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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1997, Anno 56, dicembre, n.4

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Spedizione in a .p . - 4 5 % - art. 2 com m a 20 /b legge 662/96 - Filiale di Varese

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E S C I E N Z A D E LL E F I N A N Z E

Fondata da BENVENUTO GRIZIOTTI

(e R IV IS T A IT A L IA N A DI D IR IT T O F IN A N Z IA R IO )

D I R E Z I O N E

EMILIO GERELLI - GIULIO TREMONTI COMITATO SCIENTIFICO

ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE AMEDEO FOSSATI - FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA IGNAZIO MANZONI - GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE

SERGIO STEVE COMITATO DIRETTIVO

R O B E R TO A R T O N I - F IL IP P O C AV A ZZU TI - AUG USTO FA N TO ZZI G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO LANCELLOTTI ITA LO M AGNANI - G IL B E R T O M U R A R O - LE O N AR D O PE R R O N E E N R IC O P O T I T O - P A S Q U A L E R U S S O - G IU L IA N O T A B E T

FRANCESCO TESAURO - ROLANDO VALIANI

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Pubblicazione sotto gli auspici del D ipartim ento di Econom ia pubblica e territoriale dell’Università, dello Cam era di Commercio di Pavia e dell Istituto di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza d ell’Università di Roma. Q uesta Rivista viene pu bblicata con il contribu to fin a n zia rio del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Direzione e Redazione: D ipartim ento di Econom ia pubblica e territoriale del­ l ’Università, Strada Nuova 65, 27100 Pavia; tei. 0382/504.406, (Fax) 504.402, Email: rdfsf@unipv.it.

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n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982 Direttore responsabile: Emilio Gerelli

Rivista associata aU'Unione della Stampa Periodica Italiana L. 120.000 L. 180.000

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P A R T E P R I M A

Emilio Gkrki.li - Il fantasma della globalizzazione e la realtà dei sistemi tributari negli anni 2000 ... 449 Alhkrto Ma.iocciii - Dai vincoli di Maastricht al Patto di Stabilità: un sentiero

stretto per la politica fiscale ... 465 Franco Ficiikra - Fiscalità ed extrafiscalità nella costituzione. Una rivisitazione

dei lavori preparatori ... 486 Silvia Cipollina - Il regime fiscale del centro « off-shore » di Trieste: dalla legge

n. 1911991, alla decisione della Commissione Europea, alla bozza di regola­ mento attuativo ... 535

A P P U N T I E RASSEGNE

Vincknzo Rubra - L ’evoluzione della finanza pubblica italiana nel periodo 1990-1997 ... 557

LEGGI E DOCUMENTI

Lettere pubbliche relative al concorso a professore ordinario di scienza delle finanze .... 599

N UO VI L IB R I ... 604

RASSEGNA D I PU B BLICA ZIO N I RECENTI ... 608

Cali far papers ...,... ... 624

P A R T E S E C O N D A

Giuseppi« Pi/zonia - Sulla valutazione delle partecipazioni non quotate ai fin i dell’imposta sulle successioni e donazioni ... 74

SENTENZE AN N O TATE

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IL FANTASMA DELLA GLOBALIZZAZIONE

E LA REALTÀ DEI SISTEMI TRIBUTARI NEGLI ANNI 2000 (*)

di Em il io Ge r e l l i Università degli Studi di Pavia

Il mercato non è uno stato di natura, il cui scopo è far vincere il più forte, ma piuttosto un delicato sistema di regole e norme, senza il quale il capitalismo perde ogni credibilità etica, e le possibilità di successo.

Lu ig i Ein a u d i

So m m a r io: 1. La globalizzazione. — 2. Globalizzazione o semi-globalizzazione? - 3.

La convergenza delle economie aperte. — 4. Race to thè Bottoni: tendenze impo­ sitive nel mondo semi-globalizzato. — 5. Degrado o competitività fiscale? — 6. I tributi nel mondo globalizzato. — 7. Lo Stato monopolista, virtuale e glo­ bale. — 8. Un tributo per la finanza globalizzata: l’imposta sul bit. — 9. Con­ clusione.

1. La globalizzazione.

Il fenomeno è citatissimo per giustificati motivi: integrazione mondiale dei mercati finanziari, accresciuta competitività, tasso di crescita degli scambi internazionali superiore a quello del Pii, progres­ so tecnico costante e travolgente soprattutto nell’informatica e teleco­ municazioni. Tutto ciò porta a ritenere l’economia mondiale più inte­ grata e a sintetizzare questa situazione col termine di « globalizzazio­ ne »; esso comprende i notevoli cambiamenti non soltanto nel mondo del business ma anche nel quotidiano. La parola è tuttavia inflaziona­ ta e divenuta ormai polisenso. Se con essa si vuole invece designare un fenomeno specifico e rilevante da analizzare, e non un confuso coa­ cervo di tendenze, occorre una definizione precisa.

(*) Relazione di apertura della Riunione Scientifica della Società Italiana di Economia Pubblica. Il presente scritto è parte di un più ampio lavoro in corso di prepa­ razione.

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Riferiamoci anzitutto a quella del Fondo monetario internaziona­ le, che ha il pregio di una elaborazione collettiva e ufficiale: « Globali-

zation refers to thè growing interdependence of countries worldwide throu- gh thè increasing volume and variety of cross-border transactions in goods and Services and of International capitai flows, and also through thè more rapid and widespread diffusion of technology ». Questa definizione,

spesso citata, è utile perché elenca i due principali motori della globa­ lizzazione: commercio e flusso di capitali internazionali, tecnologia. Essa non comprende però esplicitamente il carattere fondamentale della globalizzazione: la transnazionalità dei processi economici e dei loro effetti. Il punto è, infatti, che con la globalizzazione si passa da un sistema economico internazionale, che comprende più Paesi, ognu­ no considerato singolo elemento di riferimento distinto, ad un sistema

transnazionale, che va al di là ed ingloba i singoli Paesi (ricordiamo

che il prefisso trans significa al di là, oltre, attraverso). Con linguaggio colorito, questo carattere è stato descritto come la morte delle distan­ ze e dei confini nazionali.

È utile perciò riferirsi alla definizione di due studiosi: « In un si­ stema globale, le singole economie nazionali sono sussunte e riarticola­ te nel sistema da processi e transazioni internazionali... Il sistema eco­ nomico internazionale diviene più autonomo e perde le sue radici so­ ciali, in quanto mercati e produzioni diventano realmente globali... Crescendo l’interdipendenza sistemica, il livello nazionale è permeato e trasformato da quello internazionale » (1).

Il carattere della transnazionalità, peculiare all’economia globale, è stato così descritto: « è proprio del nuovo sistema di non essere ame­ ricano, francese, inglese, tedesco o giapponese e neppure internaziona­

le, ma di integrare il piano di un nuovo sistema transnazionale. La ca­

pacità di agire sugli orientamenti e sulla struttura del sistema non ap­ partiene a nessun Paese. Questi orientamenti e questo sistema risulta­ no dall’attività del vasto insieme di organismi il cui carattere comune consiste nel produrre i modelli e le pratiche che ormai strutturano il nuovo spazio transfrontaliero che è diventato il mondo, nel produrre gli orientamenti che impegnano ormai l’ avvenire del vasto sistema in­ tegrato in un solo sistema di produzione transnazionale » (2).

Per concludere su questo punto, una coraggiosa sintesi definitiva

(1) Cfr. Hir s tP., Th o m ps o n G., La globalizzazione dell’economia, Editori R iu­ niti, 1997, p. 15.

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è: economia globale è quella in cui v ’è un mercato mondiale unico. Si tratterebbe comunque d’una situazione estrema, cui ci si può soltanto avvicinare, e da valutare quindi addito salis grano. Quando tale situa­ zione non è raggiunta, ma sia lecito ritenere che le tendenze in corso vi si dirigano, per dare un nome alle cose parleremo di semi-globalizza­

zione.

