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Una teoria dell’argomentazione giuridica

Nel documento Diritto, decisione, caso (pagine 110-118)

CAPITOLO II DECISIONE RAZIONALE

PROCESSO, DECISIONE, LINGUAGGIO

8. Sull’argomentazione

8.1 Una teoria dell’argomentazione giuridica

Appare evidente che la teoria dell’argomentazione giuridica corrisponde ad una particolare teoria del discorso.

294 A proposito di incompatibilità è necessario porre una precisazione, Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-

Tyteca, cit, p. 217: “Le incompatibilità differiscono dalle contraddizioni perché esistono solo in funzione delle circostanze: bisogna che due regole, per entrare in un conflitto che impone una scelta siano applicate simultaneamente a una stessa realtà”

295 Ivi p. 499. 296 Ivi p. 214.

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A tal proposito non si può non fare riferimento all’ampio studio che Robert Alexy ha dedicato alla teoria normativa del discorso. Il punto di partenza del ragionamento dello studioso è che “la teoria del discorso razionale è una teoria normativa del discorso”297. Invero si può definire “normativa” la teoria che ha ad oggetto la formulazione e la giustificazione dei criteri per la razionalità dei discorsi298.

Da ciò segue che le regole del discorso pratico razionale corrispondono a norme preposte alla giustificazione di norme. A questo punto si può procedere con l’enucleazione di quelle che Alexy definisce le quattro “possibilità di pervenire alle regole del discorso” 299.

La prima verte sulla considerazione delle regole del discorso come regole tecniche. Il discorso dunque sarebbe retto da regole che prescrivono i mezzi per il raggiungimento di determinati scopi. Questa modalità di giustificazione incorre però secondo lo studioso in due ordini di critiche. In primo luogo, posto che è lo scopo che deve giustificare le regole, si pone il problema della sua giustificazione. In altri termini non è possibile presupporre scopi giustificati.

La seconda critica invece investe lo scopo capace di giustificare tutte le regole del discorso, proprio in quanto esso, per la sua estrema generalità, potrebbe essere sorretto da mezzi posti da norme incompatibili tra loro, oppure potrebbe essere già delineato dall’osservanza di queste stesse norme. Si pensi ad esempio alla giustizia o alla verità come lo scopo ultimo che dovrebbe essere raggiunto dall’applicazione di certe regole. Questa modalità di formulazione delle regole del discorso è per Alexy insoddisfacente dal momento che non riesce a giustificare tutte le regole.

Invero è opportuno precisare che non sempre nell’universo normativo le norme poggiano sulla costitutività del rapporto mezzo/fine. Questo nesso è reso evidente dalla struttura delle norme tecniche, le quali assumono la forma propria dell’imperativo ipotetico: “se vuoi B, devi fare A”. Tuttavia vi sono norme che non sono costruite in tal modo. Si prenda a titolo esemplificativo l’art. 1 comma 1 della Costituzione italiana, nella parte in cui sancisce che: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. In questa norma non è ricavabile il nesso costitutivo mezzo/fine. Invero se “il lavoro” può essere

297 Robert Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, a cura di Massimo La Torre, Milano, Giuffrè, 1998, p.143.

298Ivi p. 142: “Una teoria del discorso può essere empirica, analitica e/o normativa. È empirica, se descrive e chiarisce, per fare solo alcuni esempi, la correlazione che esiste tra determinati gruppi di parlanti e l’uso di determinati argomenti, l’efficacia degli argomenti, oppure le concezioni che predominano in determinati gruppi in relazione alla validità degli argomenti. La teoria del discorso è analitica, se tratta la struttura logica degli argomenti effettivamente utilizzati e di quelli semplicemente possibili, Infine è normativa, se enuncia e giustifica i criteri per la razionalità dei discorsi”.

