DICEMBRE 1998
Pubblicazione trimestraleAnno LVII - N. 4
Spedizione in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di VareseRIVISTA DI DIRITTO FINANZIARIO
E
SCIENZA
DELLE
FINANZE
(
f
. RIVISTA ITALIANA DI DIRITTO FINANZIARIO)
ENRICO DE MITA - ANDREA FEDELE - FRANCESCO FORTE AMEDEO FOSSATI - FRANCO GALLO - SALVATORE LA ROSA IGNAZIO MANZONI - GIANNINO PARRAVICINI - ANTONIO PEDONE
SERGIO STEVE
ROBERTO ARTONI - FILIPPO CAVAZZUTI - AUGUSTO FANTOZZI G. FRANCO GAFFURI - DINO PIERO GIARDA - EZIO LANCELLOTTI ITALO MAGNANI - GILBERTO MURARO - LEONARDO PERRONE E N R IC O P O T IT O - P A SQ U A L E R U SSO - G IU L IA N O T A B E T
FRANCESCO TESAURO - ROLANDO VALIANI
Fondata da BENVENUTO GRIZIOTTI
D I R E Z I O N E
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COMITATO SCIENTIFICO
COMITATO DIRETTIVO
A.
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IN D IC E -S O M M A R IO
P A R T E P R I M A
Francesco Fo r te - La Fiscal Policy e le regole del bilancio. Riflessioni sull’at tualità dei ccmtributi di Sergio Steve, per la costituzione di Maastricht e il pat to di stabilità ... r
Ai.h e r t Br e to n - Public Sector Efficiency Under Incipient Globalization ...
L r c \ An to n in i - La Corte Costituzionale e il processo tributario
An d r e a Sil v e s t r i - Destinazione a finalità estranee all’impresa e principio di inerenza nelle imposte sui redditi ...
A P P U N T I E RASSEGNE
Fe d e r ic o Co r n e l l i- Verso una « super-super Dit »? Una simulazione del benefi- cto fiscale per le imprese ...
RECENSIONI
Tra m o n ta n aA. (a cura d i) - Le imprese dell’ Umbria e il mercato unico europeo
(C. Co n so la n d i) ...
RASSEGNA D I P U B B L IC A Z IO N I RECEN TI
P A R T E S E C O N D A
Giis e p p e Gr a z ia n o - L ’irrigidimento della tendenza al « favor fisc i » nella giuri sprudenza penale tributaria della sez. I l i delta Corte di Cassazione ( anno 1998); in particolare, in tema di soglie di punibilità e di interruzione della prescrizione ...
ìx r ic o Ma r e l l o - L ’Invim in caso di atto nullo: questioni di legittimità costitu- zionale ...
SENTENZE A N N O T A T E
)iritto penale tributano - Omessa od incompleta contabilizzazione e fatturazio ne di corrispettivi - Dichiarazione dei redditi - Mancata allegazione - Rile vanza - Limiti (Cass., Sez. I l i pen., 2 ottobre 1997, n. 1418).
'‘ ritto penale tributario - Irregolare tenuta delle scritture contabili - Soglia di punibilità - Irrilevanza - Art. 1, comma 6, L. 7 agosto 1982, n. 516 (Cass. Sez. I l i pen., 16 marzo 1998, n. 8278).
Diritto penale tributario - Omessa annotazione di corrispettivi - Superamento della soglia percentuale - Sindacato di legittimità - Assenza del parametro di riferimento - Effetti (Cass., Sez. I l i pen., 12 maggio 1998, n. 5532). Diritto penale tributario - Omesso versamento di ritenute - Minuta di iscrizione
a ruolo delle ritenute - A tto interruttivo della prescrizione (Cass., Sez. I l i pen., 20 febbraio 1998, n. 133).
Diritto penale tributario - Prescrizione - Interruzione - Verbale di constatazio ne non ricevuto dal contribuente - A tto interruttivo (Cass., Sez. I l i pen.,
5 agosto 1998, n. 9135) (con n ota di G. Gr a z ia n o) ... 91-92
Tributi locali - Invim - Art. 31, D P R n. 643/1972 - Contratto nullo per causa imputabile alle parti - Divieto di rimborso - Violazione del principio di ca pacità contributiva - Questione di legittimità costituzionale - Non manife sta infondatezza (Comm. Trib. Reg. di Milano, Sez. X V I, 10 giugno 1998)
Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, LV II, 4, I, 429-441 (1998)
LA FISCAL POLICY E LE REGOLE DEL BILANCIO.
RIFLESSIONI SULL’ATTUALITÀ DEI CONTRIBUTI
D I SERGIO STEVE, PE R LA COSTITUZIONE
D I MAASTRICHT E IL PATTO D I STABILITÀ
di
Fr a n c e s c o Fo r t eUniversità degli Studi La Sapienza di Roma
1.
Ho di fronte a me il bel volume di « Scritti Vari » di Sergio
Steve (1), che raccoglie una ampia selezione dei suoi scritti di finanza
pubblica, politica economica e sociale, storia del pensiero economico
contemporaneo oltre a parecchi altri contributi, in particolare riguar
danti l’insegnamento universitario. È un volume che tutti i nostri
economisti e i nostri cultori di scienza delle finanze e diritto finanzia
rio dovrebbero leggere: ciascuno, nelle sue diverse specializzazioni, vi
troverà pagine interessanti, su cui meditare. Ma penso che la lettura
di questo libro sia utile anche dal punto di vista delle tematiche at
tuali di politica economica e fiscale. Attualmente, in particolare, in re
lazione ai rischi di recessione e alle difficoltà di soluzione del problema
della disoccupazione, è tornata alla ribalta, in Europa, la discussione
sul ruolo della « fiscal policy » di origine keynesiana e sulla sua compa
tibilità con le regole di Maastricht e con il successivo patto di stabili
tà. Reputo che, fra i contributi di Steve, su cui potrebbero utilmente
soffermarsi sia gli studiosi, che i politici e i loro « esperti», quelli su
questo tema siano particolarmente interessanti.
Ciò anche in relazione a recenti proposte avanzate dal professor
Mario Monti, nella sua veste di commissario europeo, in una lettera
indirizzata ai suoi colleghi, membri della Commissione dell’Unione
Europea (2). E alla discussione che ne è seguita, da parte del professor
Giavazzi (3).
