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Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze. 1998, Anno 57, dicembre, n.4

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(1)

DICEMBRE 1998

Pubblicazione trimestrale

Anno LVII - N. 4

Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Varese

RIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO

E

SCIENZA

DELLE

FINANZE

(

f

. RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO FINANZIARIO)

ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE AMEDEO FOSSATI - FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA IGNAZIO MANZONI - GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE

SERGIO STEVE

ROBERTO ARTONI - FILIPPO CAVAZZUTI - AUGUSTO FANTOZZI G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO LANCELLOTTI ITALO MAGNANI - GILBERTO MURARO - LEONARDO PERRONE E N R IC O P O T IT O - P A SQ U A L E R U SSO - G IU L IA N O T A B E T

FRANCESCO TESAURO - ROLANDO VALIANI

Fondata da BENVENUTO GRIZIOTTI

D I R E Z I O N E

EMILIO GERELLI - GIULIO TREMONTI

COMITATO SCIENTIFICO

COMITATO DIRETTIVO

A.

(2)

territoriale d ell’Università, della Camera di Commercio di Pavia e d ell’Istituto di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza d ell’Università di Roma. Questa R ivista viene pu bblicata con il con tributo fin a n zia rio del Consiglio Nazionale delle R icerche.

Direzione e Redazione: D ipartim ento di Econom ia pubblica e territoria le del­ l ’Università, Strada Nuova 65, 27100 Pavia; tei. 0382/504.406, (Fax) 504.402, Email: rdfsf@unipv.it.

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C O N D IZIO N I DI A B B O N A M E N T O PER IL 1 9 9 9

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n. 00023 voi. I foglio 177 del 2.7.1982 Direttore responsabile: Emilio Gerelli Pi JBBLICITÀ:

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Rivista associata aU'Unione della Stampa Periodica Italiana Pubblicità inferiore al 45%

(3)

IN D IC E -S O M M A R IO

P A R T E P R I M A

Francesco Fo r te - La Fiscal Policy e le regole del bilancio. Riflessioni sull’at­ tualità dei ccmtributi di Sergio Steve, per la costituzione di Maastricht e il pat­ to di stabilità ... r

Ai.h e r t Br e to n - Public Sector Efficiency Under Incipient Globalization ...

L r c \ An to n in i - La Corte Costituzionale e il processo tributario

An d r e a Sil v e s t r i - Destinazione a finalità estranee all’impresa e principio di inerenza nelle imposte sui redditi ...

A P P U N T I E RASSEGNE

Fe d e r ic o Co r n e l l i- Verso una « super-super Dit »? Una simulazione del benefi- cto fiscale per le imprese ...

RECENSIONI

Tra m o n ta n aA. (a cura d i) - Le imprese dell’ Umbria e il mercato unico europeo

(C. Co n so la n d i) ...

RASSEGNA D I P U B B L IC A Z IO N I RECEN TI

P A R T E S E C O N D A

Giis e p p e Gr a z ia n o - L ’irrigidimento della tendenza al « favor fisc i » nella giuri­ sprudenza penale tributaria della sez. I l i delta Corte di Cassazione ( anno 1998); in particolare, in tema di soglie di punibilità e di interruzione della prescrizione ...

ìx r ic o Ma r e l l o - L ’Invim in caso di atto nullo: questioni di legittimità costitu- zionale ...

SENTENZE A N N O T A T E

)iritto penale tributano - Omessa od incompleta contabilizzazione e fatturazio­ ne di corrispettivi - Dichiarazione dei redditi - Mancata allegazione - Rile­ vanza - Limiti (Cass., Sez. I l i pen., 2 ottobre 1997, n. 1418).

'‘ ritto penale tributario - Irregolare tenuta delle scritture contabili - Soglia di punibilità - Irrilevanza - Art. 1, comma 6, L. 7 agosto 1982, n. 516 (Cass. Sez. I l i pen., 16 marzo 1998, n. 8278).

(4)

Diritto penale tributario - Omessa annotazione di corrispettivi - Superamento della soglia percentuale - Sindacato di legittimità - Assenza del parametro di riferimento - Effetti (Cass., Sez. I l i pen., 12 maggio 1998, n. 5532). Diritto penale tributario - Omesso versamento di ritenute - Minuta di iscrizione

a ruolo delle ritenute - A tto interruttivo della prescrizione (Cass., Sez. I l i pen., 20 febbraio 1998, n. 133).

Diritto penale tributario - Prescrizione - Interruzione - Verbale di constatazio­ ne non ricevuto dal contribuente - A tto interruttivo (Cass., Sez. I l i pen.,

5 agosto 1998, n. 9135) (con n ota di G. Gr a z ia n o) ... 91-92

Tributi locali - Invim - Art. 31, D P R n. 643/1972 - Contratto nullo per causa imputabile alle parti - Divieto di rimborso - Violazione del principio di ca­ pacità contributiva - Questione di legittimità costituzionale - Non manife­ sta infondatezza (Comm. Trib. Reg. di Milano, Sez. X V I, 10 giugno 1998)

(5)

Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LV II, 4, I, 429-441 (1998)

LA FISCAL POLICY E LE REGOLE DEL BILANCIO.

RIFLESSIONI SULL’ATTUALITÀ DEI CONTRIBUTI

D I SERGIO STEVE, PE R LA COSTITUZIONE

D I MAASTRICHT E IL PATTO D I STABILITÀ

di

Fr a n c e s c o Fo r t e

Università degli Studi La Sapienza di Roma

1.

Ho di fronte a me il bel volume di « Scritti Vari » di Sergio

Steve (1), che raccoglie una ampia selezione dei suoi scritti di finanza

pubblica, politica economica e sociale, storia del pensiero economico

contemporaneo oltre a parecchi altri contributi, in particolare riguar­

danti l’insegnamento universitario. È un volume che tutti i nostri

economisti e i nostri cultori di scienza delle finanze e diritto finanzia­

rio dovrebbero leggere: ciascuno, nelle sue diverse specializzazioni, vi

troverà pagine interessanti, su cui meditare. Ma penso che la lettura

di questo libro sia utile anche dal punto di vista delle tematiche at­

tuali di politica economica e fiscale. Attualmente, in particolare, in re­

lazione ai rischi di recessione e alle difficoltà di soluzione del problema

della disoccupazione, è tornata alla ribalta, in Europa, la discussione

sul ruolo della « fiscal policy » di origine keynesiana e sulla sua compa­

tibilità con le regole di Maastricht e con il successivo patto di stabili­

tà. Reputo che, fra i contributi di Steve, su cui potrebbero utilmente

soffermarsi sia gli studiosi, che i politici e i loro « esperti», quelli su

questo tema siano particolarmente interessanti.

