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Tra adesione e rifiuto: i primi racconti e le raccolte etnografiche

Grazia Deledda si dedica giovanissima alla scrittura, provandosi in brevi racconti e novelle che comincia a pubblicare su testate sarde e continentali. Scrive in italiano, nonostante la sua lingua madre sia il sardo, ed è quindi costretta ad autotradursi con l’aiuto del vocabolario. I suoi primi contatti col continente sono con i direttori delle riviste. Nel 1888 invia a Roma alcuni racconti, Sangue sardo e Remigia Helder, che vengono pubblicati su «L’ultima moda», diretta da Epaminonda Provaglio, col quale l’autrice avvia una fitta corrispondenza. Altro editore con cui scambia diverse lettere è Treves, al quale scrive: «Sono una fanciulla, posso anche dire un’artista sarda, piena di molta buona volontà, di molta fede e coraggio. Sono anche assai giovane e forse perciò ho grandi sogni: ho anzi un sogno solo, grande, ed è di illustrare un paese sconosciuto che amo molto intensamente, la Sardegna».21 L’autrice si proietta completamente in quella che è la sua vocazione e lo fa scegliendo quale soggetto privilegiato della sua inventiva proprio la sua isola. Ancor più significative appaiono, in questo senso, le parole della scrittrice se richiamiamo alla mente quanto si è detto nei primi capitoli sul programma perseguito da Treves e più in generale dall’editoria milanese. Obiettivo dichiarato delle scelte editoriali di Treves è l’esplorazione dell’Italia e in

18 G. C. Spivak, A Critique of Postcolonial Reason, London, Harvard University Press, 1999, p. 4. 19 K. Crenshaw, Mapping the Margins, cit.

20 S. Camilotti, T. Crivelli, Che razza di letteratura è?, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2017.

21 G. Deledda, Versi e prose giovanili, Milano, Virgilio, 1972, citata in G. Cerina, La Sardegna “a modo suo”, in G. Olla (a cura di), Scenari sardi. Grazia Deledda tra cinema e televisione, Cagliari, Aipsa Edizioni, 2000, p. 14.

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particolare dell’Italia meridionale nei suoi aspetti naturalistici e pittoreschi, con funzione di appagamento estetico, riconferma identitaria e compensazione dell’appiattimento culturale portato dall’Unità. Le affermazioni della nostra, dunque, indicando l’illustrazione degli usi e dei costumi dell’isola come principale obiettivo da perseguire, sembrano andare proprio in questa direzione. In una lettera di qualche anno più tardi indirizzata a Maggiorino Ferraris, direttore della «Nuova Antologia», Deledda scrive: «Ho bisogno di una guida, ma solo per qualche anno ancora […] avrò fra poco vent’anni, a trenta voglio aver raggiunto il mio scopo radioso qual è quello di creare da me sola una letteratura completamente sarda».22 Una pretesa forse eccessiva, che nei fatti non sarebbe stata disattesa, ma che, inserita nel contesto che abbiamo delineato, sembrerebbe calare una cortina d’ombra sulla fiorente tradizione letteraria barbaricina, alla quale l’autrice stessa si chiamerà invece debitrice. Si deve pertanto ipotizzare che la fondazione cui Grazia Deledda dichiara di volersi votare è piuttosto quella di una letteratura sarda in lingua italiana, una letteratura cioè di argomento sardo ma rivolta primariamente al continente.

Le sue prime novelle intessono trame da feuilleton in un’ambientazione sarda, con il preciso intento di illustrare la realtà culturale autoctona ad un pubblico che non ne ha conoscenza. A questa esperienza se ne lega un’altra egualmente significativa: la ricerca documentaria delle tradizioni nuoresi nell’ambito del progetto demologico lanciato da Angelo De Gubernatis per la rivista delle «Tradizioni popolari italiane». Tra il 1893 e il 1895 l’autrice pubblica undici articoli, più tardi riuniti in volume col titolo Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, che registrano gli usi e i costumi dei sardi della zona montana del Nuorese nei luoghi e nei modi del vivere in casa e nei campi. Deledda illustra inoltre, con dovizia di particolari, le pratiche religiose e superstiziose, riporta i modi di dire e i proverbi, le imprecazioni e le implorazioni, i canti sacri e profani. Come si può ben comprendere, da tale catalogazione – sulla quale torneremo in seguito – deriva anche la precisione etnografica che caratterizza i racconti deleddiani, che in questi anni, assumono le sembianze di pretesti documentari o piccole enciclopedie di un mondo esotico e remoto. Al fine di illustrare quanto detto, possiamo leggere alcune novelle tratte dalla raccolta Racconti sardi, del 1894, non prima, tuttavia, di aver analizzato Vita silvana, racconto d’apertura della prima raccolta novellistica di Deledda, intitolata Nell’azzurro, che sembra offrirci le coordinate poetiche entro le quali poter inquadrare poi l’interpretazione degli altri racconti. La novella si apre