(1) St e vE S., Scritti vari, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 813. (2) Si veda in II Sole 24 Ore di dom enica 15 novem bre 1998. (3) Su II Corriere della Sera del 17 novem bre 1998.
2.
Steve, innanzitutto, sfata un mito, che tutt’ora perdura e che
alimenta una polemica fuorviante fra fautori di politiche « keynesia-
ne » e loro oppositori: quello che identifica la fiscal policy di Keynes e
dei keynesiani genuini, quelli della scuola originaria, con il bias infla
zionistico e il lassismo in fatto di regola di bilancio. A questa identifi
cazione — mi pare — abbiano contribuito anche aspri critici della po
litica del deficit di bilancio, come James Buchanan e suoi allievi, che
hanno semplicisticamente qualificato tale politica come « un lascito »
di Keynes. Ma vi contribuiscono attualmente sovratutto alcuni stu
diosi e importanti lgaders politici che avanzano critiche alle regole di
Maastricht e al successivo patto di stabilità, appellandosi all’autorità
di Keynes, facendo supporre che il loro rigore, in fatto di deficit, se
condo la formulazione keynesiana « ortodossa » sia un ostacolo all’oc
cupazione e alla crescita, nel profilo congiunturale e in quello struttu
rale.
— 431 —
ad Harrod, nel corso di una polemica con Tinbergen, l’economia (pp.
12-13) « ha a che fare con l’introspezione e con i valori...tratta con mo
tivi, aspettative, incertezze psicologiche. Si deve stare continuamente
in guardia contro il pericolo di trattare il materiale come se fosse co
stante ed omogeneo ». Ovviamente, questo rilievo si applica anche
agli avversari monetaristi della policy keynesiana. Vale, comunque,
per evitare di sopravalutare le possibilità di azione della politica fisca
le « fine », rispetto a fattori meno suscettibili di sistemazione econome
trica, come il clima di fiducia e di ottimismo degli imprenditori.
Steve per sottolineare (p. 22) la « differenza di realismo e di senso
dei limiti fra Keynes e i suoi epigoni », con riguardo a terapie come il
deficit spending, cita un gruppo di articoli di Keynes sul Financial Ti
mes del gennaio 1937, in piena depressione, con la disoccupazione al
11%, che mi sembra suonino, oggi, attuali, con riguardo al fatto che il
problema della disoccupazione, in Italia, come in Germania e in altri
paesi dell’Unione Europea non è tanto un tema macroeconomico glo
bale, quanto una tematica di squilibri regionali. « Oggi abbiamo piut
tosto bisogno di una domanda ben distribuita che di una maggiore
domanda aggregata; e il Tesoro avrebbe ragione di fare economie da
qualche altra parte per compensare il costo dell’assistenza speciale alle
aree depresse ». Quanto contraria questa affermazione al cliché di un
Lord Keynes che predica il deficit spending come una panacea.
Steve (p. 580) dopo aver fatto notare che « Keynes non era affat
to il mezzo scemo che ci viene presentato da una parte dai suoi segua
ci e dall’altra dai suoi avversari.... non era affatto uno che non sape
va dir altro che bisogna aumentare la spesa pubblica e avere dei disa
vanzi di bilancio »; spiega che egli..era molto preoccupato dell’inflazio
ne e che conosceva bene i limiti che tale pericolo comporta per l’im
piego e la caratterizzazione della politica fiscale. Certo, vi erano stati
anche momenti, in cui Keynes era stato un espansionista ottimistico.
Ma aveva, via via, affinato le sue prescrizioni. Steve commenta con
arguzia che mentre Keynes rivedeva, con mente fresca, le sue posizio
ni, ogni volta che gli pareva che ne fosse il caso, dicendo di « sentirsi
ogni mattina come un bambino appena nato, si direbbe che molti ke-
ynesiani e non keynesiani quella sensazione l’abbiano provata una so
la volta nella vita » (p. 23).
na occupazione, avrebbe potuto generare pressioni inflazionistiche e
che occorre un alto grado di flessibilità, che può contrastare con rigide
regole sindacali, per mantener l’industria a un livello continuativo di
alta attività (p. 35). L inflazione da costi può derivare anche da
« strozzature » nell’offerta produttiva. Qui Steve annota che M. Kalec-
ki, nel suo saggio di ispirazione protokeynesiana (4), Three Ways to
Full Employment del 1944, aveva previsto che politiche indiscrimina
te di espansione della domanda globale in assenza di adeguate riserve
di capacità produttiva inutilizzata, potessero condurre a tendenze in
flazionistiche, in (pianto la struttura dell’offerta non corrisponde ne
cessariamente a quella della domanda (p. 546).
In sostanza, Steve ci fa rilevare, nel pensiero di Keynes e dei pro-
tokeynesiani, due punti molto importanti per l’attuale discussione
sull impiego di misure di fiscal policy, per combattere la recessione e
promuovere l’occupazione in Europa: da un lato la fiscal policy per ri
sultare efficace può richiedere non già politiche di disavanzo, ma spe
se ad alto potenziale antirecessivo e occupazionale coperte da riduzio
ne di altre spese; dall’altro lato la politica di espansione della doman
da globale può trovare seri limiti inflazionistici se manca la flessibilità
salariale e se vi sono strozzature in certi rami dell’offerta di beni e ser
vizi. Steve si pone anche il quesito del perché questo secondo aspetto
sia stato così poco considerato dai keynesiani successivi. La risposta,
per lui, e che si è sopravalutato il ruolo del commercio estero, ignoran
do che l’eccesso di importazioni può tradursi in squilibrio valutario; e
che le tensioni nell offerta possono risolversi in rincari di prezzi, prima
di stimolare gli imports.
3.