Ciò anche in relazione a recenti proposte avanzate dal professor

Mario Monti, nella sua veste di commissario europeo, in una lettera

indirizzata ai suoi colleghi, membri della Commissione dell’Unione

Europea (2). E alla discussione che ne è seguita, da parte del professor

Giavazzi (3).

(1) St e vE S., Scritti vari, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 813. (2) Si veda in II Sole 24 Ore di dom enica 15 novem bre 1998. (3) Su II Corriere della Sera del 17 novem bre 1998.

(6)

2.

Steve, innanzitutto, sfata un mito, che tutt’ora perdura e che

alimenta una polemica fuorviante fra fautori di politiche « keynesia-

ne » e loro oppositori: quello che identifica la fiscal policy di Keynes e

dei keynesiani genuini, quelli della scuola originaria, con il bias infla­

zionistico e il lassismo in fatto di regola di bilancio. A questa identifi­

cazione — mi pare — abbiano contribuito anche aspri critici della po­

litica del deficit di bilancio, come James Buchanan e suoi allievi, che

hanno semplicisticamente qualificato tale politica come « un lascito »

di Keynes. Ma vi contribuiscono attualmente sovratutto alcuni stu­

diosi e importanti lgaders politici che avanzano critiche alle regole di

Maastricht e al successivo patto di stabilità, appellandosi all’autorità

di Keynes, facendo supporre che il loro rigore, in fatto di deficit, se­

condo la formulazione keynesiana « ortodossa » sia un ostacolo all’oc­

cupazione e alla crescita, nel profilo congiunturale e in quello struttu­

rale.

(7)

— 431 —

ad Harrod, nel corso di una polemica con Tinbergen, l’economia (pp.

12-13) « ha a che fare con l’introspezione e con i valori...tratta con mo­

tivi, aspettative, incertezze psicologiche. Si deve stare continuamente

in guardia contro il pericolo di trattare il materiale come se fosse co­

stante ed omogeneo ». Ovviamente, questo rilievo si applica anche

agli avversari monetaristi della policy keynesiana. Vale, comunque,

per evitare di sopravalutare le possibilità di azione della politica fisca­

le « fine », rispetto a fattori meno suscettibili di sistemazione econome­

trica, come il clima di fiducia e di ottimismo degli imprenditori.

Steve per sottolineare (p. 22) la « differenza di realismo e di senso

dei limiti fra Keynes e i suoi epigoni », con riguardo a terapie come il

deficit spending, cita un gruppo di articoli di Keynes sul Financial Ti­

mes del gennaio 1937, in piena depressione, con la disoccupazione al

11%, che mi sembra suonino, oggi, attuali, con riguardo al fatto che il

problema della disoccupazione, in Italia, come in Germania e in altri

paesi dell’Unione Europea non è tanto un tema macroeconomico glo­

bale, quanto una tematica di squilibri regionali. « Oggi abbiamo piut­

tosto bisogno di una domanda ben distribuita che di una maggiore

domanda aggregata; e il Tesoro avrebbe ragione di fare economie da

qualche altra parte per compensare il costo dell’assistenza speciale alle

aree depresse ». Quanto contraria questa affermazione al cliché di un

Lord Keynes che predica il deficit spending come una panacea.

Steve (p. 580) dopo aver fatto notare che « Keynes non era affat­

to il mezzo scemo che ci viene presentato da una parte dai suoi segua­

ci e dall’altra dai suoi avversari.... non era affatto uno che non sape­

va dir altro che bisogna aumentare la spesa pubblica e avere dei disa­

vanzi di bilancio »; spiega che egli..era molto preoccupato dell’inflazio­

ne e che conosceva bene i limiti che tale pericolo comporta per l’im­

piego e la caratterizzazione della politica fiscale. Certo, vi erano stati

anche momenti, in cui Keynes era stato un espansionista ottimistico.

Ma aveva, via via, affinato le sue prescrizioni. Steve commenta con

arguzia che mentre Keynes rivedeva, con mente fresca, le sue posizio­

ni, ogni volta che gli pareva che ne fosse il caso, dicendo di « sentirsi

ogni mattina come un bambino appena nato, si direbbe che molti ke-

ynesiani e non keynesiani quella sensazione l’abbiano provata una so­

la volta nella vita » (p. 23).

(8)

na occupazione, avrebbe potuto generare pressioni inflazionistiche e

che occorre un alto grado di flessibilità, che può contrastare con rigide

regole sindacali, per mantener l’industria a un livello continuativo di

alta attività (p. 35). L inflazione da costi può derivare anche da

« strozzature » nell’offerta produttiva. Qui Steve annota che M. Kalec-

ki, nel suo saggio di ispirazione protokeynesiana (4), Three Ways to

Full Employment del 1944, aveva previsto che politiche indiscrimina­

te di espansione della domanda globale in assenza di adeguate riserve

di capacità produttiva inutilizzata, potessero condurre a tendenze in­

flazionistiche, in (pianto la struttura dell’offerta non corrisponde ne­

cessariamente a quella della domanda (p. 546).

In sostanza, Steve ci fa rilevare, nel pensiero di Keynes e dei pro-

tokeynesiani, due punti molto importanti per l’attuale discussione

sull impiego di misure di fiscal policy, per combattere la recessione e

promuovere l’occupazione in Europa: da un lato la fiscal policy per ri­

sultare efficace può richiedere non già politiche di disavanzo, ma spe­

se ad alto potenziale antirecessivo e occupazionale coperte da riduzio­

ne di altre spese; dall’altro lato la politica di espansione della doman­

da globale può trovare seri limiti inflazionistici se manca la flessibilità

salariale e se vi sono strozzature in certi rami dell’offerta di beni e ser­

vizi. Steve si pone anche il quesito del perché questo secondo aspetto

sia stato così poco considerato dai keynesiani successivi. La risposta,

per lui, e che si è sopravalutato il ruolo del commercio estero, ignoran­

do che l’eccesso di importazioni può tradursi in squilibrio valutario; e

che le tensioni nell offerta possono risolversi in rincari di prezzi, prima

di stimolare gli imports.

3.

