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Contesto storico e immaginario culturale della Sardegna di fine Ottocento

Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871. Queste prime informazioni, all’apparenza poco significative, ci dicono già molto sulla prima fase creativa della scrittrice. Gli anni della sua formazione, infatti, sono caratterizzati da una particolare temperie politica e culturale. Ci troviamo all’indomani del compimento dell’Unità, con l’annessione al nuovo regno d’Italia dello Stato Pontificio e lo spostamento della capitale a Roma. Siamo dunque in uno dei momenti di massima espansione del discorso nazionalistico postunitario, durante il quale la Sardegna viene investita da una nuova ondata discorsiva subordinante. L’isola, infatti, come si è accennato nel secondo capitolo, costituisce, nel panorama del Mezzogiorno postunitario, un caso a sé, in quanto è stata soggetta, nel corso dei secoli, alla dominazione di diverse potenze straniere ed è entrata a far parte dei possedimenti sabaudi già a partire dagli anni Venti del Settecento.1 Con l’unificazione nazionale, tuttavia, la Sardegna viene ad essere equiparata alle altre regioni d’Italia e, insieme a quelle meridionali, subisce un’alterizzazione volta alla riconferma dei valori del centro. Inoltre, in questi stessi anni, a causa di alcuni provvedimenti statali, l’isola va incontro ad un crescente impoverimento dell’economia locale. In particolare, la privatizzazione dei terreni demaniali, prima impiegati per il pascolo e per il legnatico, induce la popolazione a sollevarsi in un grande moto di ribellione, passato alla storia con il nome di Su Connotu, che si svolge a Nuoro nel 1868, solo tre anni prima della nascita di Grazia. Altra conseguenza della situazione di povertà generalizzata è l’inasprimento, nelle zone interne della regione, del fenomeno del brigantaggio, che Maria Giacobbe, richiamandosi a Hobsbawm,2 identifica con le prime insorgenze italiane del banditismo sociale. Al tempo, tuttavia, tali fenomeni, invece di essere studiati come espressione di un malcontento dovuto alla scarsa considerazione attribuita agli specifici

1Anche l’ipotesi storiografica sulla colonizzazione dell’isola – si parla anche qui di ipotesi perché la Sardegna non si è mai trovata in una condizione ufficiale di colonialismo – ha dato luogo a un discorso indipendente rispetto a quello sulla colonizzazione del Sud, sviluppato nell’ambito della cosiddetta “Questione sarda”. A tal proposito, si pensi solo a A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2008; ma si veda anche L. Del Piano (a cura di), Antologia storica della questione sarda, Padova, Cedamo, 1959. E sulla questione dell’identità coloniale sarda: G. Angioni, Pane e formaggio e altre cose di Sardegna, Sestu, Zonza Editori, 2000; B. Caltagirone, T. Cossu, Sardegna, seminario sull'identità, Cagliari, CUEC/ISRE, 2007; oltre alla già citata riflessione di Birgit Wagner, sviluppato nella sua monografia Sardinien, Insel im Dialog, Tübingen, Franke Verlag, 2008.

2 M. Giacobbe, Grazia Deledda: introduzione alla Sardegna, Milano, Bompiani, 1974, p. 100. Cfr. E. Hobsbawm, I banditi: il banditismo sociale nell'età moderna, Torino, Einaudi, 2002.

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bisogni dell’isola da parte dello stato centrale, vengono interpretati attraverso le lenti della diversità del Meridione.

Alla fine del secolo, la Sardegna diventa oggetto dell’interesse della scuola di criminologia positiva. Quest’ultima, come è noto, ha il suo atto di nascita nella scoperta all’interno del cranio del brigante calabrese Giusppe Villella, di una fossetta occipitale, ovvero di un particolare incavo vuoto che gli conferiva la stessa morfologia cranica dei pesci o dei volatili. Essa si manifesta subito per Lombroso come una prova sicura dell’arresto dei briganti in primis, e di tutti i meridionali poi, sul cammino evolutivo.3 È un allievo di Ferri, Alfredo Niceforo, in particolare, a contrapporre sistematicamente settentrionali e meridionali in opere come l’Italia barbara contemporanea e Italiani del nord e italiani del sud. Il giovane studioso opera una distinzione tra razze superiori e razze inferiori, tra “arii”, di origine euroasiatica, brachicefali e “italici”, mediterranei di origine africana, dolicocefali: popolo- uomo e adulto il primo, popolo-donna e bambino il secondo, in accordo con l’allora diffusa concezione misogina della donna come “uomo imperfetto”,4 già espressa da Lombroso in opere come La donna delinquente, la prostituta e la donna normale.5 Tali categorie, inoltre,

