posto di fronte all’ammissibilità di una prova nuova un giudice avrebbe anche dovuto valutare criticamente l’affidabilità dei metodi e delle procedure utilizzati dall’esperto. Questa valutazione deve essere condotta tenendo in considerazione anche altri principi quali: la

possibilità di sottoporre la teoria o tecnica scientifica a verifica empirica, falsificarla e confutarla; l’esistenza di una revisione critica da parte degli esperti del settore; l’indicazione del margine di errore noto o potenziale e il rispetto degli standards relativi alla tecnica impiegata. Da quel momento Daubert è diventato il punto di riferimento per la valutazione della prova scientifica. Anche quando i criteri di Daubert non dovessero risultare tutti applicabili alla prova in esame (come il peer review o le pubblicazioni) spetta ai giudici valutare le metodologie tecnico – scientifiche utilizzate dai testimoni esperti. Con questa sentenza, i giudici, in quanto custodi della legge, hanno ribadito che spetta a loro avere l’ultima parola sulla validità delle conoscenze prese in giudizio. Seppure riconoscano di avere bisogno della scienza per fare luce su questioni particolarmente complesse e per le quali non possiedono gli strumenti necessari a una loro interpretazione, i giudici si riservano il diritto di decidere a chi riconoscere la qualifica di scienziato: saranno gli strumenti processuali stessi a garantire la qualità del risultato e a far inevitabilmente emergere la migliore scientificità. Questo percorso, seguito dalla giurisprudenza statunitense, sembra prestarsi a essere descritto come un progressivo avvicinamento al principio del libero convincimento del giudice, e alla figura del giudice come peritus

peritorum(perito dei periti) vigente nel nostro ordinamento.

In conclusione, il caso Daubert pone il giudice del processo in una posizione di "gatekeeper" e richiede che il giudice utilizzi una combinazione di quattro considerazioni per affrontare se le teorie e le tecniche di testimonianze degli esperti sono affidabili. I giudici che operano come un gatekeeper sotto Daubert devono prendere in considerazione:se la teoria o tecnica può, o è stato, testata; "se la teoria o la tecnica è stato sottoposto a peer review e ad una pubblicazione"; "il tasso di nota o potenziale di errore" ; e se la teoria

o tecnica è generalmente accettata nella comunità scientifica pertinente. Il tribunale di Daubert sottolinea questo, notando che l'inchiesta è un "one flessibile", il cui unico scopo è quello di determinare la validità scientifica della testimonianza. In particolare, i giudici della devono ora stabilire se: la testimonianza del perito si basa su fatti o dati sufficienti; la testimonianza del perito è il prodotto di principi e metodi affidabili; e l'apporto dell'esperto è effettivamente utile ai fini della risoluzione della controversia. Dunque , il giudice deve ora interpretare ed applicare questi tre requisiti in conformità con il caso Daubert per analizzare se i principi ei metodi utilizzati dall'esperto sono affidabili. Inoltre, basandosi sulla prole Daubert, il nuovo standard "si applica non solo alla testimonianza basata sulla conoscenza 'scientifica', ma anche la testimonianza sulla base di 'tecniche' e 'specializzazioni” non propriamente scientifiche, che includono "ingegneri e altri esperti che sono non gli scienziati. 228

E' chiaro che il caso Daubert cambia la concezione delle conoscenze esperte americane e consentirà di evitare decisioni basate sulla "scienza spazzatura" e porterà a delle testimonianzae da parte degli esperti più credibili.229

228Marshall Dennehey, From Frye to Daubert in www.marshalldennehey.com 229 Dondi alla conferenza sulla Conoscenze esperte nel processo civile, Firenze,

CONCLUSIONI

La tesi in esame sicuramente risente della mia partecipazione alla Conferenza, tenutasi a Firenze, su “Le conoscenze esperte nel processo civile” ed ha come scopo quello di far comprendere il ruolo della consulenza tecnica nel processo civile e le sue articolazioni in molti ambiti della vita. In seno alla Conferenza, a seguito della disamina sul tema della consulenza tecnica, sono stati affrontati alcuni aspetti che sono stati ritenuti ormai non più “al passo coi tempi”. Il processo è cambiato e di conseguenza anche la consulenza tecnica necessita di alcune modifiche. Nondimeno, le regole che disciplinano la consulenza tecnica d'ufficio risalgono al 1940, epoca di approvazione del codice di procedura civile. Il mondo della scienza e della tecnica da allora ha conosciuto progressi indescrivibili e inusitati, e anche il processo di oggi, a furia di novelle e decreti, è ben diverso da quello del 1940. Nondimeno le norme che disciplinano la formazione e la tenuta degli albi dei consulenti, così come quelle che ne disciplinano l'attività, non hanno subito che modifiche rade e marginali, e sono perciò divenute oggi del tutto inadeguate. Tre, in particolare, sono i punti critici del sistema: l'”arruolamento”, la rotazione nell'affidamento degli incarichi e la remunerazione del consulente.