Per altro, sarebbe errato desumere, da queste riflessioni di

Steve sul vero pensiero maturo di Keynes e dei primi e più autentici

esponenti della sua scuola, che egli intenda accreditare la versione di

un disegno di fiscal policy di Keynes e dei protokeynesiani inglesi im­

mune da idee ingenue o sbagliate. Fu solo nell’ultima parte della sua

vita

precisa Steve — che Keynes pervenne a una « percezione pro­

fonda dei limiti delle sue teorie e della loro applicazione alla realtà »;

(p. 38). E Steve è assai critico delle proposte che i protokeynesiani fa­

cevano, allo scopo di sventare i pericoli di inflazione che essi percepi­

vano, quale conseguenza delle politiche di pieno impiego. « Se le dia­

gnosi dei primi keynesiani erano acute e precise — egli scrive — le

(9)

— 433 —

ro terapie erano però incerte e discutibili ». (p. 547). Per quanto ri­

guarda Kalecki egli critica la sua tesi per cui, nelle politiche di pieno

impiego, si sarebbe dovuta accompagnare la contrattazione per più al­

ti salari, con la contrattazione (?) per più alte aliquote negli scaglioni

maggiori dell’imposta personale sul reddito, in modo da compensare

l’aumento dei consumi dei lavoratori con una riduzione di quello delle

classi di reddito più alte. Nello stesso volume, in cui vi era il saggio

(già citato) di Kalecki sulle « tre vie al pieno impiego », annota Steve,

ve ne era un’altro di E.F. Schumacher che poneva con precisione i li­

miti pratici dell’imposizione progressiva sul reddito: evasione illegale

e sovratutto legale, distorsioni e disincentivi. In sostanza Steve faceva

presente, già nel 1977, che quando, per conciliare una politica fiscale

espansiva, con un aumento della massa salariale, che di per sé è in­

compatibile con il pieno impiego, si voglia ricorrere alla tassazione

progressiva sui redditi medio alti, si ottengono effetti perversi. Sicché

il problema degli aumenti dei salari rimane, come limite alla politica

fiscale di pieno impiego, mentre bisogna evitare di baloccarsi con alte

imposte personali progressive. Oggi possiamo tradurre questa duplice

preoccupazione, con quella per le rigidità delle strutture contrattuali e

retributive del lavoro e con gli effetti perversi dell’alta imposizione di­

retta, adottata per finanziare politiche di spesa sociale, reclamate del­

le organizzazioni sindacali, come contropartita della (relativa) mode­

razione salariale.

(10)

mico. Oggi quei dirigismi sono, in gran parte, tramontati; ma se ne

propongono altri, che presentano analoghe incompatibilità, per i quali

può valere l’osservazione di Steve (p. 548) che « si è avuta, dunque,

grande carenza di buona ingegneria sociale e grande abbondanza di

cattiva ». Lo scritto in cui è contenuta questa frase è del 1977, epoca

in cui

come annota il nostro autore — , dopo un periodo senza pre­

cedenti di stabilità nello sviluppo, ci si trovava ad affrontare « non

l’inflazione nella piena occupazione, ma l’inflazione nella disoccupa­

zione ». La situazione delle maggiori nazioni industriali dell’Europa

continentale, alla fine del secolo, non vede più l’alta inflazione, né gli

altri disavanzi pubblici del passato, ma si trova ad affrontare gravosi

pioblemi di disoccupazione, in un mondo in cui sembrano svaniti i

grandi impulsi alla crescita, che venivano dal continente asiatico e

dall’onda lunga d’espansione del Nord’America. Vedremo che, co­

munque, le analisi di Steve, svolte nell’arco di quasi 50 anni, sulla fi­

scal policy conservano un fresco interesse.

4.

Scrive Steve, dopo aver emesso quelle sentenze critiche, che

(pp. 547-548), non si possono rimproverare i primi keynesiani di aver

dato queste indicazioni generiche, per arrivare alla piena occupazione

senza inflazione, quando « è già straordinario che abbiano visto con

chiarezza i termini di un problema che si sarebbe manifestato piena­

mente soltanto dopo molti anni». In questa frase si sente l’ammmira-

zione a la simpatia di Steve, per questi economisti, che in effetti, han­

no ispirato ì suoi studi applicativi su questo tema, con riguardo alla

politica fiscale italiana (5). Ma ad essa succede una nota di amarezza,

per quanto è accaduto dopo. Un eccesso di analisi formalistiche, scar­

samente idonee a gettar luce sui termini politici ultimi del problema;

una tendenza alla impossibile ricerca, spinta ai limiti estremi, del ri­

spetto di tutti gli interessi; la sostituzione, come si è visto, di una cat­

tiva ingegneria sociale troppo ambiziosa ad una buona, capace di te­

ner conto dei concreti atteggiamenti collettivi.

Già nel suo saggio del 1950 sul « finanziamento del piano del la­

voro » della Cgil, Steve osservava che se ci si fosse limitati a ragionare

in termini di domanda globale, in rapporto alla capacità produttiva

inutilizzata globale, non vi sarebbe stata la garanzia che non vi fosse

inflazione, in relazione a strozzature in settori fondamentali, dati i

(11)

vincoli sul lato della bilancia dei pagamenti e del commercio interna­

zionale.

D ’altra parte, nel suo saggio del 1972 sulle condizioni e i limiti

della politica fiscale, Steve mette in guardia da un altro possibile erro­

re derivante dal soffermarsi esclusivamente sui saldi di bilancio, per

giudicare la politica fiscale. Occorrerebbe, egli dice (p. 5S7) « che le

previsioni di entrate e spese fossero integrate per gruppi omogenei

dalla valutazione dei coefficienti di reazione (se necessario ripartiti nel

tempo) rispetto al livello della domanda globale. Si avrebbe così un

bilancio il cui saldo rappresenterebbe l’influenza che l’azione pubblica

eserciterà sull’economia nel periodo di tempo preso in considerazio­

ne ». Una politica di bilancio basata solo sui saldi, egli osserva, con­

sente solo un stima molto grossolana degli effetti della finanza sull’at­

tività economica, che può esser utile solo quando si tratti di fronteg­

giare forti vuoti inflazionistici o deflazionistici, non negli altri casi. È

evidente come ciò valga a considerare criticamente l’enfasi che viene

posta attualmente sull’incremento della spesa di investimento in fun­

zione antirecessiva, con riferimento a una interpretazione permissiva

dei parametri di Maastricht e al patto di stabilità successivo. Non ci si

sofferma sull’effetto che potrebbero avere già non aumenti di spesa

per investimento, finanziati con indebitamento sulle istituzioni credi­

tizie europee o con ricorso al credito domestico, ma riduzioni di impo­

ste, che contabilmente (e nel breve termine) danno luogo alla medesi­

ma variazione dei saldi di bilancio.

5.