2. Globalizzazione o semi-globalizzazione?

Soddisfatte, per quanto ci è utile, le necessarie premesse definito­ rie, inevitabilmente la successiva domanda è: ci troviamo in fase glo­ balizzazione o di semi-globalizzazione? Come vedremo, è importante dare una risposta a questa domanda poiché da essa dipende la forma istituzionale ed il ruolo del settore pubblico.

Stando a molta pubblicistica la globalizzazione — di cui si parla per diritto e per traverso — sarebbe cosa fatta. In realtà giornalisti, imprenditori e operatori economici in genere, di norma quando parla­ no di globalizzazione si riferiscono particolarmente alla situazione di accresciuta concorrenza sui mercati internazionali, all’integrazione dei mercati finanziari, alle maggiori possibilità localizzative al di fuori dei confini nazionali, ma non ad una economia transnazionale.

Vi sono poi le categorie degli entusiasti o degli indignati. An- ch’essi considerano la globalizzazione ormai realizzata per poter me­ glio sfogare i loro giudizi di valore. Prendiamo un esempio di critica negativa: « La globalizzazione è un fenomeno essenzialmente negati­ vo, che distrugge la sovranità e la coesione degli Stati-nazione, pri­ vando così i mercati della guida sociale e politica senza la quale essi non possono funzionare efficacemente » (3). Sul lato positivo, ecco la valutazione del Consiglio dei ministri dell’economia dell’Ocse: « The

globalisation of thè economy gives all countries thè possibility of partici- pating in world development, and all consumers thè assurances of benefi- ting from increasingly vicorous competition between producers » (4).

Per pesare la validità di questi opposti giudizi, dobbiamo tutta­ via chiederci, come si è accennato, a che punto stiamo sulla strada verso la globalizzazione. Per rendercene conto, è utile osservare che l’attuale economia fortemente internazionalizzata ha avuto preceden­

(3) Bie n e k e l d M., Is a Strong Government a Utopian Goal at the End of the XXth Century?, in Bo y e rR., Dr a c h e D . (a cura di), States Against Markets - The Lim­ its of Globalization, London, Routledge, 1996.

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ti storici. L ’integrazione economica manifestatasi dopo la 2" guerra mondiale, può infatti essere considerata il riemergere di una tendenza caratterizzante l’economia mondiale or è un secolo (5). Il periodo fra la metà del X I X secolo e la prima guerra mondiale, mostra infatti una forte crescita del commercio globale: l’espansione delle esportazio­ ni globali al tasso annuo del 3,5% sorpassava infatti quella della pro­ duzione reale (2,7% all’anno). Si manifestava inoltre un flusso massic­ cio di capitali dai grandi Paesi dell’Europa occidentale verso le econo­ mie in rapido sviluppo in America, Australia e altrove. Al loro massi­ mo, le esportazioni di capitale della Gran Bretagna rappresentavano ben il 9% del Pii, e vicino a tale livello erano anche quelle di Francia, Germania ed Olanda.

Queste percentuali sono ben superiori a quelle massime del Giap­ pone e della Germania, che, a metà ed alla fine degli anni ’80, mostra­ rono picchi negli avanzi di parte corrente della bilancia dei pagamen­ ti, pari « soltanto » al 4-5% del Pii. Questa integrazione del mercato dei prodotti e dei capitali, avvenuta prima del 1914, e combinata con un livello elevato della mobilità del lavoro, portò ad una notevole convergenza dei livelli di vita nei Paesi industrializzati.

Tuttavia non tutti i segmenti della società furono avvantaggiati dalla maggior integrazione ed apertura internazionale. Per questo, la liberalizzazione commerciale del diciannovesimo secolo provocò rea­ zioni da parte di coloro che erano danneggiati dalla minor protezione, e che invocavano un aumento dei dazi. Al tempo stesso, la riduzione del tasso di crescita nei Paesi che avevano accolto immigrazioni mas­ sicce prima del 1914, portò ad una forte stretta sul movimento della popolazione. La depressione, in particolare, si dimostrò incompatibile anche con i movimenti di capitale. Da questi fatti storici, i credenti della globalizzazione senza vincoli dovrebbero trarre insegnamenti da non dimenticare.

Riprendendo il filo del nostro ragionamento ci chiediamo: l’inte­ grazione economica manifestatasi fra il 1860 circa e la prima guerra mondiale era globalizzazione o semi-globalizzazione? La rapida ridu­ zione del processo di internazionalizzazione ora descritto dimostra che esso non era stato sufficientemente robusto da creare una struttura economica transnazionale difficilmente reversibile. La « rinazionaliz­ zazione » delle economie, sia pure in presenza anche di eventi bellici, dimostra la fragilità e l’incompletezza del processo che si era avviato.

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Concludiamo, dunque che non bastano elevati flussi di commercio in­ ternazionale e di investimenti esteri per il manifestarsi della globaliz­ zazione. Un effettivo cambiamento di struttura dipende da istituzioni private e pubbliche transnazionali. Esistono esse, attualmente?

A questo proposito osserviamo, anzitutto, che l’economia globale non nasce certamente per impulso pubblico, che produce istituzioni globali esangui quali l’Onu. Essa è, in senso proprio, affare delle im­ prese, e precisamente delle imprese transnazionali. Riferendo specifi­ camente alle imprese il carattere già precisato sopra della transnazio­ nalità, si osserva che le imprese provviste di questo carattere dovreb­ bero essere contraddistinte da capitale mobile, senza specifica identifi­ cazione nazionale, con un gruppo dirigente internazionalizzato, con la capacità di insediarsi ovunque nel mondo per ottenere i rendimenti più elevati, e quindi senza una sede nazionale principale. In realtà, ben poche imprese mostrano compiutamente i caratteri descritti. So­ no invece numerose, oggi circa 40mila, le multinazionali industriali comparse nell’economia mondiale già verso la metà deH’800, e già ben sviluppate in antecedenza alla prima guerra mondiale. A differenza delle transnazionali, le multinazionali mantengono sede principale e caratteri nazionali, pur operando su diversi mercati (si pensi alla Fiat). Nell’area dell’Unione europea la tendenza alla multinazionalità si è estesa anche alle medie e piccole imprese, che tuttavia, data la lo­ ro dimensione, non rivestono il carattere di una completa transnazio­ nalità, nemmeno potenziale.

Fin qui ci siamo riferiti prevalentemente all’economia reale. Spinto da una rivoluzione tecnologica che ha quasi annullato i costi di comunicazione e di calcolo, il mercato in cui la globalizzazione ha fat­ to più passi avanti è però quello finanziario. Nei quattordici anni dal 1980 al 1994, lo stock di attività finanziarie dei Paesi industrializzati si è quasi quadruplicato: da 11.000 ad oltre 41.000 miliardi di dolla­ ri (6).

Oltre ad una dimensione accresciuta, il mercato valutario e quel­ lo delle obbligazioni del mondo sviluppato ha raggiunto un livello di integrazione non molto distante da quello di un mercato unico, anche per l’abolizione dei controlli valutari e l’attenuazione della regolamen­ tazione dei sistemi bancari locali. Questi sviluppi hanno rivelato il manifestarsi di un fondamentale problema generato dalla globalizza­

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zione: la perdita di potere dei governi nazionali per quanto concerne, in particolare, ma non solamente, i tassi d ’interesse, il corso dei cam­ bi, e l’allocazione dei capitali all’interno di ogni Paese. Nel settembre del 1992, ad esempio, le aspettative di svalutazione di alcune valute dello Sme scatenarono imponenti spinte speculative; le banche centra­ li dei Paesi europei più importanti, Francia, Germania (in sostegno esclusivo della Francia), Inghilterra e Italia, lanciarono un’azione congiunta di contrasto. Invano. Lira e sterlina furono costrette a usci­ re dallo Sme, dopo ingenti perdite delle banche. Nonostante questi pur rilevanti segnali, tuttavia, l’integrazione del mercato finanziario è ancora incompleta.

