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Il dilemma di Jørgensen

Nel documento Diritto, decisione, caso (pagine 124-128)

CAPITOLO II DECISIONE RAZIONALE

PROCESSO, DECISIONE, LINGUAGGIO

11. Il dilemma di Jørgensen

Si sa la decisione giudiziaria e più in generale la decisione giuridica non implica esclusivamente un giudizio di tipo assiologico sul contenuto, bensì anche un controllo sulla coerenza logica dei passaggi argomentativi. L’osservanza del principio di non - contraddizione ci conduce ancora una volta a riflettere sulla questione dell’estensibilità delle dinamiche proprie della logica aletica alle proposizioni normative. Questo nodo problematico è stato sciolto da Alf Ross nella sua opera: “Direttive e norme”. Lo studioso asserisce che la non apofanticità delle norme non esclude la possibilità di una logica deontica. Per utilizzare le sue parole: “Il fatto che le norme (direttive) siano senza valore

331 Gustavo Zagrebelsky, Principi e voto, Torino, Einaudi, 2005, p. 85. 332 Gustavo Zagrebelsk, Su tre aspetti della ragionevolezza, cit. p. 189.

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di verità non esclude la possibilità di una logica deontica”333. Il punto di partenza del suo

ragionamento è se abbia senso o meno accettare l’esistenza di inferenze deontiche, ossia di quelle inferenze in cui una o più premesse abbiano natura direttiva. Questa questione è chiamata da Ross: dilemma di Jørgensen.

Prima di addentrarci nelle pieghe di tale argomento è bene precisare cosa lo studioso intenda per norma e successivamente per direttiva. La prima può essere definita come la direttiva che in determinate situazioni si trova in rapporto di corrispondenza con certi fatti sociali. La seconda, invece è “l’idea di un’azione considerata come modello di comportamento”334. Da ciò consegue che le regole giuridiche sono direttive impersonali.

Il carattere dell’impersonalità deriva dal fatto che esse non sono indirizzate ad un destinatario determinato, ma ad una generalità di “riceventi”. E ancora: le regole giuridiche possono essere definite “quasi comandi”, in quanto godono dell’autorità di un ordinamento impersonale di norme. Alla luce di quanto detto, oggetto della nostra analisi sono quei particolari enunciati direttivi che, per dirla come Ross, non derivano da una fonte definita, ma sostanzialmente da una fictio e che, nello stesso tempo, si impongono indipendentemente dall’accettazione del destinatario, in quanto incardinati in un ordine

dato ed esistente.

Il dilemma di Jørgensen consiste proprio nella considerazione che, se da un lato, non è correttamente configurabile l’esistenza dell’inferenza deontica, dall’altro appare evidente che tale tipologia di inferenza ha luogo. Il primo argomento è suffragato dalla valutazione che in generale la logica studia la relazione tra i valori di verità di proposizioni formulate in enunciati. Come è noto, inferire logicamente F2 da F1 significa che se F1 è vero, anche

F2 è vero. In termini di imperativo ipotetico se le premesse F1, F2…, Fn, sono vere anche

la conclusione C è vera.

Da ciò deriva che un’inferenza logica poggia su enunciati che hanno valore di verità. Considerato che le direttive non possono essere né vere né false, si dovrebbe dedurre che le relazioni logiche tra direttive non siano concepibili. Resta però il fatto che vi sono dei ragionamenti poggianti sull’inferenza logica, anche se una o più premesse sono direttive. Si pensi al sillogismo giuridico.

È bene a questo punto formulare un esempio, partendo dell’enunciazione dell’art. 575 c.p.:

333 Alf Ross, Direttive e norme, trad.it a cura di Mario Jori, Milano, Edizioni di Comunità, 1978, p. 209. 334 Ivi p. 87.

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“Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno;”

Tizio è stato colto nell’atto di uccidere Caio; Tizio deve essere condannato alla reclusione.

In relazione al nostro interrogativo di partenza: se le relazioni logiche possono essere applicate agli enunciati direttivi, è necessario analizzare, conformemente a quanto fa Ross, la tesi di Ingemar Hedenius. Egli ha sostenuto che la possibilità di relazione logica tra direttive consiste in una palese illusione335. Più specificamente, secondo lo studioso, ad ogni direttiva corrisponde un indicativo corrispondente; quest’ultimo asserisce il fatto che la direttiva esiste in quanto è stata proposta336.