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considerato un fine costituzionalmente protetto dall’ordinamento, non è deducibile dalla disposizione il mezzo che ne condiziona la realizzazione. Tuttavia è necessario riflettere sull’equiparabilità dei termini “fine” e “fondamento”. Considerare il lavoro come fondamento della Repubblica democratica italiana corrisponde ad ergerlo a suo presupposto. In questo caso è forte la dimensione epistemologica. Al contrario porre “il lavoro” come fine della costituzione democratica, lascia prevalere una prospettiva teleologica. Mentre il fondamento affonda le radici in una sfera precategoriale, il fine è oggetto di una decisione statuita ex post. Ogni principio fondamentale oscilla invero da una dimensione teologica ad una teleologica. Esempi simili a quello attinto dall’art. 1 della Costituzione sono numerosi. Essi dimostrano che il rapporto mezzo/fine non corrisponde ad un valido criterio giustificativo delle regole del discorso. Del resto è il contesto che di volta in volta individuerà se il predicato normativo è il mezzo più appropriato per il raggiungimento di un fine, a sua volta tracciato dal caso concreto. La critica che Alexy fa a questo modello, rivela senz’altro la problematicità della giustificazione dello scopo delle norme. D’altronde il tentativo di individuare in scopi generalissimi la legittimazione di tutte le norme deve fare i conti con l’impossibilità di definirli una volta per tutte. Considerando la verità e la giustizia come alcuni di questi scopi generalissimi, è necessario affermare che esse non possono essere definite dall’osservatore esterno al sistema, ma sarà il sistema a decidere la verità e la giustizia del caso concreto.

La seconda possibilità di approdare alle regole del discorso consiste, secondo lo studioso, nell’individuare le regole che vengono effettivamente osservate, oppure nel dimostrare che il risultato dell’applicazione delle regole corrisponde a “nostre convinzioni normative effettive”300. Questo tipo di giustificazione può essere denominato “empirico”. Il rilievo

problematico di questa impostazione risiede proprio nel passaggio dalla constatazione dell’effettività della norma al suo carattere razionale. Questa derivazione sarebbe ammissibile solo se si considerasse l’intero meccanismo della prassi come razionale; si verrebbe in questo modo a configurare una “razionalità implicita”, presupposta senza poter essere dimostrata. Inoltre tale ricostruzione sembra fondarsi sulla deducibilità di un dover essere dall’essere, passaggio logico, che come la legge di David Hume ci ricorda, non è percorribile.

300 Ivi p. 144.

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Del resto ricavare la norma dalla realtà conduce alla fallacia naturalistica, l’errore nel ragionamento per il quale si crede che la norma si conformi alla realtà301. Da quanto sostenuto, è necessario affermare che la giustificazione empirica deve essere aggiustata alla luce di altri tipi di giustificazioni.

Una di queste può essere rintracciata nel modello per il quale la mera presentazione di un sistema di regole costituisce la ragione fondamentale per la sua accettazione. Più specificatamente questo tipo di giustificazione, chiamata “definitoria”, prende in esame le regole che compongono un gioco linguistico. Più specificamente le regole del discorso per il fatto di essere esplicitate sono anche automaticamente accettate dunque in maniera intrinseca giustificate.

L’ultimo modello di giustificazione del discorso, spiega Alexy, verte sul rilievo che la validità di determinate regole “è condizione di possibilità della comunicazione linguistica”302. Questo tipo di giustificazione ha ad oggetto l’analisi dei presupposti