Aggiungiamo che, come abbiamo visto sopra, l'attuale economia internazionale è meno aperta ed integrata di quella prevalente nel mezzo secolo circa fra il 1970 ed il 1914. Infine, la globalizzazione in­ completa deriva anche dal fatto che commercio, investimenti diretti esteri e flussi finanziari si concentrano principalmente in Europa, Nordamerica e Giappone. Il Terzo Mondo rimane marginale, con l’ec­ cezione di alcuni Paesi in fase di industrializzazione; sicché, se le paro­ le hanno un senso preciso, non si può parlare di mondo globalizzato, quando ne resta fuori la maggior parte della popolazione.

Concludiamo, dunque, che ci troviamo in una fase di semi-globa­ lizzazione. Essa è iniziata con gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, ed ha avuto una notevole espansione quando, mutata la situa­ zione, e crollato il regime di cambi fissi e semi-fissi nel periodo 1971- 73, si è manifestata una rapida internazionalizzazione del mercato dei capitali. Questa fase precede probabilmente una globalizzazione più o meno completa, salvo eventuali reazioni contrarie da parte degli inte­ ressi danneggiati dalla globalizzazione stessa, se non opportunamente regolata, od eventi eccezionali quali quelli che arrestarono tempora­ neamente la fase di semi-globalizzazione a cavallo del X X secolo.

3. La convergenza delle economie aperte.

L ’internazionalizzazione provocata dai mercati crea pressioni per far sì che i Paesi diventino più simili. Le tendenze alla convergenza comprendono l’andamento dell’economia, la politica sociale ed econo­ mica, inclusa la politica tributaria.

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ro, beni e servizi, ed informazione fossero pienamente integrati, vi sa­ rebbe piena convergenza nel tempo nell’andamento dei principali in­ dicatori economici, quali la produttività, il salario reale, il tasso di rendimento sul capitale, ed il tenore di vita.

In pratica, tuttavia i mercati non sono perfetti, né essi sono com­ pletamente aperti, sicché si manifestano divari anche tra Paesi relati­ vamente simili, come quelli dell’Ocse. Studi empirici basati sull’onda di semi-globalizzazione a cavallo dell’800, già richiamata, provano tuttavia che le tendenze verso la globalizzazione generano una spinta alla convergenza.

L’integrazione dei mercati provoca anche una convergenza delle politiche, specialmente macroeconomiche (7). Anche la politica tribu­ taria è quindi soggetta alle forze del mercato internazionale, e a quelle della competitività. Ciò in quanto le imposte, soprattutto le indirette e quelle sul reddito d’impresa, sono legate ai costi di produzione ed al­ la redditività. Perciò, quanto maggiore la competitività, tanto più la politica tributaria è soggetta alle spinte della convergenza. Infatti tale politica impone costi. Perciò, se un singolo Paese aumenta il carico tributario, esso può incontrare difficoltà sul mercato delle esportazio­ ni, o perdere vantaggi nei riguardi degli investimenti nazionali ed esteri.

« The art of taxation » advised Louis X IV ’s treasurer. Jean-Baptiste

Colbert, consists in so plucking the goose to obtain the largest amount of feathers, with the least possible amount of hissing ». His observation re­

mains true, except for one big change. Unlike geese, people in the 17th century did not know how to fly. Now they can » (8). In altri termini, con

la semi-globalizzazione si può modificare una politica tributaria anche « votando coi piedi ».

4. Race to the Bottom: tendenze impositive nel mondo semi-globalizza­ to (9).

I sistemi tributari prevalenti nei diversi Paesi sono generalmente il prodotto del periodo successivo alla 2“ guerra mondiale, in cui le

(7) Cfr. ad es. Za r s k y L., Stuck in the Mud? Nation-States, Globalisation, and Environment, in OECD, Globalisation and Environment, Parigi, 1997.

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economie erano relativamente chiuse ed i movimenti di capitale limi­ tati. Questi sistemi entrano perciò in conflitto con le economie aperte; infatti v ’è spazio affinché individui e imprese sfruttino i differenziali delle diverse situazioni economiche, e che anche alcuni Paesi cerchino di avvantaggiarsi della possibilità di attrarre imponibili da altri Paesi, scaricando su di essi una parte dell’onere fiscale. Si erode, quindi il « principio di territorialità », che consentiva a ciascun Paese di deter­ minare la propria politica tributaria, indipendentemente da quella de­ gli altri. In generale la concorrenza tributaria si attua mediante una riduzione delle aliquote, e quindi con un minor gettito per i Paesi coinvolti. Si scatena perciò, una race to thè bottoni, nel senso di una ga­ ra alla riduzione delle aliquote. Esaminiamo dunque questa possibile gara al ribasso, in relazione ai diversi tipi di imposta.

La tassazione del reddito d’impresa è quella in cui più si manifesta l’accennata gara al ribasso delle aliquote. Infatti le tecnologie moder­ ne consentono a molte imprese — anche medie e piccole — di sceglie­ re la localizzazione più conveniente nei diversi Paesi. Le multinazio­ nali, in particolare, dispongono di una gamma particolarmente vasta f di strumenti di ingegneria fiscale: specificamente, il prezzo di trasferi­ mento (transfer pricing). Si tratta del prezzo imputato a componenti, semilavorati e in generale agli inputs importati dalle filiali localizzate in diversi Paesi. Questi oggetti rappresentano una notevole proporzio­ ne del prodotto finale: essi sono fabbricati dalle filiali estere dell’im­ presa e spesso sono destinati ad un prodotto specifico della multina­ zionale. Non esiste perciò un vero prezzo di mercato, utilizzabile per determinarne il costo effettivo. Per questo, manipolando i prezzi di trasferimento le multinazionali possono spostare i profitti imponibili verso i Paesi in cui le aliquote sono più basse. La manipolazione dei prezzi di trasferimento è in effetti divenuto un problema significativo, causa di erosione del gettito fiscale, e perciò fonte di preoccupazione in vari Paesi.

Questi fenomeni hanno già obbligato i governi a cambiare la struttura della tassazione. Prima della seconda guerra mondiale, l’im­ posta americana sulle società produceva un gettito pari a un terzo di quello federale complessivo, ora questa imposta copre meno del 12% del totale. Nell’Unione europea l’aliquota media sul capitale e sul la­ voro indipendente è caduta di 15 punti in 13 anni: da quasi il 50% nel 1981 al 35% nel 1984. Invece l’aliquota media sui salari è aumentata dal 35% al 40%.

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possibilità di investire all’estero il risparmio individuale, si è manife­ stata una crescita esplosiva nel reddito da attività o investimenti in Paesi diversi. Ciò facilita l’evasione parziale, o addirittura totale, an­ che perché lo scambio di informazioni fra le diverse amministrazioni è ancora limitato. Sono aumentati invece i « paradisi fiscali »; inoltre, nuovi strumenti più o meno esotici del mercato finanziario, quali i de­ rivati, accrescono la concorrenza fiscale e complicano la vita dell’am- ministrazione pubblica. Si è creata, o incrementata la categoria dei « rifugiati fiscali »: si tratta di percettori di elevati redditi da lavoro: artisti e sportivi di fama, a esempio, possono facilmente scegliere la residenza fiscale più conveniente.

Tuttavia, usi e costumi, lingua e identità nazionale, fanno sì che le differenze internazionali delle imposte personali sul reddito non in­ fluenzino la localizzazione dei contribuenti delle fasce medie e basse, che forniscono la massima parte del gettito. Ciò limita la convergenza delle aliquote nell’imposizione personale.

Quanto alle imposte sulle vendite, è verosimile che le aliquote pos­ sano mantenere differenze, e quindi non convergere. Fanno eccezione le zone transfrontaliere, in cui gli arbitraggi fiscali sono facili, e i beni ad alto prezzo e basso volume, quali gioielli, orologi di lusso, apparec­ chi fotografici, ecc. le cui elevate aliquote dovranno essere abbando­ nate, data la facilità di sottrarsi ad esse.

