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Giudicato e forza di legge

Nel documento Diritto, decisione, caso (pagine 75-78)

CAPITOLO II DECISIONE RAZIONALE

PROCESSO, DECISIONE, LINGUAGGIO

2. Giudicato e forza di legge

La disposizione succitata è indubbiamente carica di significato. La sua lettura ci conduce difatti al cuore segreto della decisione giurisdizionale, che è celato e contestualmente svelato dalla costruzione normativa.

È necessario precisare che tale norma non può essere interpretata se non in riferimento all’assunto che la sentenza passata in giudicato ha “forza di legge” tra le parti, i loro eredi e aventi causa.

Tale espressione richiama l’art. 2 delle disposizioni sulla legge in generale, nella parte in cui il legislatore sancisce che gli atti del Governo hanno forza di legge. Se, da punto di vista procedurale, sancire che i decreti legislativi e i decreti legge hanno forza di legge equivale ad assoggettarli ad un determinato regime giuridico; da un punto di vista sostanziale tale locuzione pone in rilievo il carattere costitutivo della legge: la sua forza. Il legame tra diritto e forza ha da sempre attraversato il dibattito filosofico e giuridico. Degna di rilievo, tra le altre, è la riflessione kantiana. Nella Metafisica dei costumi, il filosofo sottolinea che il diritto implica in se stesso a priori, nella struttura analitica del suo concetto “la facoltà di costringere colui che lo pregiudica”. Più precisamente: “quando un certo uso della libertà è esso stesso un ostacolo alla libertà secondo leggi universali (vale a dire è ingiusto), allora la costrizione oppostagli, in quanto impedisce un ostacolo fatto alla libertà, s’accorda con la libertà secondo leggi universali, ossia è giusto: al diritto è quindi immediatamente connessa, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica.” Del resto, come è noto, per Kant il diritto consiste proprio nell’accordo della coazione generale e reciproca con la libertà di ognuno. In questo senso è rilevante sottolineare che il legame tra diritto e forza è duplice: la norma é comando, strutturalmente connesso ad un surplus di coazione, la sanzione. Alla luce di queste considerazioni, asserire che la decisione definitiva è precetto, così come

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evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, conduce allo svelamento del dogma della “forza di legge”.

Invero la decisione definitiva fissa la regola del caso concreto. Del resto è stato rilevato che “il giudicato […] partecipa alla natura dei comandi giuridici e, conseguentemente la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma deve essere assimilata, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche”216.

Come alla legge, la sentenza passata in giudicato è atto linguistico, che attraverso il veicolo dell’enunciazione, vincola e produce cambiamenti.

Interessante è, a questo punto, osservare la decisione giudiziaria attraverso lo spettro delle grandi categorie concettuali elaborate dalla filosofia del linguaggio. Attraverso tale angolo visuale la decisione passata in giudicato può essere considerata un enunciato

performativo. Come è noto, è John Langshaw Austin a spiegarci cosa debba intendersi

per performativo. Questa parola deriva dal verbo to perform (e ovviamente da per- formare) che ha il significato di eseguire. Stabilire che un enunciato è performativo corrisponde ad affermare che la pronuncia dell’enunciato costituisce l’esecuzione di un’azione. In questo senso la decisione giudiziaria, come del resto la norma, non corrisponde esclusivamente ad un dire qualcosa, ma più propriamente ad un fare qualcosa. Invero la decisione giudiziaria nel momento in cui regola una situazione di fatto la costituisce Tuttavia, affinché il performativo operi correttamente, è necessaria la presupposizione di alcune condizioni. Innanzitutto “deve esistere una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto convenzionale, procedura che deve includere l’atto di pronunciare certe parole da certe persone in certe circostanze”217. In

secondo luogo la procedura deve essere eseguita correttamente e completamente.

Queste condizioni rimandano inevitabilmente alla questione della legittimità e dunque dell’autorità.