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con un appello alla lettrice: «Vi parrà un romanzo, o mia bionda e piccola lettrice, ma è una storia vera: tanto vera che io, per narrarvela, cambio i nomi delle persone e dei luoghi alle quali e nei quali accadde. Figuriamoci in Sardegna, nella mia verde e sconosciuta Sardegna, e cominciamo».23 Il racconto è esplicitamente rivolto al lettore (o meglio alla lettrice) continentale dalla voce fedele di una testimone dei fatti, nonché da un’abitante di quei luoghi sconosciuti che subito identifica come propri. La storia narrata è quella di Cicytella, «nome che nei nostri dialetti sardi significa Franceschina»,24 una trovatella di ignote origini, allevata da un vecchio pastore, descritto in maniera “favolosa”: «quel vecchio pastore, che si chiamava zio Bastiano […] aveva molto sofferto per causa degli uomini: la sua vita di sventure era stata un vero romanzo, uno di quei romanzi sardi tutti pieni di odio e d’amore, d’inimicizie e di sangue, un romanzo che qui tornerebbe inutile e troppo lungo il raccontare».25 La sua vita rispecchia tutti gli stereotipi presenti nei romanzi esotici sull’isola,

che sembrano quindi essere accolti come veritieri dall’autrice. Quest’ultima, tuttavia, li smentisce poco oltre, per voce di un pittore continentale giunto in Sardegna per dipingerne i paesaggi, gli abitanti, le tradizioni: «Hai visto quanto assurda è la triste fama che godono i Sardi, come uomini dal sangue ardente, dalle passioni feroci, propensi all’odio ed al delitto?... - Ho veduto che qui quasi quasi non vi sono abitanti, e che i pochi che vi sono sono gente buona, forse troppo ignorante, ma ospitale ed inoffensiva».26 Da questo momento in avanti, la novella, in effetti, si presenta come un tentativo di decodificazione del processo immaginativo attivato nell’incontro con l’altro, sia esso sardo o continentale. Tale processo è inoltre associato all’arte, quella del dipingere in particolare, e ad un diaframma ottico che filtra la visione e che ricorda da vicino il cannocchiale verghiano.L’artista di nome Giacomo Viola porta infatti con sé un binocolo di cui si serve per cercare figure umane nello sterminato paesaggio isolano e attraverso il quale vede e riconosce Cycitella come la figlia che gli è stata rapita molti anni prima. Se il padre ha bisogno di una lente, «l’aveva veduta bene se non col binoccolo: essa l’aveva visto con i suoi grandi occhi, senza aiuto, e lo riconosceva».27 La ragazza, evidente alter-ego dell’autrice, viene infatti presentata come una giovane fuori dal comune, con un animo artistico e letterario superiore. Quando le viene raccontato della città di Roma come di una città paradisiaca, afferma infatti di conoscerla già, come ne serbasse una vaga memoria dai primi mesi infantili. La novella si conclude

23 G. Deledda, Novelle, Vol. I, Nuoro, Ilisso, ebook, 2012, p. 26. 24 Ibidem.

25 Ibidem. 26 Ivi, p. 40. 27 Ivi, p. 42.

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quindi con la partenza di Cycitella per la Capitale, al seguito del ritrovato padre. Per via della sua posizione incipitaria – prima novella della prima raccolta deleddiana –, della denuncia della presenza di un filtro che media le rappresentazioni artistiche e documentarie dell’isola e infine per il racconto del viaggio in mare verso il continente che giustifica ulteriormente la distanza del punto di vista dall’oggetto osservato, la novella sembra in tutto e per tutto una ripresa delle cornici verghiane e della loro funzione demistificante e programmatica rispetto ai racconti che introduce.