generali e necessari della comunicazione303. Conformemente all’insegnamento di

Habermas, un modello così orientato può essere chiamato: “pragmatico-universale”. Esso implica, tra l’altro, che le regole presupposte necessariamente come base della comunicazione linguistica siano costitutive e che senza di esse non sarebbero configurabili forme di comportamento umano. Da quanto detto il problema che si pone non consiste tanto nell’individuazione delle regole costitutive degli atti linguistici, ma piuttosto nella “possibilità epistemologica” di tale procedimento di giustificazione. In definitiva le quattro modalità di giustificazione delle regole del discorso sin qui elaborate aprono un varco verso la questione dell’infondatezza circa la grande costruzione del linguaggio. Più precisamente la catena di giustificazioni circa le giustificazioni è destinata prima o poi ad essere interrotta. Tuttavia da questo procedimento si giunge ad enucleare un insieme di regole che sta alla base non solo dell’agire, ma anche del pensare umano. Invero, come Ludwig Wittgenstein, ha chiaramente precisato, da alcune proposizioni dipende tutto il nostro sistema di giudizio. Dunque è possibile asserire che ogni sistema di credenze poggia su un dato per scontato e immutabile, che ne costituisce

301 Sul punto si rinvia a David Hume, Trattato sulla natura umana, Vol. I, Roma- Bari, Laterza, nonché a

Eligio Resta, Le regole della fiducia, Roma – Bari, Laterza, 2009, p.93; Luigi Ferrajoli, Principia iuris.

Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Laterza, Roma- Bari, 2007.

302 Robert Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., p.146

303 Sul punto si veda di Jürgen Habermas, Etica del discorso, a cura di Emilio Agazzi, Roma-Bari, Laterza,

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il “telos riproduttivo”304. Questa impalcatura è capace di rivelare la base pratica-

esistenziale della conoscenza. In particolare il discorso giuridico è un gioco linguistico strettamente connesso alla prassi di vita comune rappresentata da una determinata forma di vita, imperniata su regole e convinzioni. Queste ultime nel delineare la forma di vita, formano “il substrato” del nostro cercare e asserire. Tale substrato può essere definito “l’immagine del mondo”: ciò che “giace al di là del giustificato o dell’ingiustificato”305.

Tuttavia è necessario rilevare che ogni forma di vita si basa su un sistema di giudizi, che a sua volta poggia sul riconoscimento di certe autorità.

Ogni regola del discorso giuridico rimanda costantemente ad un’autorità che la pone legittimandola. Tale meccanismo, come è noto, costituisce la chiave di volta del sistema kelseniano; invero l’intero ordinamento giuridico trova la sua legittimità in una norma generalissima, che non può essere posta, ma esclusivamente presupposta: la Grundnorm. La concatenazione strutturale di norme, che costituisce l’ordinamento, rimanda quindi a questo concetto imprescindibile che fonda senza poter essere fondato.

Affrontata la questione circa la giustificazione delle regole del discorso, si può ora far riferimento ad un insieme di regole fondamentali che costituiscono il presupposto della possibilità della comunicazione linguistica. È ancora Robert Alexy ad esporre criticamente l’elenco di queste regole.

Dal canto suo Habermas precisa che le regole del discorso enunciate da Alexy non sono costitutive per i discorsi in senso stretto, ossia come le regole degli scacchi lo sono per le partire giocate. Invero, mentre le regole degli scacchi costruiscono effettivamente una prassi di gioco, “le regole del discorso sono solamente una forma dell’esposizione di presupposti pragmatici tacitamente accettati e intuitivamente noti di una distinta prassi del discorso”306.

Esse sono così enucleate:

 nessun parlante può incorrere in una contraddizione;  ogni parlante può affermare solo ciò in cui crede;

 ogni parlante che applica un predicato X ad un oggetto Y deve essere incline ad applicare X ad ogni altro oggetto che sia simile ad Y in un aspetto rilevante;

304 Franco Cassano, La certezza infondata, Bari, Edizioni Dedalo, 1983, p. 43; nonché di Ludwig Wittgenstein, Della certezza, trad. it. di Mario Trinchero,Torino, Einaudi, 1978, pp. 64-65.

305 Ludwig Wittgenstein, Della certezza, op. cit., p. 57; sul concetto di “forma di vita” si faccia riferimento altresì a Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 2009. 306 Jürgen Habermas, Etica del discorso, cit., p. 101.