Per altro, sarebbe errato desumere, da queste riflessioni di
Steve sul vero pensiero maturo di Keynes e dei primi e più autentici
esponenti della sua scuola, che egli intenda accreditare la versione di
un disegno di fiscal policy di Keynes e dei protokeynesiani inglesi im
mune da idee ingenue o sbagliate. Fu solo nell’ultima parte della sua
vita
precisa Steve — che Keynes pervenne a una « percezione pro
fonda dei limiti delle sue teorie e della loro applicazione alla realtà »;
(p. 38). E Steve è assai critico delle proposte che i protokeynesiani fa
cevano, allo scopo di sventare i pericoli di inflazione che essi percepi
vano, quale conseguenza delle politiche di pieno impiego. « Se le dia
gnosi dei primi keynesiani erano acute e precise — egli scrive — le
— 433 —
ro terapie erano però incerte e discutibili ». (p. 547). Per quanto ri
guarda Kalecki egli critica la sua tesi per cui, nelle politiche di pieno
impiego, si sarebbe dovuta accompagnare la contrattazione per più al
ti salari, con la contrattazione (?) per più alte aliquote negli scaglioni
maggiori dell’imposta personale sul reddito, in modo da compensare
l’aumento dei consumi dei lavoratori con una riduzione di quello delle
classi di reddito più alte. Nello stesso volume, in cui vi era il saggio
(già citato) di Kalecki sulle « tre vie al pieno impiego », annota Steve,
ve ne era un’altro di E.F. Schumacher che poneva con precisione i li
miti pratici dell’imposizione progressiva sul reddito: evasione illegale
e sovratutto legale, distorsioni e disincentivi. In sostanza Steve faceva
presente, già nel 1977, che quando, per conciliare una politica fiscale
espansiva, con un aumento della massa salariale, che di per sé è in
compatibile con il pieno impiego, si voglia ricorrere alla tassazione
progressiva sui redditi medio alti, si ottengono effetti perversi. Sicché
il problema degli aumenti dei salari rimane, come limite alla politica
fiscale di pieno impiego, mentre bisogna evitare di baloccarsi con alte
imposte personali progressive. Oggi possiamo tradurre questa duplice
preoccupazione, con quella per le rigidità delle strutture contrattuali e
retributive del lavoro e con gli effetti perversi dell’alta imposizione di
retta, adottata per finanziare politiche di spesa sociale, reclamate del
le organizzazioni sindacali, come contropartita della (relativa) mode
razione salariale.
mico. Oggi quei dirigismi sono, in gran parte, tramontati; ma se ne
propongono altri, che presentano analoghe incompatibilità, per i quali
può valere l’osservazione di Steve (p. 548) che « si è avuta, dunque,
grande carenza di buona ingegneria sociale e grande abbondanza di
cattiva ». Lo scritto in cui è contenuta questa frase è del 1977, epoca
in cui
come annota il nostro autore — , dopo un periodo senza pre
cedenti di stabilità nello sviluppo, ci si trovava ad affrontare « non
l’inflazione nella piena occupazione, ma l’inflazione nella disoccupa
zione ». La situazione delle maggiori nazioni industriali dell’Europa
continentale, alla fine del secolo, non vede più l’alta inflazione, né gli
altri disavanzi pubblici del passato, ma si trova ad affrontare gravosi
pioblemi di disoccupazione, in un mondo in cui sembrano svaniti i
grandi impulsi alla crescita, che venivano dal continente asiatico e
dall’onda lunga d’espansione del Nord’America. Vedremo che, co
munque, le analisi di Steve, svolte nell’arco di quasi 50 anni, sulla fi
scal policy conservano un fresco interesse.
4.
Scrive Steve, dopo aver emesso quelle sentenze critiche, che
(pp. 547-548), non si possono rimproverare i primi keynesiani di aver
dato queste indicazioni generiche, per arrivare alla piena occupazione
senza inflazione, quando « è già straordinario che abbiano visto con
chiarezza i termini di un problema che si sarebbe manifestato piena
mente soltanto dopo molti anni». In questa frase si sente l’ammmira-
zione a la simpatia di Steve, per questi economisti, che in effetti, han
no ispirato ì suoi studi applicativi su questo tema, con riguardo alla
politica fiscale italiana (5). Ma ad essa succede una nota di amarezza,
per quanto è accaduto dopo. Un eccesso di analisi formalistiche, scar
samente idonee a gettar luce sui termini politici ultimi del problema;
una tendenza alla impossibile ricerca, spinta ai limiti estremi, del ri
spetto di tutti gli interessi; la sostituzione, come si è visto, di una cat
tiva ingegneria sociale troppo ambiziosa ad una buona, capace di te
ner conto dei concreti atteggiamenti collettivi.
Già nel suo saggio del 1950 sul « finanziamento del piano del la
voro » della Cgil, Steve osservava che se ci si fosse limitati a ragionare
in termini di domanda globale, in rapporto alla capacità produttiva
inutilizzata globale, non vi sarebbe stata la garanzia che non vi fosse
inflazione, in relazione a strozzature in settori fondamentali, dati i
vincoli sul lato della bilancia dei pagamenti e del commercio interna
zionale.
D ’altra parte, nel suo saggio del 1972 sulle condizioni e i limiti
della politica fiscale, Steve mette in guardia da un altro possibile erro
re derivante dal soffermarsi esclusivamente sui saldi di bilancio, per
giudicare la politica fiscale. Occorrerebbe, egli dice (p. 5S7) « che le
previsioni di entrate e spese fossero integrate per gruppi omogenei
dalla valutazione dei coefficienti di reazione (se necessario ripartiti nel
tempo) rispetto al livello della domanda globale. Si avrebbe così un
bilancio il cui saldo rappresenterebbe l’influenza che l’azione pubblica
eserciterà sull’economia nel periodo di tempo preso in considerazio
ne ». Una politica di bilancio basata solo sui saldi, egli osserva, con
sente solo un stima molto grossolana degli effetti della finanza sull’at
tività economica, che può esser utile solo quando si tratti di fronteg
giare forti vuoti inflazionistici o deflazionistici, non negli altri casi. È
evidente come ciò valga a considerare criticamente l’enfasi che viene
posta attualmente sull’incremento della spesa di investimento in fun
zione antirecessiva, con riferimento a una interpretazione permissiva
dei parametri di Maastricht e al patto di stabilità successivo. Non ci si
sofferma sull’effetto che potrebbero avere già non aumenti di spesa
per investimento, finanziati con indebitamento sulle istituzioni credi
tizie europee o con ricorso al credito domestico, ma riduzioni di impo
ste, che contabilmente (e nel breve termine) danno luogo alla medesi
ma variazione dei saldi di bilancio.
5.