Veniamo ora a leggere una delle novelle contenute nella seconda raccolta della scrittrice, intitolata Di notte. L’incipit presenta il personaggio della piccola Gabina, svegliata nel cuore della notte da alcuni strani rumori. La bimba prova a entrare nella cucina, ma non riuscendoci, intravede cosa accade al suo interno attraverso le fessure del legno. Il lettore è così introdotto alla scena tramite lo sguardo della piccola, filtrato dal confine fisico della porta: uno sguardo altro, che consente una visione distaccata, una prospettiva distanziata, anche in questo caso, come in Vita silvana, tesa a giustificare il tenore documentario ed esotizzante delle descrizioni che seguono:

Il nonno e gli zii - tre uomini alti, robusti, bruni, il cui costume consunto e sporco rivelava una misera esistenza di lavoro continuo e faticoso, i cui occhi cupi e profondi narravano la triste storia di anime ignoranti non avvilite dalla povertà, ma turbinate da passioni tetre, ardenti e dolorose - erano tornati e stavano seduti intorno al focolare. La mamma di Gabina, Simona, giovane, bella, di quella strana bellezza araba che si incontra in molte donne sarde, e che ricorda i saraceni dominatori e devastatori dell’isola nel IX e X secolo, rimaneva un po’ nell’ombra, seduta per terra, le mani incrociate sulle ginocchia, scalza e in maniche di camicia, larghe maniche all'orientale, strette sui polsi e increspate negli omeri eleganti.28

La scena che viene presentata è evidentemente frutto dell’introiezione da parte dell’autrice sarda di uno sguardo esterno sull’isola: i personaggi, immediatamente connotati come originari della Sardegna, vengono dipinti nella loro diversità. La madre di Gabina conserva nella fisionomia e nel vestiario le tracce dell’invasione saracena dell’isola e viene descritta appunto come «orientale». I fratelli e il padre della donna sono presentati invece come uomini massicci, scuri, sporchi, ignoranti, violenti e cupi, non per via della loro povertà ma della loro bestialità, mossi da componenti irrazionali, attraversati da passioni travolgenti: «Ci aggiusteremo noi con la nostra coscienza e con Dio! – esclamò Tanu, uno dei fratelli, con un sorriso crudele e feroce che lasciò vedere due fila di denti bianchissimi, forti, da belva, scintillanti al riflesso del fuoco. – La coscienza e Dio!... – saltò su Simona come una

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vipera».29 L’azione cui Gabina assiste è la tortura, da parte dei suoi parenti, di un uomo che di lì a poco scopre essere suo padre, Elias. Tale violenza è volta a vendicare il disonore arrecato alla madre e a tutta la famiglia dopo l’abbandono da parte di Elias del tetto coniugale: «La nostra famiglia ha vendicato sempre le offese ricevute, e noi, stanotte […] laveremo col tuo sangue la macchia impressa al nostro nome».30 Gli stereotipi meridionali – l’orgoglio, la gelosia, la violenza, la vendetta – si concentrano in questa che pare essere a tutti gli effetti una narrazione di stampo orientalistico. L’autrice sembra dichiararlo apertamente infrangendo l’illusione dell’immedesimazione e presentando i personaggi di questa storia appunto per quello che sono, personaggi: «i cinque personaggi di questa tetra tragedia rusticana tacquero un momento. Una calma terribile segnava nei loro volti e il fuoco continuava a illuminare la scena con tinte sanguigne, e funebri chiaroscuri; una scena degna del fosco Caravaggio».31 Interessante è anche l’accostamento della scena con il dipinto di

Caravaggio: studi approfonditi sono stati dedicati alla matrice pittorica di tante descrizioni deleddiane.32 Come è stato notato, infatti, le sue novelle e i suoi romanzi, usciti a puntate

sulle riviste illustrate, hanno la capacità di facilitare e quasi di guidare il compito dell’illustratore, che spesso è la stessa Deledda a scegliere tra i pittori di sua fiducia.33 Come

si è detto nei precedenti capitoli, la rappresentazione figurativa gioca un ruolo primario nella formulazione di una “poetica documentaria”, come possiamo definire quella orientalista italiana, alla quale Deledda, con le sue prime novelle, sembra aderire. Ciò risulta particolarmente evidente nel passaggio che segue, in cui il padre di Gabina confessa la sua avventura con una popolana di Fonni, Cosema.