Il contributo steviano di maggior importanza, per il dibattito

attuale, in relazione ad eventuali allentamenti ai vincoli di bilancio

posti dai parametri di Maastricht e dal successivo patto di stabilità di

Amsterdam, lo troviamo nel saggio del 1950, Considerazioni sulla poli­

tica del bilancio (pp. 405-431) che, forse perché pubblicato negli Studi

(12)

per spese di investimento e a causa del fatto che, nella controversia

sull’onere del debito pubblico sulle future generazioni, quando si

adotta il punto di vista oggettivo, del drenaggio di risparmio destina­

to ad accumulazione esercitato dal collocamento del debito pubblico,

si suole ammettere che se il governo impiega tale debito per spese di

investimento, le generazioni future hanno un beneficio: in ipotesi as­

sunto come equivalente a quello che deriverebbe dall’impiego di tale

risparmio sul mercato, se non maggiore.

Riguardo al primo mito, Steve osserva che se si muove da un

punto di vista dinamico, con riguardo al reddito nazionale e da un li­

vello di debito pubblico basso rispetto a tale reddito nazionale, non vi

è un motivo analitico serio per ambire al bilancio in pareggio, come

espressione di finanza sana: una politica di disavanzo può essere con­

tinuata indefinitamente, purché essa sia limitata a una percentuale

sul prodotto nazionale coerente con il suo tasso di crescita, in termini

monetari, così da lasciare invariata la percentuale del debito sul pro­

dotto nazionale. Una crescita del Pii del 3% in termini monetari, sarà

ad esempio, compatibile con un disavanzo dello 1 % del Pii medesimo,

quando il rapporto del debito pubblico sul prodotto nazionale sia il

33%. E posto che risulti accettabile un rapporto fra debito e Pii del

50%, il deficit, data una crescita del 3% , potrà stabilizzarsi sullo

1,5% del Pii. Sembrerebbe che questo enunciato di Sergio Steve sia di

immediata evidenza, per la determinazione di regole costituzionali sul

limite al deficit di bilancio. Mà così non è, nella nostra epoca, dopo la

« costituzione fiscale » di Maastricht e il successivo « patto di stabili­

tà ». Il rapporto fra tasso di crescita del Pii e deficit in tali documenti

di portata storica è completamente ignorato, sia con riguardo alla no­

ta regola del tetto al deficit pubblico del 3% , sia con riferimento al

successivo obbiettivo tendenziale del « patto di stabilità » di un disa­

vanzo pubblico dello 0% medio. Il riferimento unicamente a percen­

tuali sul Pii e non anche sulla crescita del Pii, infatti, implica effetti

diversi, per la sostenibilità del debito, in presenza di crescita bassa o

alta e di debito alto o basso.

(13)

fai-— 437 fai-—

lire. Solo se anche per i debiti pubblici, nel caso di iniziative sbagliate,

vi fosse la sanzione del mercato, la situazione potrebbe essere differen­

te e si potrebbe sostenere che il debito pubblico per investimenti è

eguale a uno privato, per quanto riguarda le considerazioni distributi­

ve. Aggiunge, però, Steve che « le osservazioni del Domar debbono es­

sere tenute presenti per circoscrivere la validità di tale osservazione ».

Si tratta di una formulazione che mi sembra fornisca buone basi

per valutare la proposta recentemente avanzata dall’economista Ma­

rio Monti, nella sua qualità di Commissario Europeo, di una miglior

considerazione delle spese di investimento pubblico, ai fini delle regole

vigenti, dopo Maastricht ed Amsterdam. Monti osserva con un certo

semplicismo, che il Trattato di Maastricht al suo articolo 104 c, al

pf. 3 consente di derogare alla regola del 3 % , in casi eccezionali, quan­

do ciò dipenda da spese per investimento. In realtà il punto decisivo,

che egli trascura, per l’ammissibilità di questa eccezione, nella norma

in esame, è la temporaneità della esondazione. Monti sorvola su ciò;

sottolinea piuttosto che « dovrebbe trattarsi di investimenti veri e

non di coperture di perdite di imprese » e inoltre che « sarebbe utile

che la Commissione ed Eurostat sviluppassero ulteriormente criteri

comuni di contabilità pubblica e di auditing per fare si che quanto

viene contabilizzato come investimento pubblico si possa davvero

considerare tale ».

(14)

6.

Sempre nello stesso saggio lo Steve analizza la proposta di at­

tuare un « doppio bilancio », per le spese correnti e per le spese di in­

vestimento, per scopi di stabilizzazione congiunturale e la soluzione,

più flessibile, che consiste nella redistribuzione nel tempo della spesa

pubblica in funzione anticongiunturale, in modo da realizzare il pa­

reggio tendenziale nel medio termine. È evidente la stretta parentela

di questa seconda regola, con il principio generale sul pareggio ten­

denziale di bilancio, di cui al patto di stabilità. La parentela della pri­

ma regola, con la proposta del professor Monti di « nuovi criteri di

contabilità pubblica », tendenti a trattare in modo più flessibile le

spese pubbliche di'investimento, pur nel rispetto delle regole di Maa­

stricht e dei principi generali del successivo patto di stabilità emerge­

rà dall esame che farò, fra poco, del contributo critico del professor

Steve all’argomento, nel lontano 1951.

La tesi del doppio bilancio consiste nell’indicare, in quello degli

investimenti, non l’intero esborso, ma solo le quote annuali di ammor­

tamento e gli interessi come si fa in un bilancio aziendale: così da con­

sentire, ove viga la regola del pareggio o del contenimento del deficit

in una certa percentuale, che negli anni di cattiva congiuntura econo­

mica si possa avere, sostanzialmente un deficit di bilancio, vuoi in re­

lazione a spese di investimento che si sarebbero in essi comunque ef­

fettuate, vuoi in relazione ad altre spese di investimento che verreb­

bero concentrate in tali anni, accelerandone i tempi di attuazione,

vuoi in rapporto a spese di investimento aggiuntive, che diversamen­

te non si sarebbero effettuate. Seguendo questo criterio, in rapporto al

patto di stabilità, che ammette, per gli anni di cattiva congiuntura,

un disavanzo maggiore, a condizione che si attuino, negli esercizi di ri­

levante espansione, corrispondenti avanzi di bilancio di parte corren­

te, si potrebbe conciliare il rispetto della regola del « quasi pareggio »

nel medio termine, con l’azione di stabilizzazione.