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 parlanti diversi non possono usare la stessa espressione conferendogli significati diversi.

Certamente non si deve cadere nell’equivoco secondo il quale tutti i discorsi che si svolgono realmente debbano soddisfare le suddette regole, poiché, come sottolinea ancora una volta Habermas, in molti casi ciò non avviene e negli altri ci troviamo di fronte ad approssimazioni307.

Possiamo comunque procedere all’analisi delle succitate regole.

La prima richiama indubbiamente una regola logica. Ciò presuppone che alle proposizioni normative, a cui come anticipato, non si confà il carattere dell’apofanticità, si possano applicare le regole di logica. Come è noto, tale rilievo, non privo di criticità, è stato discusso col nome di “dilemma di Jørgensen”. Tale questione, che sarà affrontata nel corso della trattazione, conduce alla possibilità di accostare il principio di non contraddizione alle incompatibilità di tipo deontico.

La seconda regola invece si riferisce alla condizione di sincerità, come imprescindibile presupposto di ogni comunicazione linguistica308.

La terza regola prescrive al parlante un obbligo di coerenza, per cui in situazioni simili per un aspetto rilevante, egli deve affermare gli stessi giudizi di valore.

L’ultima regola può essere considerata come un’ulteriore variante del principio di non contraddizione, in quanto statuisce che una stessa espressione non può essere usata dai parlanti con un significato diverso. Tuttavia è necessario precisare che sussiste altresì un accordo sulla variazione del significato delle locuzioni linguistiche.

Si fa dunque riferimento al carattere comunitario e allo stesso tempo comunicativo dell’uso del linguaggio. Il percorso che conduce a questa sorta di accordo sul significato e sulla variazione di significato delle parole è oggetto di numerosi dibattiti e di una mai celata curiosità scientifica. Del resto come ci ricorda Habermas, il linguaggio vive proprio dell’intesa comunicativa tra i parlanti, i quali si comprendono reciprocamente.

L’impiego comunicativo di espressioni linguistiche rimanda ad una particolare forma di razionalità, chiamata comunicativa, che é imperniata sul carattere unificante del discorso orientato all’intesa. Più specificamente nell’uso comunicativo del linguaggio il parlante accorda se stesso circa qualcosa con qualcuno. E per giunta ciò che il parlante intende dire è connesso sia ad un dato letterale, sia “all’azione” nel senso della quale ciò che è

307 Ibidem.

308 Sulla condizione di sincerità si veda: John Langshaw Austin, Come fare cose con parole, Genova, Marietti, 1987; John Searle, Atti linguistici, Torino, Boringhieri, 1976.

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detto deve essere inteso309. Per utilizzare le parole di Habermas: “la razionalità

comunicativa si incarna in un processo di intesa che si svolge intorno a pretese di validità soltanto quando parlanti e ascoltatori, in atteggiamento performativo-indirizzato a seconde persone - si intendono (o vogliono intendersi) circa qualcosa nel mondo”310. È opportuno altresì precisare che l’agire comunicativo è connotato da una diversa gradazione dell’accordo, a seconda che esso concerna un’intesa circa un fatto o un’intesa circa l’intenzione del parlante. Più precisamente siamo di fronte ad un accordo quando gli interlocutori condividono una pretesa di validità in base alle stesse ragioni, mentre si parla di intesa quando l’uno comprende che l’altro ha buone ragioni per l’intenzione dichiarata, senza perciò condividerle.

Connessa a questa distinzione Habermas ne effettua un’altra: quella relativa all’agire comunicativo in senso debole e quella relativa all’agire comunicativo in senso forte. Il primo tipo di intesa verte sulla volontà unilaterale dell’attore e implica pretese di “verità” e veridicità; invece il secondo tipo di intesa, che implica la sussistenza di valori intersoggettivamente condivisi, vincola la volontà dei partecipanti al di là delle loro preferenze ed è imperniata su pretese di giustezza. Tale tipologia di accordo ha la caratteristica di individuare e di fissare le modalità di perseguimento dei fini d’azione311.