Aveva una gonna sola, stretta, che le disegnava le anche ben fatte, e lasciava vedere i piccoli piedi calzati da scarpette piene di fiocchi, un corsetto nero di albagio, e il piccolo busto slacciato sulla camicia bianchissima, sotto le cui pieghe si modellava il seno nascente, perché la fanciulla poteva avere al più diciotto anni. Se faccio tutti questi particolari - proseguì Elias mentre gli occhi di Simona riprendevano il cupo lampeggiamento di prima, indovinando nella bella fanciulla fonnese la donna

29 Ivi, p. 106. 30 Ivi, p. 107.

31 Ibidem. Tale «tragedia rusticana» avrebbe difatti trovato trasposizione scenica nel 1921.

32 Vedi L. Sole, La semiosi iconica di Grazia Deledda. L’immagine e il suono, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura sarda contemporanea, Nuoro, Consorzio per la pubblica lettura S. Satta, 1992, pp. 83- 119; M. E. Ciusa, L’isola fra scrittura e immagine, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura sarda, cit., pp. 121-128. Per Wagner l’accostamento di scene isolane con opere d’arte della cultura italiana ed europea testimonia la presenza nella scrittura di Deledda di uno sguardo esogeno introiettato. B. Wagner, La duplice enunciazione, o come “tradurre la Sardegna” per scrittori non-sardi, in G. Pirodda, Dalla quercia del monte al cedro del Libano, Cagliari, AIPSA, 2010, pp. 191-204: 199.

33 Come scrive Cerina, l’autrice «traduce puntualmente in prosa narrativa un racconto per immagini, tratteggiando le figure e dando evidenza plastica a una festosa natura morta» G. Cerina, La Sardegna “a modo suo”, cit., p. 19.

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che le aveva rapita l’intera felicità della sua vita - è per spiegare in qualche modo la causa primiera del mio traviamento.34

La descrizione dell’aspetto di Cosema è tanto dettagliata che l’autrice sente il bisogno di giustificare, per mezzo di uno dei suoi personaggi, la digressione documentaria come necessaria a spiegare l’origine del tradimento. Al contempo ciò le permette di introdurre un tema, quello dell’irresistibile fascino del “diverso”, a nostro avviso molto significativo. In questo caso l’alterizzazione è operata da parte di sardi ai danni di un’altra sarda, originaria però di una differente città, Fonni. Deledda, dunque, anche quando non chiama direttamente in causa il confronto tra continentali e isolani, come abbiamo visto fare al primo Verga e al primo d’Annunzio, si sofferma sul funzionamento di tale processo, che a livello nazionale è perpetrato ai danni del Sud. La “straniera”, inoltre, è imputata come responsabile dell’infelicità di Simona, come colei che le ha «rubato» intera la «vita». Sensuale ammaliatrice, la fonnese quasi incanta l’uomo, lo ipnotizza con la sua bellezza ed il suo carisma, tanto che lui agisce fuor di coscienza, come un automa. Elias abbassa completamente le difese quando viene informato del tradimento di Simona, notizia che si rivela poi essere un’infamante «calunnia». Questa sezione del racconto è caratterizzata da una atmosfera fiabesca ed è chiaramente ispirata alle leggende popolari sarde, che in questo stesso periodo la nostra andava raccogliendo e pubblicando illustrate in rivista. In tal modo la scrittrice, con le sue novelle, sembra chiamarsi parte del fondo esotico e fascinoso delle fiabe sarde, dei loro incantesimi e dei loro filtri d’amore,35 ma al contempo pare distaccarsene, incorniciandolo, guardandolo a distanza, studiandolo ed esaminandolo come uno scienziato nel suo laboratorio. A questo scopo intarsia i suoi racconti con leggende di tradizione orale o con loro imitazioni, nonché con canti popolari in lingua sarda. Molte sono in realtà le parole “dialettali” presenti nei racconti, tutte prontamente glossate dall’autrice (dall’appellativo «zia», che nella cultura sarda indica una persona anziana, a nomignoli come «Feruledda», «Bustianeddu», a toponimi come «Trasnuraghe», «Marreri», a parole comuni come «tanca», entrata nell’uso italiano proprio per opera di Deledda, ecc). Per concludere su Di notte, a determinare una svolta nella storia è lo svenimento della piccola Gabina, che, cadendo con un tonfo sonoro, ridesta l’umanità alienata dei suoi familiari. La madre ridiviene all’improvviso dolce ed apprensiva, subendo una radicale trasformazione: da «vipera» infernale a spirito angelico. Il nonno riconosce così nella bambina «la mano di Dio»36 e

34 G. Deledda, Novelle, Vol. I, cit., pp. 110-111.

35 Questo tema è approfondito in altre novelle della raccolta come Il mago, Altre magie e In sartu. 36 Ivi, p. 118.

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ordina ai figli di risparmiarne il padre, il quale, nel finale, si allontana a lunghi passi verso l’orizzonte.