La conclusione che possiamo trarre da quanto abbiamo osserva­ to, è che in futuro si ridurrà l’imposizione dei fattori mobili, quali ri­ sparmi e profitti, gravando invece il lavoro ed il consumo. La conse­ guenza sgradevole è che in un mondo in cui il capitale è mobile, i la­ voratori, e soprattutto quelli meno specializzati che non sono mobili, dovranno sopportare la maggior parte dell’onere fiscale. Ciò incentive­ rà la disoccupazione e il risentimento dei « colletti blu ».

5. Degrado o competitività fiscale?

A parte queste conseguenze distributive negative, la concorrenza fiscale indotta dalla semi-globalizzazione deve proprio considerarsi un evento sciagurato, definibile come « degrado fiscale »? Le opinioni di­ vergono.

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lo, è ad esempio Vito Tanzi (10), che al termine d’un suo volume scri­ ve: « There is no world institution with thè responsibility to establish desi-

rable rules of taxation and with enough clout to induce countries tofollow those rules. Perhaps thè time has come to establish one ».

Altri, ad esempio James Buchanan in tema di « federalismo com­ petitivo », sostengono che la concorrenza fiscale è un’opportuna disci­ plina per controllare la rapacità del fisco e l’inefficienza della spesa pubblica. In una recente inchiesta — « nasometrica », ma interessante — si sono esaminati indicatori di benessere due gruppi di Paesi: alcu­ ni di quelli con spesa pubblica superiore al 50% del Pii (rappresentati da Belgio, Italia, Olanda, Norvegia e Svezia), ed altri in cui tale spesa è inferiore al 35% del Pii (Australia, Giappone, Svizzera, Usa, Singa­ pore e Hong Kong colonia). I Paesi spendaccioni non ne escono bene. Il prodotto pro-capite (modificato per tenere conto delle differenze in­ ternazionali nei poteri d ’acquisto) nel 1995 è di 20.400 dollari, contro 23.300 dei Paesi meno esosi. Quanto ai tassi di crescita, tra il 1960 ed il 1995 gli spendaccioni sono cresciuti del 2,5% contro quasi il 4% dei risparmiatori. Per quanto riguarda sanità ed istruzione, la situazione è quasi identica nei due gruppi. Tuttavia gli studenti dei Paesi rispar­ miatori sono risultati migliori in un recente test di matematica ....

Si tratta indubbiamente di dati non perfettamente significativi ma li citiamo per ricordare un’interessante direzione di ricerca empiri­ ca. Anche in campo tributario la competitività, purché non selvaggia, forse non è un male.

6. I tributi nel mondo globalizzato.

« Il fenomeno finanziario non è in realtà che un frammento del più complesso fenomeno politico: una delle manifestazioni della vita sociale organizzata » (11). Alla luce di questa constatazione esaminia­ mo la finanza pubblica della globalizzazione. Rilasciamo, quindi, la precedente ipotesi di semi-globalizzazione (anche se molto di ciò che vale per l’ipotesi di globalizzazione vale anche per quella precedente).

In proposito osserviamo anzitutto che, anche nella situazione considerata, vale la constatazione che la sfera socio-istituzionale

pro-(10) Taxation in an Integrating World. Brookings Institution, Washington, 1995, p. 140. Cfr. anche, nella vasta letteratura sul tema Gi a r d i n a E ., Os c u l a t i F.,

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crea inevitabilmente scompensi e ritardi nel progresso. Esemplare, in passato, è il Congresso di Vienna (1814-15), che arrestò sino ai moti ri­ voluzionari del 1848 le tendenze innovatrici in campo politico ed eco­ nomico, emerse sotto la spinta della rivoluzione industriale e dell’e­ sperienza napoleonica (12).

Nel caso nostro, mentre la sfera economica privata agisce sul mercato globalizzato, gli Stati-Nazione, racchiusi nei loro confini sto­ rici — o al massimo cooperanti a livello regionale, come nell’Ue — non sono in grado di fornire adeguate regole a tale mercato. Anzi, in luogo di potenziare le attuali istituzioni governative sovranazionali, che potrebbero utilmente contribuire alla regolazione del mercato glo­ bale, ne riducono la potenzialità. Sono note le difficoltà dell’Onu, e la riduzione del finanziamento dell’Ocse.

Dal nostro punto di vista, la ragione per cui un mercato comple­ tamente globalizzato necessita anche un governo globale è ovvia, an­ che se sorprendentemente spesso ignorata: i fallimenti del mercato ri­ guardo alla distribuzione dei redditi, all’occupazione, alla produzione dei beni pubblici e al controllo delle esternalità positive e negative. Poiché anche il mercato globale è sottoposto a tali fallimenti, occorre regolarlo opportunamente con istituzioni idonee, che spesso non pos­ sono essere soltanto gli Stati tradizionali.

Tutto cambia, infatti quando l’attività economica si affranca dal­ lo spazio e la mobilità degli uomini e dell’economia scompagina le ri- partizioni geografiche. I centri istituzionali tradizionali si indebolisco­ no. Una struttura di potere diffuso, fondato su connessioni multiple, in cui essere potenti significa possedere contatti e relazioni, si sostitui­ sce ad una struttura gerarchica piramidale nella quale essere potenti significava controllare e comandare. Questa nuova organizzazione di­ viene possibile grazie a tecniche di comunicazione che consentono di gestire l’informazione in modo agile. Il potere non consiste più soltan­ to nella conoscenza, ma nel costituire una connessione fra più cono­ scenze.

Nella situazione descritta, in cui la ricchezza nasce dalla moltipli­ cazione dei collegamenti, in cui la complessità tende a sciogliersi in una molteplicità di operazioni semplici si manifesta una tendenza ad evitare ogni perturbazione. Lo Stato tradizionale è infatti troppo

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taño per gestire i problemi della vita quotidiana, ma troppo ristretto per affrontare i problemi globali.

In questo scenario non si manifestano riforme istituzionali incisi­ ve. Infatti esse verrebbero frenate da due forze: gli Stati tradizionali, preoccupati di perdere potere se si rafforzano o si creano organismi pubblici sovranazionali, atti a gestire l’economia che travalica i confi­ ni; alcuni detentori del potere economico privato, che pure temono di essere danneggiati se venissero trasferite funzioni di governo ad entità pubbliche più ampie di quelle attuali, in grado di regolare l’economia transnazionale.

A questi fattori di stabilità dello scenario considerato, occorre ag­ giungerne altri due. Anzitutto il fatto che il controllo della violenza — la domanda di legge ed ordine — viene oggi garantito quasi esclusiva- mente dalle organizzazioni della giustizia della polizia e delle forze ar­ mate organizzate negli ambiti istituzionali tradizionali, che si è quindi restii a modificare. Il secondo elemento a favore dello status quo istitu­ zionale, deriva dal fatto che le tradizioni storiche i sentimenti di iden­ tità e di appartenenza di cui è imbevuta la nostra cultura, si collocano prevalentemente agli attuali livelli nazionali e locali. Basti pensare al­ le difficoltà di maturazione di un nuovo patriottismo europeo, per rendersi conto degli ostacoli al cambiamento.

L’assetto sociale che si determina in funzione degli elementi de­ scritti, è più adatto alla prevenzione dei conflitti piuttosto che alla lo­ ro risoluzione, dato che essi possono divenire facilmente ingestibili. Se occorre affrontare una grande decisione, manca infatti un quadro po­ litico sufficientemente robusto per risolvere il conflitto. La prosperità esige l’ordine. D ’altra parte, la teoria generale dei sistemi insegna che quanto più un sistema è complesso, tanto più esso tende ad essere inerziale.

In questa situazione, che già in parte caratterizza la nostra epo­ ca, più dei principi valgono le regole.

Poiché lo Stato tradizionale non è più in grado di garantire i ne­ cessari cambiamenti, le regole determinate dall’azione concertata delle imprese vengono poste sullo stesso piano di quelle derivanti dal pro­ cesso politico. Si sviluppa perciò, ad esempio, una nuova lex mercato­

ria, « un diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione

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mercati (13) ». Questo nuovo diritto autonomo sarà coerente agli inte­ ressi societari privati, ma non necessariamente ai lini della collettività nel suo complesso.