Il contributo steviano di maggior importanza, per il dibattito
attuale, in relazione ad eventuali allentamenti ai vincoli di bilancio
posti dai parametri di Maastricht e dal successivo patto di stabilità di
Amsterdam, lo troviamo nel saggio del 1950, Considerazioni sulla poli
tica del bilancio (pp. 405-431) che, forse perché pubblicato negli Studi
per spese di investimento e a causa del fatto che, nella controversia
sull’onere del debito pubblico sulle future generazioni, quando si
adotta il punto di vista oggettivo, del drenaggio di risparmio destina
to ad accumulazione esercitato dal collocamento del debito pubblico,
si suole ammettere che se il governo impiega tale debito per spese di
investimento, le generazioni future hanno un beneficio: in ipotesi as
sunto come equivalente a quello che deriverebbe dall’impiego di tale
risparmio sul mercato, se non maggiore.
Riguardo al primo mito, Steve osserva che se si muove da un
punto di vista dinamico, con riguardo al reddito nazionale e da un li
vello di debito pubblico basso rispetto a tale reddito nazionale, non vi
è un motivo analitico serio per ambire al bilancio in pareggio, come
espressione di finanza sana: una politica di disavanzo può essere con
tinuata indefinitamente, purché essa sia limitata a una percentuale
sul prodotto nazionale coerente con il suo tasso di crescita, in termini
monetari, così da lasciare invariata la percentuale del debito sul pro
dotto nazionale. Una crescita del Pii del 3% in termini monetari, sarà
ad esempio, compatibile con un disavanzo dello 1 % del Pii medesimo,
quando il rapporto del debito pubblico sul prodotto nazionale sia il
33%. E posto che risulti accettabile un rapporto fra debito e Pii del
50%, il deficit, data una crescita del 3% , potrà stabilizzarsi sullo
1,5% del Pii. Sembrerebbe che questo enunciato di Sergio Steve sia di
immediata evidenza, per la determinazione di regole costituzionali sul
limite al deficit di bilancio. Mà così non è, nella nostra epoca, dopo la
« costituzione fiscale » di Maastricht e il successivo « patto di stabili
tà ». Il rapporto fra tasso di crescita del Pii e deficit in tali documenti
di portata storica è completamente ignorato, sia con riguardo alla no
ta regola del tetto al deficit pubblico del 3% , sia con riferimento al
successivo obbiettivo tendenziale del « patto di stabilità » di un disa
vanzo pubblico dello 0% medio. Il riferimento unicamente a percen
tuali sul Pii e non anche sulla crescita del Pii, infatti, implica effetti
diversi, per la sostenibilità del debito, in presenza di crescita bassa o
alta e di debito alto o basso.
fai-— 437 fai-—
lire. Solo se anche per i debiti pubblici, nel caso di iniziative sbagliate,
vi fosse la sanzione del mercato, la situazione potrebbe essere differen
te e si potrebbe sostenere che il debito pubblico per investimenti è
eguale a uno privato, per quanto riguarda le considerazioni distributi
ve. Aggiunge, però, Steve che « le osservazioni del Domar debbono es
sere tenute presenti per circoscrivere la validità di tale osservazione ».
Si tratta di una formulazione che mi sembra fornisca buone basi
per valutare la proposta recentemente avanzata dall’economista Ma
rio Monti, nella sua qualità di Commissario Europeo, di una miglior
considerazione delle spese di investimento pubblico, ai fini delle regole
vigenti, dopo Maastricht ed Amsterdam. Monti osserva con un certo
semplicismo, che il Trattato di Maastricht al suo articolo 104 c, al
pf. 3 consente di derogare alla regola del 3 % , in casi eccezionali, quan
do ciò dipenda da spese per investimento. In realtà il punto decisivo,
che egli trascura, per l’ammissibilità di questa eccezione, nella norma
in esame, è la temporaneità della esondazione. Monti sorvola su ciò;
sottolinea piuttosto che « dovrebbe trattarsi di investimenti veri e
non di coperture di perdite di imprese » e inoltre che « sarebbe utile
che la Commissione ed Eurostat sviluppassero ulteriormente criteri
comuni di contabilità pubblica e di auditing per fare si che quanto
viene contabilizzato come investimento pubblico si possa davvero
considerare tale ».
6.
Sempre nello stesso saggio lo Steve analizza la proposta di at
tuare un « doppio bilancio », per le spese correnti e per le spese di in
vestimento, per scopi di stabilizzazione congiunturale e la soluzione,
più flessibile, che consiste nella redistribuzione nel tempo della spesa
pubblica in funzione anticongiunturale, in modo da realizzare il pa
reggio tendenziale nel medio termine. È evidente la stretta parentela
di questa seconda regola, con il principio generale sul pareggio ten
denziale di bilancio, di cui al patto di stabilità. La parentela della pri
ma regola, con la proposta del professor Monti di « nuovi criteri di
contabilità pubblica », tendenti a trattare in modo più flessibile le
spese pubbliche di'investimento, pur nel rispetto delle regole di Maa
stricht e dei principi generali del successivo patto di stabilità emerge
rà dall esame che farò, fra poco, del contributo critico del professor
Steve all’argomento, nel lontano 1951.
La tesi del doppio bilancio consiste nell’indicare, in quello degli
investimenti, non l’intero esborso, ma solo le quote annuali di ammor
tamento e gli interessi come si fa in un bilancio aziendale: così da con
sentire, ove viga la regola del pareggio o del contenimento del deficit
in una certa percentuale, che negli anni di cattiva congiuntura econo
mica si possa avere, sostanzialmente un deficit di bilancio, vuoi in re
lazione a spese di investimento che si sarebbero in essi comunque ef
fettuate, vuoi in relazione ad altre spese di investimento che verreb
bero concentrate in tali anni, accelerandone i tempi di attuazione,
vuoi in rapporto a spese di investimento aggiuntive, che diversamen
te non si sarebbero effettuate. Seguendo questo criterio, in rapporto al
patto di stabilità, che ammette, per gli anni di cattiva congiuntura,
un disavanzo maggiore, a condizione che si attuino, negli esercizi di ri
levante espansione, corrispondenti avanzi di bilancio di parte corren
te, si potrebbe conciliare il rispetto della regola del « quasi pareggio »
nel medio termine, con l’azione di stabilizzazione.