L’ultima novella che vogliamo prendere in considerazione è Il padre, testo nel quale si rende esplicito il confronto tra popolo sardo e popolo continentale nello specifico delle differenze fisiche e fisionomiche che li distinguono. Il racconto narra la storia di due giovanissimi innamorati, Jorgi e Nania, la cui serenità è turbata dallo spettro della gelosia per un uomo sconosciuto venuto dal continente. Il giovane sardo è descritto dalla scrittrice con queste parole:

Jorgj poteva dirsi un bel ragazzo - egli si credeva un uomo maturo - alto e muscoloso, benché sottile, coi capelli nerissimi e il profilo perfetto; uno di quei profili scultori, della migliore scuola greca, come se ne vedono solo dalla parte di Bitti e d'Orune. Ma aveva la pelle troppo annerita e indurita dal sole e dal freddo, e la dolce linea della sua bellissima bocca, dalle labbra sottili e i denti di smalto, non leniva la durezza dei suoi occhi neri, annuvolati e quasi tetri. Allevato a Nuoro, Jorgj, parlava il nuorese con una lontana reminiscenza della sua pronunzia nativa, ma conservava il costume del suo paese quasi tutto nero, coi calzoni di orbace bianco stretti, un po' laceri e sporchi. Dacché aveva scoperto la cantoniera e s'era innamorato della piccola figlia di zio Gavinu, Jorgj Tiligherta si lavava il viso e le mani e cercava di pulirsi, ma ciò nonostante rimaneva nero come il demonio e i suoi scarponi e la sua berretta esalavano sempre un profumo pastorale poco voluttuoso.37

Jorgj è scuro per la lunga esposizione al sole, della quale è spia anche il suo soprannome: Tiligherta in sardo significa “lucertola”. Mentre l’uomo che intravede, attraverso una finestra, accanto alla sua Nania, l’ingegnere Guglielmo, è un «signore dalla barba bionda […] alto e magro, biondo e con gli occhi piccoli, di cui non si distingueva il colore, stretti agli angoli in un modo bizzarro».38 Lo straniero dall’espressione «bizzarra» è ricco e indipendente, come la fonnese di Di notte, e come lei sembra giunto per incrinare la felicità del protagonista indigeno. Il confronto fra i due viene instaurato dalla stessa autrice, che cede la parola ai pensieri dei suoi personaggi attraverso l’indiretto libero: «cosa contava lui, Jorgj Preda, la Tiligherta, col suo volto nero ed i suoi stracci, cosa contava in paragone di quel signore bianco e biondo, così ben vestito ed elegante?».39 L’aspetto fisico di Nania è

descritto con altrettanti particolari. La ragazza, infatti, per essere una bellezza tipicamente sarda, ha qualcosa di inconsueto che lascia predire il finale del racconto: capelli biondi, che generalmente porta coperti col fazzoletto, e pelle chiara, «pareva una di quelle figure sacre dipinte sullo sfondo di arazzi moreschi, che si ammirano in qualche tela italiana del secolo XV, e Jorgi, pensando alle brune bellezze delle ragazze che fino ad allora aveva conosciuto,

37 Ivi, p. 159. 38 Ivi, p. 162. 39 Ivi, p. 165.

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si convinceva nel suo dubbio».40 L’uomo che manda tanto in collera Jorgi, quell’uomo biondo, con le «lunghe mani di un candore e di una delicatezza femminile»,41 quell’uomo che viene periodicamente dal continente e porta dei regali alla sua Nania, altri non è che il vero padre della ragazza. Ma Jorgj, che ignora la verità, a vederli di lontano, di notte, dentro una stanza da letto, è colto dalla più cieca gelosia – «strani singhiozzi aridi, strazianti, gli contorcevano la gola...» – e sente l’istinto irrefrenabile di «massacrarlo»: «tutto il sangue affluiva al volto di Jorgj e le tempie gli picchiavano a martello. Se avesse avuto un archibugio avrebbe sparato, traverso i vetri, uccidendo quel signore che veniva a rubargli la vita».42 Un attimo prima della fatale aggressione, però, avviene l’agnizione che induce Tiligherta a risparmiare l’uomo. Segue quindi la narrazione dell’incontro con la ragazza, nella quale l’autrice torna ancora una volta sul colore dell’incarnato del ragazzo:

Alle due, appoggiato alla sua lunga pertica — il suo scettro da pastore — ritto come il giorno prima sul ciglione pieno di erba e di margherite, spiava l’arrivo di Nania. La mattina recatosi a Nuoro con l’entrata, cioè col formaggio fresco, la ricotta ed il latte, Jorgj si era tutto cambiato di vesti ed ora