Il mercato si divide dunque in due parti: la prima rimasta legata al territorio e perciò sottoposta ed assistita dalla regolazione statale; questa parte, connessa alle attività tradizionali, tende ad essere la so-

cietas pauperum, o dei meno abbienti. Per contro, la società avanzata

si autorganizza, si sottrae al controllo dei governi, e tende a coincidere con la societas divitum, o società opulenta. In riferimento a quest ulti­ ma, il principale esempio di perdita di controllo dello Stato si riferisce al fisco, cui sfuggono contribuenti importanti. L’introduzione dell’im­ posta, infatti, non è più una decisione sovrana se il territorio non è più una necessità, se il luogo di residenza e d’investimento non è un dato, ma una scelta di convenienza economica, se il valore aggiunto si forma in modo troppo astratto per poter imputare la sua creazione ad un luogo preciso (14).

7. Lo Stato monopolista, virtuale e globale.

L’assetto globale descritto è fondato sull’ipotesi di costanza del quadro delle istituzioni pubbliche a storicamente formatesi prima del­ la globalizzazione. La distribuzione formale delle funzioni fra i diversi livelli di governo rimane dunque invariata. Dal punto di vista sostan­ ziale, invece, le cose cambiano, poiché nella globalizzazione l’economia acquista dimensioni marcatamente transnazionali, che rendono par­ zialmente impotenti le strutture statali tradizionali. Si passa, infatti, da un sistema internazionale, che riguarda più nazioni o Paesi ognuno considerato elemento di riferimento rilevante, ad un sistema transna­ zionale, che attraversa e va al di là delle singole nazioni, la cui impor­ tanza si riduce per l’economia globalizzata.

Lo scenario di fatto è però dominato da un accordo di potere — non necessariamente programmato ed esplicito — , tra vecchio e nuo­ vo, ossia fra la classe dirigente degli Stati tradizionali, e quella dell’e­ conomia transnazionale in espansione. Almeno nella fase di avvio del­ la società post-industriale, l’interesse dei due gruppi coincide nel

tute-(13) Cfr. Ga l g a n o F., Le istituzioni della società post-industriale, in AA.VV., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 27.

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la re i raffinati e delicati meccanismi che la tengono strettamente in­ terconnessa, evitando o ignorando ogni possibile conflitto. Infatti, per 10 Stato tradizionale, impotente nel risolvere problemi transnazionali, 11 mantenimento dell’ordine esistente è necessario per evitare la sot­ trazione di funzioni e poteri a favore di livelli di governo sovranazio- nale. Anche il business transnazionale è interessato ad evitare ogni conflitto, dovendo co-gestire un mondo reso sempre più complesso dalle nuove tecnologie.

La situazione che a questo modo si crea a livello transnazionale, appare singolarmente ben descritta, per certi aspetti (e, s’intende, mu-

tatis mutandìs) in riferimento allo Stato monopolista di Fasiani e Pan-

taleoni.

Rileggiamo, infatti: « ...nello Stato monopolista la classe eletta governa nel proprio esclusivo interesse, senza preoccuparsi affatto né dei bisogni né degli interessi dei dominati.

Questi bisogni e interessi sono da essa presi in considerazione solo in quanto ciò sia necessario per conservare il potere e per raggiungere i proprii scopi: e vengono soddisfatti nella misura solo a ciò necessa­ ria... Ma non appena i dominati sono in grado di opporre una qualche resistenza, vera o supposta, effettiva o potenziale, anche i rapporti politico economici ne sono influenzati » (15).

Nella società globale le imprese transnazionali non hanno contro­ parte pubblica di pari livello. Dunque esse agiscono, in modo virtuale, probabilmente inconsapevole, e possibilmente anche passivo, in qual­ che modo in maniera simile a quella di una classe dominante d’uno Stato monopolista. A causa delle forze di mercato prevalenti, i sistemi tributari assumeranno dunque l’ assetto descritto sopra: regressività, onere impositivo gravante sui lavoratori meno specializzati e perciò meno mobili, minore imposizione, invece, su profitti e capitali mobili.

Durerà questo tipo di situazione? Probabilmente, come osserva il Fasiani potranno esservi reazioni dei « dominati », in particolare — come è visto — la parte meno ricca e meno mobile della collettività mondiale, danneggiata dalla mondializzazione. In tal caso vi potran­ no essere due casi: la mondializzazione regredisce e gli Stati tradizio­ nali riassumono i loro poteri; muore il sogno di un mondo unito, non soltanto nell’economia, ma anche nella politica; oppure vi saranno modifiche tali da creare una controparte di governo transnazionale al mercato del medesimo livello.

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Queste modifiche dovrebbero derivare anche dal fatto che il prin­ cipio del consenso all’imposta, espresso con la formula no taxation wi-

thout representation — già contenuto nella Magna Charta di Enrico III

del 1215 — è violato nella società globale non regolata. Abbiamo in­ fatti visto che gli Stati tradizionali sono costretti dalle forze economi­ che transnazionali a modificare in senso regressivo il sistema tributa­ rio, pena l’inaridimento del gettito dovuto alla mobilità degli imponi­ bili. Ciò non avviene dunque per mandato politico dei cittadini, o al­ meno, verosimilmente, non della maggioranza. Può questa situazione perdurare in una società democratica? Ricordiamo che oggi, su una popolazione di circa 4,8 miliardi, ben 3,1 quasi il 70% vivono in Paesi democratici. Giustamente il presidente Clinton ha potuto osservare che « per la prima volta nella storia, la maggior parte della popolazio­ ne vive in democrazia piuttosto che sotto dittatura ». Nell’articolo lea­

der dell’ultimo numero di « Foreign Affairs » alla domanda del titolo: Has Democracy a Future?, Arthur Schlesinger, Jr. risponde ricordan­

do: « Modem democracy itself is thè politicai offspring of technology and

capitalism... ». Non c’è motivo per cui col tempo, ciò non valga per

forme di governo globale.

A questo proposito, già sono state avanzate alcune proposte. Se­ condo alcuni studiosi, ad esempio, il governo globale del futuro potrà essere non-spaziale, ossia non vincolato a confini fisici, ma popolato da chi condivide un obiettivo comune. Gli stati-nazione rimarrebbero vincolati allo spazio, ed assumerebbero responsabilità di coordina­ mento e di attuazione delle politiche nei loro territori.

Abbiamo tuttavia già dimostrato sufficiente coraggio, per poter continuare sulla strada della prefigurazione istituzionale.

Esaminiamo brevemente, dunque il problema del finanziamento delle forme di governo globali.

La forma più semplice sembrerebbe essere costituita da trasferi­ menti degli Stati agli organi di governo transnazionali. L’esperienza dell’Onu, ed altre simili, c ’insegnano però che il meccanismo è aperto al ricatto dei singoli. È perciò opportuno pensare a un’imposta coe­ rente col mondo globalizzato.

8. Un tributo per la finanza globalizzata: l’imposta sul bit.

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misura coincide con quella globalizzata. Si tratta, in sostanza, di un’imposta sulla trasmissione dell’informazione, la materia prima del­ la nuova economia.

Il fondamento economico della proposta si trova nel fatto che il sistema economico presente e futuro è sempre più caratterizzato dalla produzione, distribuzione e consumo di beni immateriali, sicché gran parte degli imponibili non viene raggiunta dalle forme di tassazione tradizionale, in particolare dalle imposte sulle vendite. Anzi, per moti­ vi diversi negli Usa e in Europa le vendite tramite Internet, produco­ no gettiti scarsi o nulli.

La bit tax sarebbe anche utile per ridurre la congestione che oggi si manifesta su Internet. Il basso costo di accesso alla rete, la cui struttura di prezzo è irrazionale, determina infatti esternalità negati­ ve che potrebbero essere corrette dalPimposta considerata, i cui costi di gestione ed esazione sarebbero bassi.