— 439 —
che, come quelle per l’istruzione, possono avere una maggior redditi
vità indiretta. Includendo nel conto di capitale, del doppio bilancio,
tutte le spese di investimento in beni durevoli, comprese quelle di
consumo, poi, dati i vincoli del pareggio del bilancio di parte corrente,
su base poliennale, si genererebbe una preferenza sistematica a favore
delle spese in beni durevoli, rispetto a quelle correnti, indipendente
mente dal loro tasso di rendimento per la collettività.
Quanto alla regola del pareggio del bilancio, mediante avanzi nei
periodi buoni e deficit nei periodi di bassa congiuntura, essa, osserva
Steve, è sottoposta, alla critica per cui non vi è motivo per supporre
che il pareggio, sia pure a medio termine, del bilancio, abbia un conte
nuto razionale, dal momento che ciò che conta è la sostenibilità del
debito, in rapporto al prodotto nazionale e, quindi, l’effetto della spe
sa sulla crescita di questo, cioè l’efficacia della politica fiscale in fun
zione anticiclica e, sovratutto, in funzione strutturale.
Mi pare nello spirito del ragionamento di Steve ammettere che,
per l’Italia, dato il rapporto fra debito e Pii, sarebbe preferibile un
saldo attivo di bilancio, nel medio-lungo termine, rispetto alla regola
del saldo nullo o in deficit per investimenti.
Ma, come si è visto, in seguito Steve sottolineerà che bisogna an
dar oltre i saldi e considerare gli effetti specifici delle varie voci di en
trata e spesa: le basi di questa critica sono già nel saggio del 1951.
7.
Ciò che egli boccia, nel sistema del doppio bilancio, non è l’a
spetto tecnico, ma il fatto di voler mirare, in questo modo, al pareggio
nel medio termine, e quello di introdurre un bias a sfavore di certe
spese, a favore di certe altre, in relazione alla loro caratteristica di ri
guardare o meno beni durevoli a redditività diretta o indiretta o, ad
dirittura, beni durevoli di consumo, quando vi sono spese pubbliche
correnti che potrebbero avere una maggior reddività indiretta. E spie
ga: « Rendere massima l’occupazione, rendere massimo il reddito at
tuale, rendere massimo il reddito futuro, promuovere lo sviluppo eco
nomico generale e integrare in questo sviluppo le zone più arretrate
con quelle più avanzate... sono problemi fondamentali, la cui soluzio
ne solo eccezionalmente potrebbe essere compatibile con il pareggio
del bilancio ».
conto che questi criteri più complessi pongono « problemi di limiti e di
controlli più delicati ».
Il far affluire i proventi delle privatizzazioni al bilancio degli in
vestimenti non pare possa cambiare di molto la situazione, in quanto,
come si è visto, in ogni caso, il tema della sostenibilità del debito in
duce a desiderare per l’Italia un surplus tendenziale, anziché un pa
reggio. Per questo surplus anche le entrate che; secondo le regole vi
genti, non contano ai fini del calcolo del risultato di esercizio, nell’ot
tica steviana di tipo sostanziale, sono utili, anche se non decisive. In
fatti, è evidente che, come scrive Steve, quando il debito è un peso ra
gionevole, il lim iteli deficit deve esser dato dal fatto che « l’onere per
interessi sia mantenuto in proporzioni non maggiori dell’accrescimen
to del reddito nazionale ». Dal che consegue che, quando il peso del
debito, come in Italia, è ancora sproporzionato, l’onere degli interessi
dovrebbe ridursi rispetto al prodotto nazionale.
— 441 —
tutti i gradi dell’istruzione si blocchino le immissioni in ruolo e le spe
se per l’edilizia finché non sia fatto un confronto serio fra dotazioni di
strutture e di personale e le esigenze di una popolazione scolastica in
diminuzione ». Ma l’osservazione che nel bilancio degli investimenti,
ove si considerasse la redditività indiretta differita, bisognerebbe in
cludere le spese per l’istruzione professionale, ove esse siano effettiva
mente fonte di redditività, tramite la formazione di capitale umano
tecnicamente qualificato (un tema su cui Steve insiste, sostenendo che
esso non comporta l’istruzione superiore di massa), appare da acco
gliersi, per dare, al sistema del doppio bilancio, una funzionalità, ai fi
ni di regole di politica fiscale razionali, in relazione agli obbiettivi
strutturali di crescita e occupazione, nel rispetto dei vincoli sui saldi
di bilancio, per la sostenibilità del debito sul Pii.
8.
Un contributo di Sergio Steve, che mi pare particolarmente
PUBLIC SECTOR EFFICIENCY
UNDER INCIPIENT GLOBALIZATION
by
Al b e r t Br e t o n ( * )Department o f Economics, University of Toronto
Su m m a r y: Introduction. — 2. Globalization. — 8. Efficiency. — 4. Globalization and
Efficiency. — 5. Failures to Redistribute. — 6. A Proposal for Reform. — 7. C on clu sion .— References.
1.
Introduction.
Karl Marx and Frederick Engels (1848) first and George Stigler
(1971) later argued that, whatever the form of government, there is a
general tendency for corporate interests (in marxist theory, the bour
geoisie) to capture the apparatus of state and to use it in the pursuit
o f its own interest (1). As emphasized by Richard Posner (1974), the
model of capture on which Marx and Engels relied is different from
that used by Stigler, but, however that may be, it is a fact that the
end result is more or less the same: special interests (bourgeois or cor
porate) override those o f the citizenry. The rent-seeking literature,
though generally less specific than Marx and Engels and Stigler on
the dramatis personae involved, nevertheless offers a view of collective
action in which the citizenry’s interests are shanghaied by special in
terests.
These models are based on the assumption, generally not made
explicitly, that governments and governmental systems are monopo
(*) 1 have greatly benefited from the comments of Massimo Bordignon, Giorgio Brosio, Domenico Da Empoli, Silvana Dalmazzone, Emilio Gerelli, and Gilberto Muraro on an earlier draft o f the paper which was presented at the Xth Conference of Società ita liana di economia pubblica (S iep) held at the Collegio Ghislieri, Pavia 9-10 October 1998. To all, 1 extend my thanks. I also wish to thank the International Centre for Economic Research in Turin for its efficient hospitality during the weeks the paper was written.