(15)

— 439 —

che, come quelle per l’istruzione, possono avere una maggior redditi­

vità indiretta. Includendo nel conto di capitale, del doppio bilancio,

tutte le spese di investimento in beni durevoli, comprese quelle di

consumo, poi, dati i vincoli del pareggio del bilancio di parte corrente,

su base poliennale, si genererebbe una preferenza sistematica a favore

delle spese in beni durevoli, rispetto a quelle correnti, indipendente­

mente dal loro tasso di rendimento per la collettività.

Quanto alla regola del pareggio del bilancio, mediante avanzi nei

periodi buoni e deficit nei periodi di bassa congiuntura, essa, osserva

Steve, è sottoposta, alla critica per cui non vi è motivo per supporre

che il pareggio, sia pure a medio termine, del bilancio, abbia un conte­

nuto razionale, dal momento che ciò che conta è la sostenibilità del

debito, in rapporto al prodotto nazionale e, quindi, l’effetto della spe­

sa sulla crescita di questo, cioè l’efficacia della politica fiscale in fun­

zione anticiclica e, sovratutto, in funzione strutturale.

Mi pare nello spirito del ragionamento di Steve ammettere che,

per l’Italia, dato il rapporto fra debito e Pii, sarebbe preferibile un

saldo attivo di bilancio, nel medio-lungo termine, rispetto alla regola

del saldo nullo o in deficit per investimenti.

Ma, come si è visto, in seguito Steve sottolineerà che bisogna an­

dar oltre i saldi e considerare gli effetti specifici delle varie voci di en­

trata e spesa: le basi di questa critica sono già nel saggio del 1951.

7.

Ciò che egli boccia, nel sistema del doppio bilancio, non è l’a­

spetto tecnico, ma il fatto di voler mirare, in questo modo, al pareggio

nel medio termine, e quello di introdurre un bias a sfavore di certe

spese, a favore di certe altre, in relazione alla loro caratteristica di ri­

guardare o meno beni durevoli a redditività diretta o indiretta o, ad­

dirittura, beni durevoli di consumo, quando vi sono spese pubbliche

correnti che potrebbero avere una maggior reddività indiretta. E spie­

ga: « Rendere massima l’occupazione, rendere massimo il reddito at­

tuale, rendere massimo il reddito futuro, promuovere lo sviluppo eco­

nomico generale e integrare in questo sviluppo le zone più arretrate

con quelle più avanzate... sono problemi fondamentali, la cui soluzio­

ne solo eccezionalmente potrebbe essere compatibile con il pareggio

del bilancio ».

(16)

conto che questi criteri più complessi pongono « problemi di limiti e di

controlli più delicati ».

Il far affluire i proventi delle privatizzazioni al bilancio degli in­

vestimenti non pare possa cambiare di molto la situazione, in quanto,

come si è visto, in ogni caso, il tema della sostenibilità del debito in­

duce a desiderare per l’Italia un surplus tendenziale, anziché un pa­

reggio. Per questo surplus anche le entrate che; secondo le regole vi­

genti, non contano ai fini del calcolo del risultato di esercizio, nell’ot­

tica steviana di tipo sostanziale, sono utili, anche se non decisive. In­

fatti, è evidente che, come scrive Steve, quando il debito è un peso ra­

gionevole, il lim iteli deficit deve esser dato dal fatto che « l’onere per

interessi sia mantenuto in proporzioni non maggiori dell’accrescimen­

to del reddito nazionale ». Dal che consegue che, quando il peso del

debito, come in Italia, è ancora sproporzionato, l’onere degli interessi

dovrebbe ridursi rispetto al prodotto nazionale.

(17)

— 441 —

tutti i gradi dell’istruzione si blocchino le immissioni in ruolo e le spe­

se per l’edilizia finché non sia fatto un confronto serio fra dotazioni di

strutture e di personale e le esigenze di una popolazione scolastica in

diminuzione ». Ma l’osservazione che nel bilancio degli investimenti,

ove si considerasse la redditività indiretta differita, bisognerebbe in­

cludere le spese per l’istruzione professionale, ove esse siano effettiva­

mente fonte di redditività, tramite la formazione di capitale umano

tecnicamente qualificato (un tema su cui Steve insiste, sostenendo che

esso non comporta l’istruzione superiore di massa), appare da acco­

gliersi, per dare, al sistema del doppio bilancio, una funzionalità, ai fi­

ni di regole di politica fiscale razionali, in relazione agli obbiettivi

strutturali di crescita e occupazione, nel rispetto dei vincoli sui saldi

di bilancio, per la sostenibilità del debito sul Pii.

8.

Un contributo di Sergio Steve, che mi pare particolarmente

(18)

PUBLIC SECTOR EFFICIENCY

UNDER INCIPIENT GLOBALIZATION

by

Al b e r t Br e t o n ( * )

Department o f Economics, University of Toronto

Su m m a r y: Introduction. — 2. Globalization. — 8. Efficiency. — 4. Globalization and

Efficiency. — 5. Failures to Redistribute. — 6. A Proposal for Reform. — 7. C on clu sion .— References.

1.

Introduction.

Karl Marx and Frederick Engels (1848) first and George Stigler

(1971) later argued that, whatever the form of government, there is a

general tendency for corporate interests (in marxist theory, the bour­

geoisie) to capture the apparatus of state and to use it in the pursuit

o f its own interest (1). As emphasized by Richard Posner (1974), the

model of capture on which Marx and Engels relied is different from

that used by Stigler, but, however that may be, it is a fact that the

end result is more or less the same: special interests (bourgeois or cor­

porate) override those o f the citizenry. The rent-seeking literature,

though generally less specific than Marx and Engels and Stigler on

the dramatis personae involved, nevertheless offers a view of collective

action in which the citizenry’s interests are shanghaied by special in­

terests.

These models are based on the assumption, generally not made

explicitly, that governments and governmental systems are monopo­

(*) 1 have greatly benefited from the comments of Massimo Bordignon, Giorgio Brosio, Domenico Da Empoli, Silvana Dalmazzone, Emilio Gerelli, and Gilberto Muraro on an earlier draft o f the paper which was presented at the Xth Conference of Società ita­ liana di economia pubblica (S iep) held at the Collegio Ghislieri, Pavia 9-10 October 1998. To all, 1 extend my thanks. I also wish to thank the International Centre for Economic Research in Turin for its efficient hospitality during the weeks the paper was written.

(19)

— 443 —

lies (2). Specifically, that there is no competition between the many

centers of power that make up modern governments, between the

multitudes of governments that make up governmental systems, and

between governments and the host of social institutions that are ac­

tual or potential suppliers of many goods and services that are close

substitutes for those provided by governments. There is so much by

way of beliefs and ideologies that rest on the assumption of monopoly

government — more or less as the assumption of « monopoly capital­

ism » was essential to much of the cultural and “ scientific”

Zeitgeist

of

the 1930’s and 40’s — that we should expect the assumption of

monopoly government to have a slow death.