Una delle più importanti obiezioni a questa imposta, è che per evaderla basterebbe spostare le transazioni su rete negli Stati che non applicassero il tributo. Ecco perché vale la pena di approfondire que­ sta idea in riferimento al mondo globalizzato, in cui questo argomento non avrebbe più valore, mentre questo tipo di finanziamento appare assai coerente con forme di governo globale di una società dell’infor­ mazione.

9. Conclusione.

A scanso di equivoci chiariamo qui i nostri giudizi di valore e tec­ nici:

I) Siamo a favore del capitalismo con regole, magistralmente sintetizzato da Luigi Einaudi.

II) Riteniamo la globalizzazione un fenomeno positivo. Essa fa­ vorisce una migliore allocazione delle risorse mondiali; aprendo i mer­ cati, aumenta le possibilità di scelta fra beni e servizi; accresce la quantità e diminuisce il costo dell'informazione.

I l i ) Non riteniamo che possa sussistere alcun complotto più o meno fantapolitico fra imprese transnazionali per dominare il mondo. In assenza di vincoli transnazionali, esse perseguiranno correttamente i loro obiettivi ovviamente ignorando i fallimenti del mercato.

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DAI VINCOLI D I MAASTRICHT AL PATTO DI STABILITÀ: UN SENTIERO STRETTO PE R LA POLITICA FISCALE (*)

di Alb erto Majocchi Università degli Studi di Pavia

So m m a r io: X. Introduzione. — 2. I criteri di Maastricht per la politica fiscale. 3. La sostenibilità del debito e i limiti alla politica fiscale. — 4. Dai vincoli di Maastricht al Patto di Stabilità. — 5 . 1 contenuti del Patto di Stabilità e di Svi­ luppo. - 6. La simulazione del funzionamento del Patto di Stabilità. - 7. La necessità di vincoli quantitativi sul disavanzo. — 8. Il bilancio comunitario e il fondo europeo di stabilizzazione. — 9. Conclusioni. Bibliografia.

1. Introduzione.

Negli ultimi anni la gestione della politica fiscale in Italia è stata fortemente condizionata dal vincolo europeo. Le manovre di risana­ mento della finanza pubblica hanno avuto come principale obiettivo il rientro nei parametri di Maastricht. E il succedersi di queste mano­ vre, che nel decennio dal 1989 al 1998 hanno raggiunto un ammontare complessivo di 468.400 miliardi, dovrebbe consentire di raggiungere alla fine del 1997 l’obiettivo di un indebitamento netto della Pubblica Amministrazione pari al 3% del Pii, dopo aver raggiunto un massimo nel decennio pari all’ l l , 1% nel 1990 e essere sceso al 6,7% nel 1996. Per quanto riguarda il debito della Pubblica Amministrazione, nella definizione utilizzata per la verifica del rispetto dei parametri di con­ vergenza previsti dal Trattato di Maastricht, dopo l’inversione di ten­ denza verificatasi nel corso del 1995, si è ulteriormente ridotto nel 1996 passando dal 124,4% al 123,8% in termini di incidenza sul Pii.

Ma gli sforzi di risanamento della finanza pubblica non si sono af­ fatto conclusi con il conseguimento dell’obiettivo di garantire un in­ gresso dell’Italia fin dall’inizio nell’Unione monetaria. L ’approvazione del Patto di Stabilità implica infatti che l’indebitamento netto della Pubblica Amministrazione debba ulteriormente ridursi, tendendo a una condizione di sostanziale pareggio, o addirittura di avanzo. Per

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queste ragioni nel Dpef 1998-2000 si prevede un’ulteriore contrazione dell’indebitamento netto programmatico, che deve raggiungere l’ 1,8 % nel 2000 (vedi Tavola 1).

Data l’ampiezza degli sforzi finora compiuti, e di quelli rimasti da compiere, prima di analizzare in modo più approfondito i contenu­ ti della politica di risanamento, appare opportuno analizzare i criteri di Maastricht e i contenuti del Patto di Stabilità, per cercare di valu­ tarne gli elementi di razionalità economica e le implicazioni per la ge­ stione della politica fiscale. In particolare, si cercherà di analizzare se le regole decise a livello europeo risultino adeguate per garantire l’effi­ cacia di una politica di stabilizzazione a fronte di uno shock asimme­ trico che colpisca un paese membro dell’Unione monetaria.

Ta v. 1 . Quadro tendenziale e programmatico - Conto della Pubblica Amministrazione (miliardi di lire).

1997 1998 1999 2000

Avanzo primario tendenziale 130.877 92.129 87.203 87.778

in % sul Pii 6,69 4,53 4,12 3,98

Spesa per interessi tendenziale 189.535 175.519 179.991 177.277

in % sul Pii 9,68 8,63 8,51 8,04

Indebitamento netto tendenziale 58.658 83.390 92.788 89.499

in % sul Pii 3,00 4,10 4,38 4,06

Avanzo primario programmatico 130.877 117.129 126.706 134.074

in % sul Pii 6,69 5,76 5,99 6,08

Spesa per interessi programmatica 189.535 174.019 177.491 173.777

in % sul Pii 9,68 8,56 8,39 7,88

Indebitamento netto programmatico 58.658 56.890 50.785 39.703

in % sul Pii 3,00 2,80 2,40 1,80

Avanzo primario programmatico me­ no avanzo primario tendenziale

25.000 39.503 46.296 in % sul Pii 1,23 1,87 2,10 Manovra strutturale 25.000 14.503 6.793 in % sul Pii - 1 ,2 3 0.69 0.31 Pii 1.957.464 2.033.343 2.116.033 2.205.719 Fonte: Dpkf.

2. I criteri di Maastricht per la politica fiscale.

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ria. Per l’ Italia il problema di non rimanere esclusa dal gruppo dei paesi ammessi è legato in larga misura alla capacità di osservare i cri­ teri di Maastricht anche per quanto riguarda la politica fiscale. In ef­ fetti, nel Trattato sono fissati limiti rigidi per il livello massimo con­ sentito di disavanzo — che non deve superare il 3% del Pii e di de­ bito — che non deve superare il 60% del Pii — . Queste condizioni so­ no apparse per lungo tempo le più difficili da soddisfare anzi, pra­ ticamente irraggiungibili — , tenendo conto delle condizioni della fi­ nanza pubblica italiana. In ogni caso, appare utile cercare di capire la giustificazione razionale di questi criteri, prima di valutarne le impli­ cazioni per la gestione della politica economica e per il soddisfacimen­ to degli altri obiettivi che essa si propone.

I vincoli fissati dal Trattato in materia di politica fiscale sono stati oggetto di molteplici rilievi (Bovenberg, Kremers, Masson, 1991; Buiter, Corsetti, Roubini, 1993). In primo luogo, la fissazione di un valore pari al 3% del Pii per il disavanzo viene giustificata facendo ri­ ferimento alla regola « aurea » di finanza pubblica in base alla quale la spesa corrente deve essere finanziata da entrate correnti, mentre le spese di investimento possono essere finanziate attraverso il debito (Commissione europea, 1990). E, in effetti, nel periodo 1974-1991, os­ sia negli anni che hanno preceduto la firma del Trattato di Maastri­ cht, gli investimenti pubblici in Europa sono stati pari in media al 3% . Una volta definito il livello di disavanzo è possibile poi derivare il valore di equilibrio del rapporto debito/Pil dalla condizione che de­ termina il disavanzo di bilancio compatibile con la stabilizzazione del rapporto debito/Pil (Bini-Smaghi, Padoa Schioppa, Papadia, 1993):

d = x ■ b

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che i paesi « devianti » rispetto alle condizioni che hanno consentito alla Germania di godere di condizioni di stabilità monetaria verranno esclusi dall’accesso all’ Unione monetaria, e in particolare di introdur­ re indirettamente un vincolo anche per quanto riguarda il livello del tasso di inflazione — che nel Trattato di Maastricht è fissato soltanto con riferimento a quello prevalente nei tre paesi più virtuosi. Le rego­ le di Maastricht servono quindi a escludere i paesi « devianti » dall’ac­ cesso all’Unione monetaria, ma non costituiscono di per sé un mix ap­ propriato per definire una politica fiscale ottimale a livello europeo. Il secondo problema che emerge per quanto riguarda i vincoli fi­ scali discende dal fatto che in un’Unione monetaria gli Stati membri perdono il diritto di manovrare la politica monetaria e la politica del cambio. Nell’ambito della teoria delle aree monetarie ottimali si rileva tuttavia che gli effetti di uno shock country-specific — ovvero di uno shock con effetti asimmetrici — che colpisca un paese membro dell’U­ nione viene automaticamente assorbito in misura consistente se esiste un bilancio federale di dimensioni adeguate. Il paese in recessione ve­ de infatti ridursi i pagamenti di imposte che deve effettuare al bilan­ cio centrale e riceve dal centro un livello più elevato di trasferimenti. Effetti di segno opposto si verificano nel caso di inflazione generata da eccesso di domanda. La flessibilità automatica del bilancio federale è quindi in grado di garantire un’efficace politica di stabilizzazione a livello regionale nonostante la perdita di due importanti strumenti di politica economica.