— 443 —
lies (2). Specifically, that there is no competition between the many
centers of power that make up modern governments, between the
multitudes of governments that make up governmental systems, and
between governments and the host of social institutions that are ac
tual or potential suppliers of many goods and services that are close
substitutes for those provided by governments. There is so much by
way of beliefs and ideologies that rest on the assumption of monopoly
government — more or less as the assumption of « monopoly capital
ism » was essential to much of the cultural and “ scientific”
Zeitgeist
of
the 1930’s and 40’s — that we should expect the assumption of
monopoly government to have a slow death.
There are, no doubt, many reasons for the fascination of
economists and others with models of capture and rent-seeking. Some
of these reasons are less noble than others. One, among the more hon
ourable, is the desire to account for the easily observed fact that poli
tics is often not even-handed —*-■ that it generates outcomes that dis
proportionately benefit some segments of society. Sometimes, as
when a pure (Samuelsonian) public good is provided, it is difficult not
to benefit one group more than another. If some individuals are radi
cal pacifists, the provision of national defence (even if it is only in the
form of deterrence) will almost certainly subtract from those persons’
utility. Those who are not radical pacifists will benefit from a utility
gain. The outcome will be biased against the first group. But even if
we set all public goods aside, we can easily verify that a number of
the outcomes of politics are biased against some groups o f citizens.
There are probably a number of mechanisms that can generate
the biases we observe in the outcomes of politics. It is possible that
some of these mechanisms are in operation at the same time, that
some operate at one moment of history and not at another, and that
some operate only at one time, and are never observed again. In view
of the increasingly well documented fact of competition in the public
sector, these mechanisms must be consistent with the reality of politi- 2
eai competition. They cannot, to put it differently, rest on the as
sumption of monopoly government.
In what follows, I focus on one and only one of these mecha
nisms. To be specific, I will argue that in a political framework in
which nation-states remain not only formally sovereign, but the ulti
mate repositories of decision-making, economic globalization — the
formation of an integrated world economy — reduces the efficiency of
governments and, as a consequence of this reduced efficiency, bene
fits some segment of society to the detriment of others.
I will proceed as follows. First, I define what I mean by global
ization. Then, in Section 3, I look at one notion of efficiency in poli
tics and suggest that that notion dominates all others in terms of re
source allocation. In Section 4, I attempt to show how globalization
undermines the efficiency of governments and governmental systems.
In Section 5 I digress to make a point about the nature of some fail
ures to redistribute and, in Section 6, I reflect on some institutional
reforms that would increase the benefits of economic globalization.
Section 7 concludes the paper.
2.
Globalization.
The word globalization means different things to different peo
ple (3). If the word is taken to refer to the integration into larger
units of entities that were heretofore separate, then the process of
globalization has been going on for centuries. It would be possible to
claim that the last decades have seen an acceleration of this process,
but I do not believe that much more could be argued. If the word is
used to describe the greater possibilities of communication that result
from technical innovations such as the Internet, it would be possible
once more to point to an acceleration in the process of communication
and even argue that it is now on a scale that is even greater than that
which followed the invention of the printing press. But it would have
to be acknowledged that the process is one that is in continuity with
what has been going on for a long time.
I would suggest that for matters such as those examined in this
paper, we refer to economic globalization and reserve the expression
— 445 —
for the reality generated by the operation of the three following phe
nomena: 1 ) the elimination of all restrictions on the free movement of
capital made possible by the removal of quantitative and non-quanti-
tative barriers to trade; 2) the harmonization and standardization of
the rules that govern trade, investment, employment, property
rights, environmental policies, and so on; and 3) as a consequence of
(2), that is, as a consequence of the adoption o f common standardized
rules regarding investments —- rules that necessarily tend to reflect
the practices prevailing in the dominant economies of the world
where at present more or less all assets are traded
the elimination
of impediments to the private ownership of physical assets.
At this stage of the game, globalization is still only emerging —
hence the word « incipient » in the title of the paper (4). When global
ization is complete, governments will no longer be able to prevent
Sony Corporation from buying the Università di Pavia to make it in
to a concern more profitable than it currently is. That would proba
bly be achieved by downsizing. A prospect that would receive the ap
proval of some but, I am sure, the disapproval of others! Govern
ments would not be able to prevent a privatized Electricité de France
from purchasing a privatized Enel and proceeding with the construc
tion of nuclear power plants over the whole of the Italian territo
ry (5). I exaggerate of course, but less than one may think following a
quick read or a slightly distracted listening of the above. Those who
are observers o f the Canadian scene will be aware of the incessant
pressure that is put on the Canadian government to, as the saying
goes, « level the playing field ». In many instances, the expression re
ally means that Canada should adopt the American rules of the game.
For example, in the matter of cultural policies, the support given by
the Canadian government and by a number of provincial govern
ments to the production of films, to the publication o f books and pe
riodicals, to the recording o f popular music, and to a variety of other
like activities is seen by the government in Washington as obstacles 4
5
(4) The incipient nature o f globalization is apparent in the difficulties encoun tered b y the Oecd in getting its Mai protocol (Multilateral Agreement on Investment) accepted and b y the W to in com ing to a conclusion on its Trim protocol (Trade R elat ed Investment Measures). W hatever difficulties these two protocols m ay be experienc ing, we have to expect that some agreement will be reached sometime in the future. I am grateful to Enrico Colom batto for his help in the preparation o f this note.
that make the playing field less level than it ought to be. In other
words, for Canadian governments, these policies are seen as support
to arts and culture, whereas for the American government they are
seen as protectionist interventions in the entertainment business.
I exaggerate less than I could be thought of doing for another
reason. We have all witnessed packages of macroeconomic policies
crafted by the Im f into which, as a condition for receiving the needed
help, the obligation to privatize heretofore public assets is slipped al
most surreptitiously. It is possible that some macroeconomic manage
ment theory has shown that privatization of public assets has a
strong stabilization effect, but to my knowledge the proof has not
been publicly revealed (6).
I now turn my attention briefly to first-order implications or
consequences of globalization. I can be brief because what I have to
say on the matter is well-known. My ultimate objective is to examine
what I will call second-order consequences. However, to be clear that
the first
and second-order consequences are different from each
other and because the two set of consequences are related to each oth
er, I must say something on the first before going to the second.
