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Dalla χάρι ς come dono alla grazia come atto di clemenza.

Nel documento Diritto, decisione, caso (pagine 148-152)

CAPITOLO II DECISIONE RAZIONALE

DIRITTO, DECISIONE, SECOLARIZZAZIONE

7. Dalla χάρι ς come dono alla grazia come atto di clemenza.

Ancora una volta sono le parole che disegnano legami scolorati nel tempo. La parola carisma deriva dal greco χάρισμα, da χάριζομαι, ungere, non a caso χριστός, significa

unto, colui che ha ricevuto i doni dello Spirito Santo. Da un’ottica puramente teologica la

χάρις corrisponde alla grazia infusa all’atto del battesimo. Essa é dono dello Spirito che permette all’uomo di entrare in comunione con Dio, una sorta di benevolenza nei confronti del battezzato, che si fa tabernacolo di Dio. Prendendo le mosse dal pensiero di Sant’Agostino, la grazia è amore, appetitus verso un’entità riconosciuta proprio come è e amata per ciò che é. Il campo semantico della χάρις si articola in profili diversi, da azione santificante, si manifesta anche come motore che permette all’uomo di godere della

beatitudo, il luogo della pienezza, oggetto di una ricerca incessante. L’animo umano,

secondo Agostino non trova su questa terra un oggetto d’amore adeguato alla sua dismisura, anche se in realtà lo ha già conosciuto all’origine della sua storia: Iam te

amabam399. L’uomo tende verso Dio, verso quell’origine che è anche meta, assenza e

beatitudine nello stesso tempo. Inciampa, cade, si ritrova sull’orlo di un precipizio nella ricerca affannosa di quella felicità intravista che nel suo presente è ancora irreale. “Cercavo qualcosa da amare, amando amare […], poiché dentro avevo una fame di cibo interiore: proprio di te, mio Dio” (Conf. 3.1.1 ). Vedere il volto di Dio è riconoscere quella felicità mai assaporata pienamente. L’inquietudine propria dell’umano è determinata dall’essere fuori da Dio. “Ti cercavo fuori di me e non ti trovavo, Dio del mio cuore.” (Conf. 6.1.1). Dio è autem eras interior intimo meo et superio summo meo. (Conf. 3.6.11).

398 Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, Torino, Einaudi, 1989.

399 Remo Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, il Mulino, 2005, p. 108. Interessante è il riferimento a Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, Milano, Se Editore 2004.

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Con l’unione dell’interior intimo meo all’intimus nostri ciascuno sarà finalmente se stesso, trovando la dimora della propria identità. Lo sguardo limitato dell’uomo si apre alla Verità. San Paolo scrive nelle Lettere: Ora noi traguardiamo in uno specchio,in

enigmi, allora invece faccia a faccia (1Cor., 13,12). La beatitudine consiste

nell’attraversamento di una soglia, l’essere al di là e non al di qua del confine che separa il finito dall’eterno e nel vedere al di là dello specchio. La visione beatifica è quel desiderio che non si consuma perché continua ad essere saziato incessantemente. L’anima corre verso l’abbraccio con Dio, fino a perdersi nel suo volto. La parola “volto” ritorna inaspettatamente nella trama delle Confessioni. Nel Dictionnaire étimologique de la

langue latine di Ernout e Meillet la parola vulnus è definita come visage, en tant qu’interprète des émotions de l’âme. 400 Questa parola, non ha una derivazione univoca. Essa potrebbe infatti essere composta da una radice gvol da cui il gotico vulthus e il tedesco wuldar, termini che hanno entrambi il significato di splendore. Il volto del creatore è infatti splendore, luce immutabile401. “Tu infatti, o Dio nostro, illuminerai le

nostre tenebre: da te vengono le nostre vesti e le nostre tenebre saranno come il meriggio”. (Conf. 13.8.9)402. Tuttavia la parola vultus potrebbe derivare da una radice val da cui volle,

voluptas. Il volto di Dio è infatti il luogo in cui il desiderio dell’uomo trova la sua dimora,

dove l’inquietudine si trasforma in quiete403. La tesi più condivisa, invece, appare quella

che ricondurrebbe il termine “volto” al participio presente del verbo volgere. La visione del volto del Creatore è metafora dell’adesione a Dio, dono e restituzione di ciò che era stato perso. La beatitudine non a caso evoca una dimenticanza. Scrive Sant’Agostino: “Quando la memoria perde qualcosa, come capita quando dimentichiamo e cerchiamo di ricordare, dove andiamo a cercare se non nella memoria?” (Conf. 10.19.28)404. Remo