A questo punto riproponiamo l’esempio di Hedenius. Se A avanza la seguente direttiva a B:

1) Porta tutte le scatole alla stazione

è ipotizzabile l’indicativo corrispondente dotato del valore di verità: 2) B ha ricevuto l’ordine di portare tutte le scatole alla stazione Se si aggiunge un’ulteriore premessa:

3) Questo è una delle scatole

Allora le premesse (2) e (3) formano una inferenza indicativa che ha come conclusione: 4) B ha ricevuto l’ordine di portarla alla stazione.

Hedenius sostiene che, tramite questa inferenza indicativa, B vaglia la verità dell’asserzione contenuta nella conclusione.

In definitiva, per lo studioso, le direttive non possiedono valori di verità e quindi non possono costituire una inferenza logica.

Ross si oppone radicalmente alla tesi qui sostenuta. Più in particolare l’inferenza indicativa a cui si è fatto riferimento non è corretta. Essa corrisponde ad un modo velato di formulare l’inferenza deontica in base alla quale la direttiva generale: “Porta tutte le scatole alla stazione” implica che ciascuna scatola deve essere portata alla stazione. Se non si coglie coscientemente l’inferenza deontica per cui la direttiva generale implica quella particolare, cade la connessione logica su cui basare l’inferenza indicativa

335 Ingemar Hedenius, Om rätt och moral, Stockholm, Wahlström & Widstrand, 1963, p. 122.

La tesi di Hedenius è ripresa e approfondita da Manfred Moritz in Der praktische Syllogismus und das

juridische Denken, “Theoria”, 1954, p. 78 ss.

336 A tal proposito Ross definisce un enunciato del discorso indicativo: “una figura linguistica che esprime una proposizione (un indicativo), cioè l’idea di un argomento considerato come reale” cfr. Alf Ross,

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parallela. Del resto, tra la prima direttiva e la seconda non vi è una connessione che dipende esclusivamente dal significato dei termini impiegati nei due enunciati. L’enunciato (2) dichiara un fatto storico, così come l’enunciato (4). Spiega Ross, che l’implicazione del secondo nel primo, se si escludano le inferenze deontiche, non è una questione logica, ma empirica.

Appare manifesto che l’inferenza di Hedenius deriva la sua apparente correttezza da una inferenza deontica implicita secondo la quale le direttive generali implicano quelle singolari. Tra l’altro, considerando gli enunciati come indicativi, non si ha un sillogismo corretto. Una regolare inferenza andrebbe riformulata in questo modo:

2 a) Tutte le scatole hanno la proprietà di dover essere portate alla stazione 3) Questa è una delle scatole

4 a) Questa ha la proprietà di essere portata alla stazione.

In questo modo si arriva a comprendere che l’enunciato (2 a) non è un autentico indicativo, ma piuttosto una “formulazione criptica” della direttiva che impone il “dovere” di portare tutte le scatole alla stazione. Quanto detto vale anche per l’enunciato (4 a)337.

Il tentativo di Ross consiste proprio nel non celare e dunque nel far emergere l’inferenza deontica.

A questo punto se si ammette che le inferenze operanti nel discorso direttivo non possano essere intese come funzioni di verità, è necessario riflettere sulla possibilità di conferire loro una diversa interpretazione. Si sviluppa dunque la necessità di definire i connettivi logici agenti nelle direttive secondo lo spettro di una coppia di valori differente da quella formata da verità/falsità. Una volta che questa coppia di valori venga delineata sarebbe “irragionevole” non definire “logiche” le relazioni operanti tra enunciati direttivi. In questo modo, sostiene Ross: “la logica deontica si troverebbe allo stesso livello del tradizionale calcolo proposizionale - una nuova interpretazione dello stesso sistema formale, con lo stesso status del precedente”338.

337 Alf Ross, Direttive e norme, cit., p. 213.

338 Ivi p. 214: Se si potesse dimostrare che i connettivi funzionanti nel discorso direttivo sono definibili per mezzo di tavole di valori analoghe a quelle che si conoscono nella logica ordinaria, con la sola differenza che i due indefinibili fossero interpretati non come riferentesi a verità o falsità, ma ad un’altra coppia di valori, sarebbe allora irragionevole non considerare logiche le relazioni definite in questo modo”.

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