The most obvious first-order consequence of globalization derives
from the fact that with free trade, investment in fixed capital can be
located anywhere within the free-trade area. Decisions regarding the
location of capital assets are governed by all the well-known factors
that help determine the rate of return on capital including the severi
ty and the degree of decisiveness in implementing regulations regard
ing the environment and the labour force, the level of taxation, the
provision of an industrial infrastructure which should be seen as en
compassing those amenities that are of interest to middle and higher
level managers
concert and opera houses, convention centres, mu
seums, theatres, etc.
and that allow corporations to pay lower
salaries to their employees, and so on. This means that large corpora
tions are able to play one government against another in matters re
lated to the variables I have just noted. It is therefore not an acci- 6
— 447 —
dent that we are able to observe a downward drift in corporate tax
rates, a less vigorous implementation of environmental laws, a reduc
tion in job security (a point to which Alan Greenspan, the Chairman
of the United States Federal Reserve System, keeps coming back),
and a stagnation of average real wage rates.
Another first-order consequence of globalization is the incessant
take-over of assets within and across countries. Henry Manne (1965)
was right to insist that as a mechanism to discipline corporate man
agement, a take-over is a real and reasonably powerful instrument. It
is hard to believe, however, that the corporate world is as inefficient
as the enduring wave of take-overs and mergers now in full swing
would have us believe. In two cases of merger-by-take-over that I
know something about first hand, it would seem that the main moti
vation for the action was the « cut » on the transaction that those who
engineered the action were able to collect for themselves. In one case,
the “ agent” became twenty times a millionaire (in Canadian dollars)
overnight for bringing the merging parties to an agreement. The
merger was not successful in that the merged company had to be tak-
en-over by a third company a few years later. I know nothing about
this second transaction.
I mention only one other first-order consequence of globalization,
namely the extreme volatility of exchange rates. In his famous paper
on « The Case for Flexible Exchange Rates », Milton Friedman (1953)
made use of his enormous power of persuasion to convince us that un
der a flexible rate system, exchange rates would be stable — there
would be no large gyration in currency values. Speculators in the
marketplace would, in the process of maximizing the worth of their
portfolios, automatically stabilize exchange rates. Friedman, it turns
out, was wrong. The volatility o f exchange rates has come to be so
large that it is virtually certain that trade in goods and services is af
fected adversely by it. Large corporate traders are, no doubt, capable
of covering their transactions in the forward exchange market. Small
er traders and, in particular, prospective traders must find it difficult
to do so. Another instance of globalization favouring the bigger con
cerns.
3.
Efficiency.
insti-tutions. Those among you who have read my Competitive Governments
(1996) will not find anything new in what I have to say on public sec
tor efficiency. However, for the benefit of those who have not read
the book, let me briefly summarize what it has to say regarding how
one should conceive of efficiency in governments. I argue that Knut
Wicksell’s (1896) view on the matter is the correct one. You will recall
that in that very important paper entitled « A New Principle of Just
Taxation », he demonstrated that if decisions regarding taxation and
decisions regarding expenditures were made simultaneously and
(quasi-) unanimously, the outcome would be Pareto optimal and
first-best. (Wicksell did not use that language, but that is still what
he said).
Wicksell and all those who were fascinated with this result were
convinced that simultaneity and unanimity were not to be found in
real world governments. Some o f these people toyed with new designs
of government. Others, like James Buchanan and Gordon Tullock
(1962), and Geoffrey Brennan and Buchanan (1980) sought to derive
constitutional rules that would be such that « in-period » decisions —
decisions governed by the constitutional rules that had been deter
mined « out-of-period » — would approximate the outcome of simul
taneity and unanimity. In Competitive Governments, I sought to
demonstrate that competition will drive governments to simultaneity
and unanimity and therefore to efficiency. To put it differently, I ar
gued that competition drives governments to build what I called
« wicksellian connections » between taxation and expenditure deci
sions that are such that if competition was perfect, taxprices paid by
citizens would be equal to the marginal value placed by citizens on
the goods and services they were provided with.
Competition does this because every centre of power inside a par
ticular government, every government that is part of a governmental
system, and every institution in society that provides goods and ser
vices which are substitutes for the goods and services supplied by
governments seek the consent of people. The assumption that these
competing bodies in seeking to maximize expected consent generate
wicksellian connections is analogous to the assumption that business
enterprises that seek to maximize profits not only produce at mini
mum unit cost, but produce the goods and services that consuming
households want.
— 449 —
bodies I have just listed builds wicksellian connections and generate
efficiency. However, the intuition behind the reasoning is simple
enough. Citizen grant more of their consent to the bodies that do best
for them. The intuition is most apparent in the development of the
argument of my Presidential Address to the Canadian Economics As
sociation in 1989. In that Address, I argued that the reason for the
long-term growth of governments in western societies was simply that
relative to other social institutions, governments had become increas
ingly more efficient — better at dealing with problems such as free
riding — and as a consequence, had been granted the consent of citi
zens to provide pensions, unemployment insurance, day care, hospital
and health services, as well as the host of other services that had hith
erto been provided by families, churches, religious orders, and many
other voluntary eleemosynary organizations. Citizens, in other words,
had withdrawn their consent from families, churches, etc. as
providers of « welfare » services and granted that consent to govern
ments. Obviously, the transfer o f consent would be meaningful only if
governments were competing with families, churches, and other « pri
vate » suppliers of welfare services.
That idea was on the whole well received. There were nonetheless
a number o f persons in the audience who had trouble with the idea
that families, churches, religious orders, eleemosynary bodies, and
governments were competing with each other. Many years later, Den
nis Mueller, in a discerning review of my Competitive Governments
book asked more or less in the same spirit as some members of my
1989 audience: with whom does the Supreme Court compete? I can
not do justice to this question here. I can, however, indicate where I
believe the answer lies. Before addressing the question of competition
o f governments with other social institutions, let me note that
churches compete and vigorously with each other for membership.