Bodei, in Ordo amoris, sottolinea che l’amore, come realizzazione del desiderio di eternità, è anche memoria e “costituisce la continua resurrezione nel tempo di quell’eternità già nota e dimenticata, antica e nuova che lavora dentro di noi e che rende il nostro cuore inquieto”405. Interessante è osservare come la grazia da dono dell’amore

divino viene incorporata nei moderni ordinamenti costituzionali e tradotta in provvedimento di clemenza. L’art. 87 comma 11 della Costituzione italiana riconosce al

400 Alfred Ernout, Antoine Meillet, Dictionnaire Etymologique de la langue latine, Paris, Klinksieck, 2002.

401 Ottorino Pianigiani, Dizionario etimologico, Genova, I Dioscuri, 1988.

402 Agostino, Confessioni, cit., p. 519. 403 Ottorino Pianigiani, op. cit. 404 Agostino, op. cit, p. 365. 405 Remo Bodei, op. cit. p. 135.

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Presidente della Repubblica la facoltà di concedere la “grazia e di commutare le pene”. Istituto complesso che rimanda al potere illimitato del monarca, capace di cancellare la pena, come Dio può rimettere i peccati. Il diritto ingloba questo istituto e lo procedimentalizza. L’art. 681c. p. p. è il paradigma di una traduzione. L’istituto della grazia estingue in tutto o in parte la pena principale o la trasforma in un’altra pena. L’antica connotazione della χάρις sembra sbiadita, ma un’antica traccia permane. Una forte capacità di sospendere il preordinato fluire degli eventi, che portano l’uomo alla perdita di sé stesso, trova nel codice del diritto una possibilità di fuoriuscita da una decisione irrevocabile. Possibilità, non esente da rischi, di non ridurre ciò che un individuo è a ciò che il condannato ha commesso un tempo406. Cammino impervio quello del diritto che cerca di differenziarsi dai sistemi al lui esterni, soprattutto considerando la storia della sua origine. Il diritto degli albori partecipava di un’intima connessione con l’universo morale e religioso. Fusione e collisione, compenetrazione e affrancamento caratterizzano la convivenza tra legge positiva e principio morale. Nel Medioevo i confini tra lo ius fori, e lo ius poli sono labili. La Chiesa tendeva a farsi portatrice di entrambi i diritti e lo Stato, d’altra parte, tendeva ad influenzare la sfera penitenziale. Colpa e reato configuravano un peccato e viceversa. Non a caso, Paolo Prodi, in “Una storia della Giustizia”, definisce la relazione tra Stato e Chiesa come un osmosi407. Chiesa e Stato,

come insegna Michel Foucault, concorrono al controllo sulle coscienze al disciplinamento dei comportamenti umani408. La modernità è segnata dal riconoscimento

del reato come la trasgressione di una norma e dalla consapevolezza di una divergenza tra reato e peccato. Tuttavia il diritto moderno è costruito su uno strato sotterraneo, in cui il foro della coscienza e il foro della legge positiva si confondono. La modernità si afferma nella scommessa, mai vinta una volta per tutte che, questi retaggi non riemergano e il diritto possa, differenziandosi, sopravvivere come sistema autonomo. Come sostiene Jhering, da un tempo in cui, senza il sostegno della religione e la sua “consacrazione”, il diritto sarebbe scomparso a causa “degli attacchi dell’arbitrio, del capriccio, della rozzezza”409, si muove ora verso un epoca in cui l’autosufficienza da altri sistemi risulta

vitale. L’autonomia

406 Eligio Resta, Diritto vivente, Roma- Bari, Laterza, 2008, p. 145. 407 Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, il Mulino, p.169.

408 Si faccia particolare riferimento a Michel Foucault., L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971;

Id. Microfisica del potere, Torino, Einaudi. 1977.

409 Rudolf von Jhering, Lo spirito del diritto romano nei diversi gradi del suo sviluppo, traduzione di Luigi Bellavite, Milano, Pirotta, 1855, p. 208.

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del diritto non prescinde però dalla presenza di tracce, riconducibili ad un’altra sfera del sapere. L’opera di Carl Schmitt riproduce la connessione, che rimanda ad un’antica unità tra la dimensione sacra e la dimensione profana. L’umano e il divino non sono oggetto di una sovrapposizione, ma di un continuo procedimento di rinvio. “L’enigma della modernità” attiene proprio al processo ambivalente che vede il diritto spingersi al massimo della laicizzazione e nel contempo far ricorso a categorie che affondano le radici nel campo del mistico. Il diritto moderno, costruito sulla propria auto-fondazione, è carico di segni che rimandano alla storia di una origine, di cui è necessario avere consapevolezza, anche alla luce della comprensione dell’infinito processo di secolarizzazione ancora in atto.

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CAPITOLO V

Nel documento Diritto, decisione, caso (pagine 148-152)