A tal proposito significativa è l’osservazione di Émile Benveniste, che nell’analizzare la derivazione di auctor, afferma: “Ogni parola pronunciata con un’autorità determina un cambiamento del mondo, crea qualche cosa; questa qualità misteriosa è quello che augeo

216 Così: Cass., sez. I, 24 maggio 2007, n. 12157; conforme: Cass., sez. III, 16 maggio 2006, n. 11356.

217 John L. Austin, Come fare cose con parole, a cura di Carli Penco e Marina Sbisà, Genova, Marietti,

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esprime […]218. Tuttavia il mistero che avvolge l’autorità è, in larga parte, quello relativo

al suo fondamento.

Non a caso Montaigne parla di “fondamento mistico” dell’autorità. Più precisamente il filosofo afferma: “Ora, le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il fondamento mistico dell’autorità; non ne hanno altri […]. Chiunque obbedisca loro perché sono giuste, non obbedisce loro giustamente come deve.”219 Il discorso sulla giustizia è riletto da Pascal, che ne mette in luce il legame imprescindibile con la forza. Spiega il filosofo: “E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”. Del resto “la giustizia senza forza è contraddetta” così come “la forza senza giustizia viene riprovata”.220

Rimodulando in chiave di decisione tale riflessione si potrebbe affermare che le decisioni giurisdizionali definitive hanno credito non perché sono giuste, ma perché sono forti. Tale forza deriva dalla cogenza propria dell’autorità di giudicato. Per utilizzare le parole di Montaigne siamo di fronte ad una delle finzioni legittime sulle quali il diritto fonda “la verità della sua giustizia”.221 Invero l’autorità delle decisioni si fonda proprio sul credito

che si accorda loro. Tale investimento è un vero e proprio atto di fede.

Può anche opportunamente essere affermato che un’altra particolare finzione legittima è la “finzione di verità”. Di tale concetto troviamo una manifesta traccia in un frammento del Digesto. Invero Ulpiano scrive: che colui che è dichiarato ingenuo per sentenza, va trattato come ingenuo, se pur fosse libertino: “quia res iudicata pro veritate accipitur”222

La cosa giudicata, dunque, sancisce una verità formale. Utilizzando le parole di Giuseppe Chiovenda “i fatti non veri possono essere veri agli effetti giuridici”: questa è la “irrealtà” con cui la teoria della cosa giudicata si misura costantemente223.

Il giurista, nei Nuovi Saggi di Diritto civile, narra di un fraintendimento della preclusione di impugnativa della nullità e della sua attrazione nel principio della cosa giudicata. L’influenza del diritto germanico, portò all’introduzione a Roma di una distinzione tra nullità sanabili e insanabili, che ab initio sopravvivevano entrambe al giudicato. Le prime

218 Lo studioso sottolinea come anticamente il verbo augeo designasse l’atto di produrre non riconducibile

all’uomo quanto piuttosto agli dei e alle forze naturali: Émile Benveniste, Il dizionario delle istituzioni

indoeuropee, Torino, Einaudi, 1976, vol. II, p. 398.

219 Montaigne, Saggi, Milano, Adelphi, 1966, pp. 1433 e sg.

220 Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi, 1962, p. 145. 221 Montaigne, Saggi, cit., p. 809.

222 Fr. 25 Dig. De statu hom. 1, 5.

223Giuseppe Chiovenda, Nuovi saggi di diritto processuale civile, Napoli, Jovene Casa editrice, 1912, p. 85.

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potevano essere fatte valere entro un termine, decorso il quale venivano sanate. Tuttavia questa preclusione dell’impugnativa di nullità, fu travolta dal potere trasfigurante della cosa giudicata. Così, se il giudice incompetente si dichiara competente pronuncia nel merito, e la sentenza non è impugnata, la nullità è sanata. Dunque col passaggio in giudicato della sentenza si afferma la verità del diritto che il giudice fosse competente. Nota ancora il giurista “quando si parla di verità formale, di finzione e di presunzione di verità, si pensa ad un confronto tra ciò che la sentenza è e ciò che potrebbe o dovrebbe essere. Ma questo confronto lo facciamo noi accademicamente discorrendo, non il diritto”.224

Tuttavia deve essere sottolineato che questa presunzione di verità ha essenzialmente una giustificazione sociale: senza di essa l’ordinamento giuridico non potrebbe esistere.

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