This is nowhere more apparent than in the strategies presently being
deployed by various Christian churches in their missionary work in
Third World countries. Charitable organizations compete for re
sources against each other and against churches. That is easily veri
fied by looking at the methods used by the fund-raising bodies that
charitable organization and churches hire to that end. I could give
other examples; the point is to remember that those institutions
which give the impression of being strangers to competition systemat
ically do compete.
courts, to central banks, or to the armed forces — the manifestations
of competition are different, but they are not absent. Take supreme
courts and look at how their views have been and are changing on
questions such as divorce, birth control, abortion, homosexuality,
marriage, child abuse, sexual harassment, and the host of other sub
jects that are at the forefront of social concerns at the close of this
century. Why do judges change their minds? Is it because they keep
abreast of debates and developments in ethics, deontology, and moral
philosophy. Possibly, but I think it more likely that they do so be
cause they do not want to loose the consent of the people (7). How do
judges (and others) ascertain that consent? I am still unsure, but I
have come to think that we will find an answer to that question when
we understand what is meant by « public opinion ». Many years ago,
in 1922 to be exact, Walter Lippman began an inquiry into the na
ture of that phenomenon and into the ways, if not of measuring it
precisely, of getting a good handle on it. His justly famous book on
the subject is consistent with the view that to govern is to entertain a
complex relationship with public opinion: to be guided by it and to
guide it. Nowadays, there is no one in public office who does not seek
to gauge public opinion through polling. Politicians do it as we all
know, but so do government departments, granting bodies, and pub
lic broadcasters, to name only public bodies that I know first hand to
be systematically engaged in polling. But polling is not the only way
to gauge public opinion. I would not be surprised to learn that
supreme courts seek, in one way or the other, to appraise public opin
ion. I have only recently — following Mueller’s question in his review
of my book — become aware that in Canada supreme court justices
accept invitations to give speeches to this or that group. They do not
do it for money for they are not paid when they give these speeches.
They may do it for kudos. That is unlikely however, as a supreme
court justice cannot really much increase his or her fame by giving a
speech. I suggest that they do it because it provides them the oppor
tunity of a rendezvous with public opinion or a segment thereof (8).
W e must however recognize that the world is full of imperfec
tions. As a consequence, wicksellian connections will seldom be com- 7
8
(7) Judges, like all o f us, are mortals. One o f the reasons why the judicature changes its mind is that older judges are replaced b y younger ones. The replacement process is one whereby a more recent public opinion takes the place o f an older one.
(8) The idea that supreme courts are concerned with « legitimacy » — consent in m y language — and therefore with public opinion is forcefully made in Su lliv a n
pletely tight. Outcomes that are less efficient than the most efficient
ones possible will be the rule. That is true of markets also. In coming
to a view on this matter, we are dealing to some degree with an em
pirical question. But to an important degree, we are also dealing with
a question of conceptualization. Paul Baran and Paul Sweezy could
see nothing but monopolies and collusions in the same economy in
which Friedman and Stigler saw virtually nothing but competition.
Virtually all Public Finance
now a part of Public Economics
— is written under the assumption that governments are monopolies
(leviathans some call them). Jules Dupuit, Harold Hotelling, and
Arnold Harberger have taught us a good deal about the excess-bur
den or deadweight costs of taxes and subsidies, but their analysis is
valid only if there are no wicksellian connections and therefore no
competition in the public sector. In the presence of wicksellian con
nections, there will generally be deadweight costs, but not of taxes
and subsidies — only of imperfections in competition. Just as in the
marketplace.
4.
Globalization and Efficiency.
Globalization is still only in its infancy — incipient as I said ear
lier. It is, however, sufficiently present to produce observable results.
In respect of governments and governmental systems, globalization’s
main second order consequence is to undermine wicksellian connec
tions.
It does this in the following way. Because the capital of large cor
porations is mobile, corporations can threaten to leave a jurisdiction
unless the public services it demands are provided by the government
of that jurisdiction. It makes similar threats to put downward pres
sure on the tax rates that apply to the income it yields. That by itself
undermines wicksellian connections. But that is only the first step.
The necessity to provide goods and services to corporate capital at
taxprices that are not high enough to cover the jurisdiction’s unit
costs of production and delivery implies that goods and services will
be provided to the citizenry in general at taxprices that are higher
than unit costs. That finishes the job of undermining wicksellian con
nections.
The foregoing can be given a more analytical twist. An increase
in the degree of globalization increases the market power of business
corporations because globalization increases the mobility o f capital.
As a result, a government that chooses to attract capital or decides to
hold onto capital already in its jurisdiction will accept to provide
goods and services demanded by corporate interests at lower tax-
prices and/or in greater quantity or quality. The greater mobility of
capital, in other words, will have made corporations into more effec
tive oligopsonists in their purchases of governmentally supplied goods
and services and, as a consequence, will benefit from larger oligopson-
istic rents — rents that will inflict a deadweight cost on society. The
« transfer » to oligopsonists means that citizens would have to pay
more for the goods and services provided them, assuming no change
in the government’s budget constraint. The quantity of publicly sup
plied goods and services demanded by citizens will therefore decline.
Citizens will search for alternative suppliers. The proposition that
globalization undermines wicksellian connections therefore means
that in the new equilibrium, corporate interests benefit from larger
oligopsonistic rents while the citizenry at large wants fewer govern
mentally provided goods and services. The increment in globalization
will then have been accompanied by a transfer of supply from public
to private institutions (9). In the process, globalization changes the
distribution of political power in society in favour of corporate capital
against the institutions that have responsibility for the general wel
fare of the citizenry. The special treatment of some groups in society
— in this case corporate interests — which has been ascribed to cap
ture or to rent-seeking, I impute to globalization (10).
Many have been surprised to observe political leaders, each with
in the range of the political values and beliefs ruling in their respec
tive societies, who would have been expected to be left-of-centre,
make pronouncements and take actions that were far from being left-
of-centre. Tony Blair, Bill Clinton, Lionel Jospin, and Romano Prodi
were all thought to be left-of-centre, but a number of them have sup
ported measures that have eroded the welfare state as well as mea
sures that have put in corporate hands tasks and responsibilities that
these hands are not obviously able to handle competently. There is a 9
1
0
(9) I am grateful to Massimo Bordignon, Giorgio Brosio, and Silvana Dalmaz- zone for pointing to an error in an earlier draft regarding how the efficiency o f the public sector changes as the extent o f globalization varies.