There are, no doubt, many reasons for the fascination of

economists and others with models of capture and rent-seeking. Some

of these reasons are less noble than others. One, among the more hon­

ourable, is the desire to account for the easily observed fact that poli­

tics is often not even-handed —*-■ that it generates outcomes that dis­

proportionately benefit some segments of society. Sometimes, as

when a pure (Samuelsonian) public good is provided, it is difficult not

to benefit one group more than another. If some individuals are radi­

cal pacifists, the provision of national defence (even if it is only in the

form of deterrence) will almost certainly subtract from those persons’

utility. Those who are not radical pacifists will benefit from a utility

gain. The outcome will be biased against the first group. But even if

we set all public goods aside, we can easily verify that a number of

the outcomes of politics are biased against some groups o f citizens.

There are probably a number of mechanisms that can generate

the biases we observe in the outcomes of politics. It is possible that

some of these mechanisms are in operation at the same time, that

some operate at one moment of history and not at another, and that

some operate only at one time, and are never observed again. In view

of the increasingly well documented fact of competition in the public

sector, these mechanisms must be consistent with the reality of politi- 2

(20)

eai competition. They cannot, to put it differently, rest on the as­

sumption of monopoly government.

In what follows, I focus on one and only one of these mecha­

nisms. To be specific, I will argue that in a political framework in

which nation-states remain not only formally sovereign, but the ulti­

mate repositories of decision-making, economic globalization — the

formation of an integrated world economy — reduces the efficiency of

governments and, as a consequence of this reduced efficiency, bene­

fits some segment of society to the detriment of others.

I will proceed as follows. First, I define what I mean by global­

ization. Then, in Section 3, I look at one notion of efficiency in poli­

tics and suggest that that notion dominates all others in terms of re­

source allocation. In Section 4, I attempt to show how globalization

undermines the efficiency of governments and governmental systems.

In Section 5 I digress to make a point about the nature of some fail­

ures to redistribute and, in Section 6, I reflect on some institutional

reforms that would increase the benefits of economic globalization.

Section 7 concludes the paper.

2.

Globalization.

The word globalization means different things to different peo­

ple (3). If the word is taken to refer to the integration into larger

units of entities that were heretofore separate, then the process of

globalization has been going on for centuries. It would be possible to

claim that the last decades have seen an acceleration of this process,

but I do not believe that much more could be argued. If the word is

used to describe the greater possibilities of communication that result

from technical innovations such as the Internet, it would be possible

once more to point to an acceleration in the process of communication

and even argue that it is now on a scale that is even greater than that

which followed the invention of the printing press. But it would have

to be acknowledged that the process is one that is in continuity with

what has been going on for a long time.

I would suggest that for matters such as those examined in this

paper, we refer to economic globalization and reserve the expression

(21)

— 445 —

for the reality generated by the operation of the three following phe­

nomena: 1 ) the elimination of all restrictions on the free movement of

capital made possible by the removal of quantitative and non-quanti-

tative barriers to trade; 2) the harmonization and standardization of

the rules that govern trade, investment, employment, property

rights, environmental policies, and so on; and 3) as a consequence of

(2), that is, as a consequence of the adoption o f common standardized

rules regarding investments —- rules that necessarily tend to reflect

the practices prevailing in the dominant economies of the world

where at present more or less all assets are traded

the elimination

of impediments to the private ownership of physical assets.

At this stage of the game, globalization is still only emerging —

hence the word « incipient » in the title of the paper (4). When global­

ization is complete, governments will no longer be able to prevent

Sony Corporation from buying the Università di Pavia to make it in­

to a concern more profitable than it currently is. That would proba­

bly be achieved by downsizing. A prospect that would receive the ap­

proval of some but, I am sure, the disapproval of others! Govern­

ments would not be able to prevent a privatized Electricité de France

from purchasing a privatized Enel and proceeding with the construc­

tion of nuclear power plants over the whole of the Italian territo­

ry (5). I exaggerate of course, but less than one may think following a

quick read or a slightly distracted listening of the above. Those who

are observers o f the Canadian scene will be aware of the incessant

pressure that is put on the Canadian government to, as the saying

goes, « level the playing field ». In many instances, the expression re­

ally means that Canada should adopt the American rules of the game.

For example, in the matter of cultural policies, the support given by

the Canadian government and by a number of provincial govern­

ments to the production of films, to the publication o f books and pe­

riodicals, to the recording o f popular music, and to a variety of other

like activities is seen by the government in Washington as obstacles 4

5

(4) The incipient nature o f globalization is apparent in the difficulties encoun­ tered b y the Oecd in getting its Mai protocol (Multilateral Agreement on Investment) accepted and b y the W to in com ing to a conclusion on its Trim protocol (Trade R elat­ ed Investment Measures). W hatever difficulties these two protocols m ay be experienc­ ing, we have to expect that some agreement will be reached sometime in the future. I am grateful to Enrico Colom batto for his help in the preparation o f this note.

(22)

that make the playing field less level than it ought to be. In other

words, for Canadian governments, these policies are seen as support

to arts and culture, whereas for the American government they are

seen as protectionist interventions in the entertainment business.

I exaggerate less than I could be thought of doing for another

reason. We have all witnessed packages of macroeconomic policies

crafted by the Im f into which, as a condition for receiving the needed

help, the obligation to privatize heretofore public assets is slipped al­

most surreptitiously. It is possible that some macroeconomic manage­

ment theory has shown that privatization of public assets has a

strong stabilization effect, but to my knowledge the proof has not

been publicly revealed (6).

I now turn my attention briefly to first-order implications or

consequences of globalization. I can be brief because what I have to

say on the matter is well-known. My ultimate objective is to examine

what I will call second-order consequences. However, to be clear that

the first

and second-order consequences are different from each

other and because the two set of consequences are related to each oth­

er, I must say something on the first before going to the second.

The most obvious first-order consequence of globalization derives

from the fact that with free trade, investment in fixed capital can be

located anywhere within the free-trade area. Decisions regarding the

location of capital assets are governed by all the well-known factors

that help determine the rate of return on capital including the severi­

ty and the degree of decisiveness in implementing regulations regard­

ing the environment and the labour force, the level of taxation, the

provision of an industrial infrastructure which should be seen as en­

compassing those amenities that are of interest to middle and higher

level managers

concert and opera houses, convention centres, mu­

seums, theatres, etc.

and that allow corporations to pay lower

salaries to their employees, and so on. This means that large corpora­

tions are able to play one government against another in matters re­

lated to the variables I have just noted. It is therefore not an acci- 6

(23)

— 447 —

dent that we are able to observe a downward drift in corporate tax

rates, a less vigorous implementation of environmental laws, a reduc­

tion in job security (a point to which Alan Greenspan, the Chairman

of the United States Federal Reserve System, keeps coming back),

and a stagnation of average real wage rates.