Ma se il bilancio non ha le dimensioni adeguate ovvero non pos­ siede una sufficiente flessibilità, questi meccanismi automatici non funzionano in misura sufficiente per evitare che si manifestino gli ef­ fetti negativi dello shock esogeno. In questo caso, se nel paese in re­ cessione non si attuano manovre correttive, aumenta il disavanzo di bilancio che viene finanziato attraverso le disponibilità di risparmio in eccesso importate dagli Stati membri che si trovano in una fase di espansione. Evidentemente, i problemi risultano ancora più difficili se tutta l’Unione si trova in una situazione di recessione, ma nel paese considerato la caduta della domanda si manifesta a livelli più elevati. In ogni caso, nel paese maggiormente colpito si genera un debito esterno, il cui servizio incide sulla possibilità di manovrare in futuro la politica fiscale.

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linea si colloca il noto Rapporto MacDougall (Commissione europea, 1977). Se questo non avviene, la soluzione alternativa viene invece in­ dividuata in una maggiore flessibilità nella gestione della politica fi­ scale. Ma questa conclusione è stata di recente oggetto di pesanti criti­ che e anche su questa base sono state formulate le regole previste dal Trattato di Maastricht. È quindi opportuno analizzare con attenzione questi rilievi al fine di valutare l’opportunità di disporre di strumenti alternativi utilizzabili a livello dell’Unione. L ’obiettivo è di lare in modo che un paese in recessione non sia costretto — per evitare forti perdite di prodotto e di occupazione — a gestire la politica fiscale in modo tale da generare un disavanzo di bilancio, entrando così in con­ flitto con le prescrizioni di Maastricht.

3. La sostenibilità del debito e i limiti alla politica fiscale.

In effetti, nella letteratura è ormai largamente prevalente una te­ si diversa rispetto a quella portata avanti dalla teoria delle aree mone­ tarie ottimali — con riferimento al problema della sostenibilità del de­ bito — per quanto riguarda il ruolo delle politiche fiscali nazionali nell’ambito di un’Unione monetaria. È infatti opinione diffusa che, se un paese si muove lungo un sentiero di insostenibilità del debito, si manifestano esternalità negative per gli altri paesi dell’Unione (Com­ missione europea, 1991; Bovenberg, Kremers, Masson, 1991; Giovan- nini, Spaventa, 1991). Il paese che vede aumentare progressivamente il rapporto debito/Pil dovrà infatti ricorrere in misura crescente al mercato europeo dei capitali, spingendo quindi verso l’alto il livello dei tassi di interesse e generando così un aumento dell’onere del debi­ to per gli altri paesi dell’Unione. Se i governi di questi paesi intendo­ no stabilizzare il rapporto debito/Pil dovranno adottare politiche fi­ scali più restrittive. Inoltre, l’aumento dei tassi di interesse può in­ durre una rivalutazione del valore esterno dell’ecu — favorendo un aumento delle importazioni di capitale — , provocando in conseguenza un ulteriore effetto depressivo attraverso la riduzione delle esportazio­ ni (Buiter, Kletzer, 1991; Buiter, Corsetti, Roubini, 1993). I paesi « virtuosi » hanno quindi interesse che venga adottato un meccanismo di controllo che miri a restringere le dimensioni dei disavanzi di bilan­ cio anche per gli altri Stati dell’Unione (De Grauwe, 1997).

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todossia monetaria da parte della Banca centrale europea, che potreb­ be essere indotta a adottare una politica monetaria espansiva proprio per contrastare l’aumento dei tassi di interesse. Anche in questo caso la fissazione di limiti al disavanzo può garantire che la politica mone­ taria sia indirizzata esclusivamente a preservare la stabilità del livello dei prezzi.

Questo insieme di argomentazioni ha indotto il Comitato Delors (1989) a auspicare la fissazione di vincoli rigidi al disavanzo e al debi­ to, limitando così la flessibilità della politica fiscale. Ma anche questa conclusione è stata sottoposta a critica, da due punti di vista diversi (Buiter, Kletzer, 1991; van der Ploeg, 1991).

Innanzitutto, se il mercato europeo dei capitali funziona in modo efficace, il fatto che in un paese vi sia un deficit eccessivo avrà un ef­ fetto sui tassi di interesse che dovranno essere pagati ai sottoscrittori dei titoli di quel paese, senza influenzare il tasso sui titoli dei paesi virtuosi dell’Unione monetaria. Non si manifesterebbero quindi le esternalità paventate. È vero tuttavia che i mercati possono ipotizza­ re che, nel caso di una grave crisi di insolvenza da parte del paese in disavanzo, gli altri paesi membri dell’Unione siano costretti a interve­ nire in suo soccorso per evitare una crisi finanziaria generalizzata. In questo caso, il premio sul rischio gravante sui tassi di interesse pagati sul debito del paese in questione verrà corrispondentemente ridotto. Per questa ragione nel Trattato di Maastricht è stata inserita una clausola esplicita per impedire manovre di bail-out. È tuttavia dubbio che una clausola siffatta sia sufficiente per evitare che in circostanze drammatiche effettivamente si realizzi una manovra di salvataggio.

Il secondo problema riguarda la possibilità di applicare concreta­ mente le regole fissate dal Trattato una volta avviata l’Unione mone­ taria. In questa prospettiva le indicazioni che emergono dall’esperien­ za americana dopo l’approvazione della legge Gramm-Rudman nel 1986 sono piuttosto deludenti. E risultati analoghi sono stati osservati da von Hagen (1991) per quanto riguarda l’esperienza di Stati della Federazione americana, che hanno fissato per legge limiti al disavanzo o al livello complessivo del debito, ma sono poi riusciti a eludere que­ sti vincoli attraverso manovre fuori bilancio.

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« eccessivi ». Alla Commissione è stato in conseguenza attribuito il compito di monitorare l’effettiva osservanza di questa norma da parte degli Stati membri. Anche se non viene del tutto esclusa dalle norme del Trattato, la flessibilità delle manovre di politica fiscale per gli Sta­ ti membri dell’Unione viene quindi posta sotto il controllo della Com­ missione nel quadro dei meccanismi di sorveglianza multilaterale.

4. Dai vincoli di Maastricht al Patto di Stabilità.

Il dibattito politico sugli sviluppi dell’Unione monetaria successi­ vo alla sottoscrizione del Trattato di Maastricht è stato fortemente in­ fluenzato dalla pressione tedesca per un’estensione dei vincoli di Maa­ stricht al di là della fase che deve portare all’avvio della moneta uni­ ca. Il punto di partenza è rappresentato dal discorso del ministro delle Finanze Waigel al Bundestag del 7 novembre 1995 in cui si propone un nuovo Stabilitatspakt fur Europa, in cui venga stabilito il principio che anche in periodi di congiuntura sfavorevole il disavanzo non pos­ sa superare il 3% del Pii, mentre in condizioni normali il limite di di­ savanzo non deve essere superiore all 1% . Ua proposta tedesca è og­ getto di una prima valutazione nella nota della Commissione Towards

a stability pad del 10 gennaio 1996, mentre un’analisi più approfondi­

ta è contenuta nella nota A stability pad to ensure budgetary discipline

in Emù del 18 marzo 1996.