La selezione dei professionisti migliori, affinché collaborino con l'amministrazione della giustizia, oggi lascia molto a desiderare. Sebbene la legge richieda il possesso di una "speciale competenza" per l'iscrizione al'albo dei c.t.u., di fatto è assai raro che le capacità dell'aspirante c.t.u. siano seriamente verificate prima dell'iscrizione. Tale verifica è infatti oggi affidata a un comitato composto da un giudice, un Pm e un professionista appartenente al medesimo ordine del candidato, comitato che funziona poco e male per due ragioni: la

prima è che i comitati (uno per ogni tribunale d'Italia) non hanno gli strumenti di personale e mezzi necessari per gestire celermente ed efficacemente le numerosissime domande che pervengono loro; la seconda è che i compiti affidati al comitato (che sono numerosi e gravosi: esame delle domande di iscrizione all'albo, vigilanza sull'albo, decisione sui procedimenti disciplinari a carico dei c.t.u., controllo della rotazione degli incarichi) si aggiungono, e non si sostituiscono, al lavoro ordinario dei membri che lo compongono, e segnatamente di quelli togati. Ciò significa, soprattutto negli uffici giudiziari dove più pesante è il carico degli affari giudiziari o l'arretrato da smaltire, che restano ben poche risorse di tempo (e professionalità) da dedicare all'albo dei c.t.u.. Se poi si aggiunge che il lavoro svolto dai magistrati designati a comporre il comitato per la vigilanza sull'albo dei c.t.u., è un lavoro nero, nel senso che esso non è retribuito, non dà diritto all'esonero nemmeno parziale dagli affari correnti, e non risulta nella statistica giudiziaria, credo che non si erri di molto nell'affermare che per molti dei magistrati delegati a svolgere questo compito vedano in esso una seccatura, se non addirittura una corvè. Non meno deludente è l'effettività della rotazione degli incarichi tra i consulenti iscritti. ) La rotazione degli incarichi rappresenta la garanzia di terzietà e imparzialità (anche nell'immagine) del c.t.u. e del giudice che l'ha nominato, ma essa raramente è davvero effettiva: e non sono rari i casi di consulenti iscritti all'albo da dieci o più anni senza avere mai ricevuto alcun incarico. Questo fenomeno dipende anch'esso da vari fattori: da un lato, esso è collegato all'abbassamento della soglia del controllo di qualità dei consulenti che chiedono l'iscrizione. Così, poiché gli albi sono finiti per diventare una massa pletorica di consulenti non tutti all'altezza, molti giudici preferiscono evitare di pescare a sorte un consulente che potrebbe non essere adeguato, e ricorrono soltanto

quelli di sperimentata affidabilità. Dall'altro lato, l'inadeguata rotazione degli incarichi dipende dalla già segnalata scarsità di uomini e mezzi dei comitati che dovrebbero essere preposti al controllo, per i quali specie nei tribunali di grandi dimensioni è di fatto impossibile monitorare tutte le nomine di tutti i giudici del tribunale, della corte d'appello e degli uffici dei giudici di pace. Vi è poi il problema della remunerazione del consulente. Un adeguato compenso è necessario per attirare tra i consulenti i professionisti più esperti e affermati, mentre al contrario compensi molto bassi finiscono per attirare solo i professionisti più bisognosi e, quasi sempre, meno bravi.

Al termine della Conferenza su “Le conoscenze esperte nel processo civile”, l'Avv. Jannotta ha proposto come metodi risolutivi volti al miglioramento della disciplina: prevedere dei corsi di specializzazione per i consulente tecnici in maniera più efficace di quanto sia previsto oggi e apportare delle modifiche in tema di C.T.U nell'ambito processuale.

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