Another first-order consequence of globalization is the incessant

take-over of assets within and across countries. Henry Manne (1965)

was right to insist that as a mechanism to discipline corporate man­

agement, a take-over is a real and reasonably powerful instrument. It

is hard to believe, however, that the corporate world is as inefficient

as the enduring wave of take-overs and mergers now in full swing

would have us believe. In two cases of merger-by-take-over that I

know something about first hand, it would seem that the main moti­

vation for the action was the « cut » on the transaction that those who

engineered the action were able to collect for themselves. In one case,

the “ agent” became twenty times a millionaire (in Canadian dollars)

overnight for bringing the merging parties to an agreement. The

merger was not successful in that the merged company had to be tak-

en-over by a third company a few years later. I know nothing about

this second transaction.

I mention only one other first-order consequence of globalization,

namely the extreme volatility of exchange rates. In his famous paper

on « The Case for Flexible Exchange Rates », Milton Friedman (1953)

made use of his enormous power of persuasion to convince us that un­

der a flexible rate system, exchange rates would be stable — there

would be no large gyration in currency values. Speculators in the

marketplace would, in the process of maximizing the worth of their

portfolios, automatically stabilize exchange rates. Friedman, it turns

out, was wrong. The volatility o f exchange rates has come to be so

large that it is virtually certain that trade in goods and services is af­

fected adversely by it. Large corporate traders are, no doubt, capable

of covering their transactions in the forward exchange market. Small­

er traders and, in particular, prospective traders must find it difficult

to do so. Another instance of globalization favouring the bigger con­

cerns.

3.

Efficiency.

(24)

insti-tutions. Those among you who have read my Competitive Governments

(1996) will not find anything new in what I have to say on public sec­

tor efficiency. However, for the benefit of those who have not read

the book, let me briefly summarize what it has to say regarding how

one should conceive of efficiency in governments. I argue that Knut

Wicksell’s (1896) view on the matter is the correct one. You will recall

that in that very important paper entitled « A New Principle of Just

Taxation », he demonstrated that if decisions regarding taxation and

decisions regarding expenditures were made simultaneously and

(quasi-) unanimously, the outcome would be Pareto optimal and

first-best. (Wicksell did not use that language, but that is still what

he said).

Wicksell and all those who were fascinated with this result were

convinced that simultaneity and unanimity were not to be found in

real world governments. Some o f these people toyed with new designs

of government. Others, like James Buchanan and Gordon Tullock

(1962), and Geoffrey Brennan and Buchanan (1980) sought to derive

constitutional rules that would be such that « in-period » decisions —

decisions governed by the constitutional rules that had been deter­

mined « out-of-period » — would approximate the outcome of simul­

taneity and unanimity. In Competitive Governments, I sought to

demonstrate that competition will drive governments to simultaneity

and unanimity and therefore to efficiency. To put it differently, I ar­

gued that competition drives governments to build what I called

« wicksellian connections » between taxation and expenditure deci­

sions that are such that if competition was perfect, taxprices paid by

citizens would be equal to the marginal value placed by citizens on

the goods and services they were provided with.

Competition does this because every centre of power inside a par­

ticular government, every government that is part of a governmental

system, and every institution in society that provides goods and ser­

vices which are substitutes for the goods and services supplied by

governments seek the consent of people. The assumption that these

competing bodies in seeking to maximize expected consent generate

wicksellian connections is analogous to the assumption that business

enterprises that seek to maximize profits not only produce at mini­

mum unit cost, but produce the goods and services that consuming

households want.

(25)

— 449 —

bodies I have just listed builds wicksellian connections and generate

efficiency. However, the intuition behind the reasoning is simple

enough. Citizen grant more of their consent to the bodies that do best

for them. The intuition is most apparent in the development of the

argument of my Presidential Address to the Canadian Economics As­

sociation in 1989. In that Address, I argued that the reason for the

long-term growth of governments in western societies was simply that

relative to other social institutions, governments had become increas­

ingly more efficient — better at dealing with problems such as free­

riding — and as a consequence, had been granted the consent of citi­

zens to provide pensions, unemployment insurance, day care, hospital

and health services, as well as the host of other services that had hith­

erto been provided by families, churches, religious orders, and many

other voluntary eleemosynary organizations. Citizens, in other words,

had withdrawn their consent from families, churches, etc. as

providers of « welfare » services and granted that consent to govern­

ments. Obviously, the transfer o f consent would be meaningful only if

governments were competing with families, churches, and other « pri­

vate » suppliers of welfare services.

That idea was on the whole well received. There were nonetheless

a number o f persons in the audience who had trouble with the idea

that families, churches, religious orders, eleemosynary bodies, and

governments were competing with each other. Many years later, Den­

nis Mueller, in a discerning review of my Competitive Governments

book asked more or less in the same spirit as some members of my

1989 audience: with whom does the Supreme Court compete? I can­

not do justice to this question here. I can, however, indicate where I

believe the answer lies. Before addressing the question of competition

o f governments with other social institutions, let me note that

churches compete and vigorously with each other for membership.

This is nowhere more apparent than in the strategies presently being

deployed by various Christian churches in their missionary work in

Third World countries. Charitable organizations compete for re­

sources against each other and against churches. That is easily veri­

fied by looking at the methods used by the fund-raising bodies that

charitable organization and churches hire to that end. I could give

other examples; the point is to remember that those institutions

which give the impression of being strangers to competition systemat­

ically do compete.