A questo punto è rilevante ribadire che ogni discorso pratico è orientato alla giustificazione delle proposizioni normative. In altre parole può affermarsi la regola generale per la quale ogni parlante deve giustificare ciò che afferma su richiesta, a meno che possa motivare il suo rifiuto di offrire una giustificazione312.

Del resto ogni formulazione di un giudizio di valore o di obbligo è accompagnato da una pretesa di correttezza, ossia mira ad una giustificazione di tipo razionale.

Le regole sopra esposte, sulle quali poggia il discorso pratico generale possono essere trasposte con alcune variazioni nel discorso giuridico.

Diversificati sono i discorsi giuridici: si pensi ad alcuni procedimenti istituzionalizzati come la deliberazione giudiziale, il processo, la deliberazione legislativa; o ad alcune pratiche non ritualizzate come le discussioni della dottrina o tra avvocati. In tutte queste modalità discorsive si argomenta giuridicamente. Questo tipo di argomentazione è soggetta ai limiti che il diritto vigente impone.

309 Cfr. Jürgen Habermas, Verità e giustificazione, traduzione di Mario Carpitella, Roma-Bari, Laterza,

2001, p.105. 310 Ivi p. 110. 311 Ivi pp. 111-118.

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Per giunta può essere colta un’ulteriore differenziazione tra il discorso pratico generale e il discorso giuridico: gli enunciati normativi formulati come giudizi, non si fondano tanto sulla pretesa della loro razionalità, ma più che altro sul “dovere” giuridico di essere razionalmente giustificati in conformità all’ordinamento normativo vigente. Invero l’analisi della decisione giuridica presuppone lo smantellamento del classico concetto di razionalità, come l’adeguamento delle nozioni di correttezza e verità e giustizia.

In definitiva, l’argomentazione giuridica è innanzitutto un’attività linguistica, che ha ad oggetto la correttezza delle proposizioni normative, nonché la verifica della coerenza delle singole proposizioni con l’intero impianto motivazionale della sentenza. Come emerge chiaramente dall’analisi di Robert Alexy, il discorso giuridico costituisce un caso particolare del discorso pratico generale, proprio perché l’argomentazione giuridica si dispiega all’interno di una serie di condizioni limitative. Considerati come punti di partenza del discorso le convinzioni normative, i desideri, le interpretazioni dei bisogni e le informazioni empiriche dei parlanti, le regole del discorso costituiscono le linee direttrici per mezzo delle quali giungere alla pronuncia di enunciati normativi fondati. Tuttavia il percorso che, dai succitati punti di partenza conduce alla conclusione del discorso, non è preventivamente tracciato. Invero innumerevoli possono essere le interpretazioni dei bisogni o i desideri da cui le proposizioni normative prendono le mosse313. Così per dirla come Alexy “si potrebbe dire che le regole del discorso

definiscano un procedimento decisionale in cui non è stabilito cosa si debba ipotizzare come base decisionale ed in cui non tutte le mosse sono prescritte. Questo da una parte è un difetto, dall’altra un vantaggio. Il difetto è evidente. Il vantaggio consiste nel fatto che la base da cui prendere la decisione ed una serie di singole mosse decisionali sono rimesse agli interessati, non essendo già stabilite da un qualsiasi teorico della decisione, il quale – a sua volta – dovrebbe partire dalle proprie rappresentazioni”314. Più in generale “rules

do not rule their application”315.

313 Ivi p. 18.

314 Ivi p. 19.

315 Questo rilievo che ha chiara matrice wittgensteiniana è stato poi ripreso da Herbert L. A. Hart, Il concetto

di diritto, a cura di Mario A. Cattaneo, Torino, Einaudi, 1965; cfr. Massimo La Torre, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, Napoli, Editoriale scientifica, 2012, p. 76.

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