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corre infine tener conto dello stock di debito accumulato inizialmente al fine di prevedere traiettorie di rientro differenziate.

Le conclusioni di questa nota della Commissione suggeriscono quindi che:

a) « un certo grado di differenziazione negli obiettivi nazionali

di bilancio di medio periodo appare auspicabile da un punto di vista economico;

b) un obiettivo di disavanzo pari aH’ 1% del Pii — come definito

nella proposta per un Patto di Stabilità — appare quindi arbitrario e, nel caso di molti paesi, non sufficiente né per bilanciare gli sviluppi ci­ clici, né per affrontare le conseguenze di bilancio dell’invecchiamento della popolazione;

c) una volta stabilito un obiettivo di bilancio di medio termine

ben inferiore al 3% a livello nazionale, non è più necessario fissare vincoli addizionali sul rapporto debito pubblico/Pil ».

Ma un cambiamento nella posizione della Commissione — e un ulteriore irrigidimento nella direzione della posizione tedesca — inter­ viene nella nota successiva del 19 luglio 1996 (Ensuring budgetary di­

scipline in stage three of Emù), che giunge a una conclusione che prefi­

gura gli sviluppi definitivi assunti dal Patto di Stabilità: « Mantenere una disciplina di bilancio nella fase tre dell’Uem rappresenta una con­ dizione essenziale per sfruttare tutti i benefici della moneta unica. Il valore di riferimento del 3% del Pii per il disavanzo deve essere consi­ derato come un limite superiore in circostanze normali. La strategia deve essere fondata su un approccio a due livelli alla disciplina budge­ taria e al coordinamento della politica di bilancio: obiettivi di bilancio di medio periodo prossimi all’equilibrio o in surplus, il che consente di rimanere al di sotto del tetto del 3% in condizioni normali e permette una certa differenziazione fra i paesi membri; coordinamento delle po­ litiche di bilancio al livello dell’Unione per assicurare che esse formino un disegno coerente per l’Unione nel suo insieme ».

Si delinea in questo modo il disegno che il Patto di Stabilità assu­ merà successivamente attraverso le decisioni del Consiglio europeo di Dublino del 13-14 dicembre 1996 e le integrazioni successive apporta­ te dal Consiglio Ecofin di Noordwijk.

5. I contenuti del Patto di Stabilità e di Sviluppo.

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sterdam che impegna gli Stati membri a evitare disavanzi eccessivi, ossia a garantire un saldo di bilancio in equilibrio o in surplus, e in due Regolamenti approvati dal Consiglio.

Il primo Regolamento prevede che ogni Stato membro debba sottoporre al Consiglio e alla Commissione un « programma di stabilità e di sviluppo » nel quadro del meccanismo di sorveglianza multilatera­ le definito nell’articolo 103(3). Tale programma deve contenere le se­ guenti informazioni:

a) l’obiettivo a medio termine di un saldo di bilancio pressoché

in equilibrio o in surplus e il sentiero di aggiustamento verso questo obiettivo del rapporto disavanzo/Pil, e l’andamento previsto del rap­ porto debito/Pil;

b) le previsioni sull’andamento delle variabili economiche rile­

vanti, quali il tasso reale di sviluppo, l’occupazione e l’inflazione;

a) una descrizione delle misure che devono essere prese per con­

seguire l’obiettivo, e una valutazione dell’impatto quantitativo delle misure previste sul bilancio;

d) una valutazione dell’influenza sul saldo di bilancio e sul debi­

to di scostamenti nell’andamento delle variabili economiche rispetto alle previsioni.

Il Consiglio dovrà valutare se l’obiettivo di bilancio è compatibile con il margine di sicurezza necessario per evitare la formazione di di­ savanzi eccessivi, se le ipotesi sull’andamento delle variabili economi­ che appaiono realistiche e se le misure prese — o previste — sono ade­ guate per raggiungere l’obiettivo di medio periodo. Se la valutazione del programma porta alla conclusione che esso debba essere rafforza­ to, il Consiglio dovrà invitare lo Stato membro a apportare le modifi­ che necessarie.

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automaticamente il paese in questione è esonerato da ogni penalità. Se invece la diminuzione del Pii è compresa fra lo 0,75% e il 2% , la decisione sull’applicazione di eventuali penalità è affidata alla discre­ zionalità dei ministri finanziari.

In effetti, se un paese supera il limite di disavanzo consentito dal Patto di Stabilità, il Consiglio può disporre una sanzione finanziaria ai sensi dell’articolo 104C(11). Si tratta in sostanza di un deposito infrut­ tifero che il paese con un disavanzo eccessivo dovrà versare presso la Banca centrale europea, composto da una parte fissa pari allo 0,2% del Pii e da una parte variabile pari a un decimo di punto di Pii per ogni punto di eccedenza rispetto al valore di riferimento del 3% . Il li­ mite superiore non dovrebbe comunque superare lo 0,5% del Pii. D o­ po due anni, in assenza di politiche finanziarie correttive, il deposito verrà trasformato in una multa. Il gettito delle multe non confluirà nel bilancio comunitario, ma sarà messo a disposizione dei paesi vir­ tuosi dell’area dell’euro: è infatti apparso politicamente inappropriato che dei meccanismi dell’euro beneficino anche i paesi che di questa area non fanno parte, per scelta politica o perché non convergenti.

6. La simulazione del funzionamento del Patto di Stabilità.

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In realtà, c’è quindi una logica nello sviluppo di questo disegno, il che non significa tuttavia che le cose possano poi funzionare nella realtà così come previsto. In ogni caso, è bene riaffermare con chiarez­ za che la definizione dei parametri di Maastricht ha introdotto in Eu­ ropa una cultura della stabilità, che è di notevole rilievo se si vuole avviare un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile. E, in Italia, è soltanto grazie a Maastricht che si è potuta finalmente adeguare la Costituzio­ ne materiale in modo tale da garantire la stabilità della finanza pub­ blica, invano ricercata dal Costituente attraverso la formulazione del­ l’articolo 81. Ma il giudizio finale deve tener conto del fatto che si tratta di raggiungere simultaneamente due diversi obiettivi:

a) garantire che una volta avviata 1 Unione monetaria la stabi­

lità non venga messa in pericolo da comportamenti finanziari irre­ sponsabili;

b) ma, al contempo, provvedere affinché i paesi membri, privati

dell’utilizzo della leva monetaria e del cambio, possano utilizzare lo strumento fiscale senza violare il rispetto del vincolo precedente.

Per valutare gli effetti che possono conseguire dall’applicazione delle ipotesi contenute nel Patto di Stabilità sono stati analizzati (Bu- ti, Franco e Ongena, 1997) i periodi di recessione — definiti come un arco temporale in cui la riduzione del Pii è stata pari almeno allo 0,75% — che si sono verificati nel periodo 1961-1996 e sono stati identificati 24 episodi che hanno le caratteristiche previste dal Patto. Vengono quindi stimate le variazioni nel saldo di bilancio dovute alla flessibilità automatica delle imposte e della spesa pubblica, che assu­ me nei diversi paesi un valore oscillante tra un minimo di 0,4 per la Grecia e un massimo di 0,85 per la Svezia — in media, per l’Unione europea, per ogni punto percentuale di differenza fra il livello effetti­ vo e il livello di trend del Pii la variazione negativa nel saldo di bilan­ cio è pari allo 0,5% ed è imputabile per 4/5 alla diminuzione delle en­ trate e per 1/5 all’aumento della spesa. Evidentemente, l’effetto finale dipende dalla situazione iniziale del saldo di bilancio. Se questo è in equilibrio, su 24 episodi il limite del 3% di disavanzo sarebbe stato superato nel corso della recessione in 11 casi; ma il numero cresce a 15 episodi se il saldo iniziale è dell’ 1% e a 18 se è al 2% .

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