(26)

courts, to central banks, or to the armed forces — the manifestations

of competition are different, but they are not absent. Take supreme

courts and look at how their views have been and are changing on

questions such as divorce, birth control, abortion, homosexuality,

marriage, child abuse, sexual harassment, and the host of other sub­

jects that are at the forefront of social concerns at the close of this

century. Why do judges change their minds? Is it because they keep

abreast of debates and developments in ethics, deontology, and moral

philosophy. Possibly, but I think it more likely that they do so be­

cause they do not want to loose the consent of the people (7). How do

judges (and others) ascertain that consent? I am still unsure, but I

have come to think that we will find an answer to that question when

we understand what is meant by « public opinion ». Many years ago,

in 1922 to be exact, Walter Lippman began an inquiry into the na­

ture of that phenomenon and into the ways, if not of measuring it

precisely, of getting a good handle on it. His justly famous book on

the subject is consistent with the view that to govern is to entertain a

complex relationship with public opinion: to be guided by it and to

guide it. Nowadays, there is no one in public office who does not seek

to gauge public opinion through polling. Politicians do it as we all

know, but so do government departments, granting bodies, and pub­

lic broadcasters, to name only public bodies that I know first hand to

be systematically engaged in polling. But polling is not the only way

to gauge public opinion. I would not be surprised to learn that

supreme courts seek, in one way or the other, to appraise public opin­

ion. I have only recently — following Mueller’s question in his review

of my book — become aware that in Canada supreme court justices

accept invitations to give speeches to this or that group. They do not

do it for money for they are not paid when they give these speeches.

They may do it for kudos. That is unlikely however, as a supreme

court justice cannot really much increase his or her fame by giving a

speech. I suggest that they do it because it provides them the oppor­

tunity of a rendezvous with public opinion or a segment thereof (8).

W e must however recognize that the world is full of imperfec­

tions. As a consequence, wicksellian connections will seldom be com- 7

8

(7) Judges, like all o f us, are mortals. One o f the reasons why the judicature changes its mind is that older judges are replaced b y younger ones. The replacement process is one whereby a more recent public opinion takes the place o f an older one.

(8) The idea that supreme courts are concerned with « legitimacy » — consent in m y language — and therefore with public opinion is forcefully made in Su lliv a n

(27)

pletely tight. Outcomes that are less efficient than the most efficient

ones possible will be the rule. That is true of markets also. In coming

to a view on this matter, we are dealing to some degree with an em­

pirical question. But to an important degree, we are also dealing with

a question of conceptualization. Paul Baran and Paul Sweezy could

see nothing but monopolies and collusions in the same economy in

which Friedman and Stigler saw virtually nothing but competition.

Virtually all Public Finance

now a part of Public Economics

— is written under the assumption that governments are monopolies

(leviathans some call them). Jules Dupuit, Harold Hotelling, and

Arnold Harberger have taught us a good deal about the excess-bur­

den or deadweight costs of taxes and subsidies, but their analysis is

valid only if there are no wicksellian connections and therefore no

competition in the public sector. In the presence of wicksellian con­

nections, there will generally be deadweight costs, but not of taxes

and subsidies — only of imperfections in competition. Just as in the

marketplace.

4.

Globalization and Efficiency.

Globalization is still only in its infancy — incipient as I said ear­

lier. It is, however, sufficiently present to produce observable results.

In respect of governments and governmental systems, globalization’s

main second order consequence is to undermine wicksellian connec­

tions.

It does this in the following way. Because the capital of large cor­

porations is mobile, corporations can threaten to leave a jurisdiction

unless the public services it demands are provided by the government

of that jurisdiction. It makes similar threats to put downward pres­

sure on the tax rates that apply to the income it yields. That by itself

undermines wicksellian connections. But that is only the first step.

The necessity to provide goods and services to corporate capital at

taxprices that are not high enough to cover the jurisdiction’s unit

costs of production and delivery implies that goods and services will

be provided to the citizenry in general at taxprices that are higher

than unit costs. That finishes the job of undermining wicksellian con­

nections.

The foregoing can be given a more analytical twist. An increase

in the degree of globalization increases the market power of business

corporations because globalization increases the mobility o f capital.

(28)

As a result, a government that chooses to attract capital or decides to

hold onto capital already in its jurisdiction will accept to provide

goods and services demanded by corporate interests at lower tax-

prices and/or in greater quantity or quality. The greater mobility of

capital, in other words, will have made corporations into more effec­

tive oligopsonists in their purchases of governmentally supplied goods

and services and, as a consequence, will benefit from larger oligopson-

istic rents — rents that will inflict a deadweight cost on society. The

« transfer » to oligopsonists means that citizens would have to pay

more for the goods and services provided them, assuming no change

in the government’s budget constraint. The quantity of publicly sup­

plied goods and services demanded by citizens will therefore decline.

Citizens will search for alternative suppliers. The proposition that

globalization undermines wicksellian connections therefore means

that in the new equilibrium, corporate interests benefit from larger

oligopsonistic rents while the citizenry at large wants fewer govern­

mentally provided goods and services. The increment in globalization

will then have been accompanied by a transfer of supply from public

to private institutions (9). In the process, globalization changes the

distribution of political power in society in favour of corporate capital

against the institutions that have responsibility for the general wel­

fare of the citizenry. The special treatment of some groups in society

— in this case corporate interests — which has been ascribed to cap­

ture or to rent-seeking, I impute to globalization (10).

Many have been surprised to observe political leaders, each with­

in the range of the political values and beliefs ruling in their respec­

tive societies, who would have been expected to be left-of-centre,

make pronouncements and take actions that were far from being left-

of-centre. Tony Blair, Bill Clinton, Lionel Jospin, and Romano Prodi

were all thought to be left-of-centre, but a number of them have sup­

ported measures that have eroded the welfare state as well as mea­

sures that have put in corporate hands tasks and responsibilities that

these hands are not obviously able to handle competently. There is a 9

1

0

(9) I am grateful to Massimo Bordignon, Giorgio Brosio, and Silvana Dalmaz- zone for pointing to an error in an earlier draft regarding how the efficiency o f the public sector changes as the extent o f globalization varies.

(29)

— 453 —

tendency to blame the Blairs, the Clintons, the Jospins, and the

Prodis for not standing up to conservative forces. I would like to sug­

gest that the premise underlying such views is wrong. These men are

only responding to blind forces put in motion by globalization —

forces that sap the efficiency of governments and governmental sys­

tems relative to other institutions o f society with which they com­

pete. To put it differently, the transfer of the administration and op­

eration of jails, hospitals, homes for adolescents, for old-age persons,

and for the mentally disabled to corporate interests which is at pre­

sent being tried on a larger and larger scale is, I submit, a reflection of

the fact that in comparative terms the efficiency of governments is

being eroded. As globalization proceeds — as it will, whatever the dif­

ficulties it is presently encountering -S pressure will grow to transfer

the administration and operation to corporate businesses of such poli­

cy domains as national defence, international diplomacy, environ­

mental protection, national parks, justice, and possibly even the de­

sign and implementation o f constitutions. If my analysis is at all close

to the underlying dynamics, that will happen whether citizens elect

governments known, for fifty years at least, as progressive or conser­

vative.

5.

Failures to Redistribute.

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