vengono sovrapposte da Niceforo a quelle proprie della sociologia criminale: da una parte la criminalità raffinata, civile, definita «evolutiva» da Sighele, propria della società moderna e industrializzata del Settentrione, dall’altra la criminalità selvaggia, primitiva, brutale, definita «atavica» da Sighele, propria del Meridione e delle isole.6 Nascono così le idee di «razza criminale» e di «delinquente nato», che spiegherebbero i tassi notevolmente più alti di criminalità atavica al Sud e in particolare in Sardegna. Le indagini di Niceforo prendono infatti avvio proprio dal caso sardo. Lo studioso nel 1895 compie, insieme al collega Orano, un viaggio di esplorazione della Sardegna, durante il quale individua nella regione della Barbagia, sede del brigantaggio, una pericolosa “area criminale” che minaccia di infettare

3 Vedi D. Palano, Viaggio nell'abisso. Figure del Meridione nell'Archivio di Cesare Lombroso (1880-1900), «CERCLES», 6, 2003, pp. 92-111.

4 A tal proposito Niceforo scrive: «Nessun popolo d’Italia è così leggero, così irrequieto come il popolo napoletano, con una leggerezza che ha veramente del donnesco. Diremmo quasi che è un popolo donna, mentre gli altri sono popoli uomini. Se voi confrontate la psicologia dell’uomo con quella della donna, come fecero il Lombroso, il Ferrero, il Sergi, il Mingazzini, trovate che la psicologia femminile tiene la via di mezzo tra quella maschile e quella infantile, più vicina a questa che a quella. Essa segna, nella scala della psicologia comparata, un gradino inferiore, appunto perché sta a rappresentare una specie di arresto di sviluppo ed ha per pietra angolare la mobilità estrema, comune ai selvaggi, ai bambini, … orbene, il popolo napoletano è il popolo- femmina accanto agli altri popoli, per esempio il settentrionale d’italia, il tedesco, l’inglese che sono popoli maschi» A. Niceforo, L’Italia barbara contemporanea, Milano-Palermo, Sandron, 1898 pp. 247-248. 5 C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (1893), Roma, Viella, 2019. 6 S. Sighele, La delinquenza settaria, Milano, Treves, 1897.

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tutta l’isola. Al ritorno dal viaggio, Orano e Niceforo danno alle stampe rispettivamente Psicologia della Sardegna7 e La delinquenza in Sardegna:8 libri che non hanno per oggetto unicamente il brigantaggio, ma anche gli usi, i costumi, le danze della popolazione sarda, considerate spie della sua ancestralità culturale, come si vedrà meglio nelle prossime pagine.9

Tornando alla storia del brigantaggio in Sardegna, nel 1899 le forze militari statali tentano di debellare definitivamente il problema con una repressione armata condotta in stato d’assedio e culminata in una serie di arresti, significativamente definita «caccia grossa».10

Circa settecento uomini vengono incarcerati e alcuni di loro trovano la morte durante l’assalto.11 La nostra scrittrice ha modo di vivere in prima persona questi eventi e di

conoscere direttamente il fenomeno del banditismo. Come racconta più tardi nel suo romanzo autobiografico Cosima, un suo cugino diviene bandito, suo fratello è arrestato per abigeato e un giovane servo della sua casa si unisce alle bardane «solo per spirito di avventura».12 Infatti, se tali fermenti sociali vengono studiati sul continente dagli esponenti della scuola criminologica positiva come espressione di una degenerazione patologica della razza sarda, nell’isola, particolarmente nel caso di fenomeni minori come quello dell’abigeato e del furto di bestiame, vengono vissuti e accettati come una dimostrazione di

7 P. Orano, Psicologia della Sardegna (1896), Cagliari, Turno, 1919.

8 A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna (1897), Cagliari, Della Torre, 1977.

9 Secondo quanto sostiene Gramsci, infatti, le ricerche della scuola lombrosiana erano parte di un più ampio progetto settentrionale teso a trovare, per l’arretratezza economica del Meridione, delle motivazioni alternative al fine di nasconderne le reali cause: «È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il partito socialista diede il suo crisma a tutta la letteratura «meridionalista» della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la «scienza» era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta essa si ammantava dei colori socialisti, pretendeva essere la scienza del proletariato». A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici, «Critica marxista», XVIII, 3, 1990, p. 55. L’aspetto che più sconcerta Gramsci è che queste teorie si pongono come fonte di assoluzione per i mali del Sud, come spiegazione dell’insorgente “questione meridionale” e anche come base scientifica per una futura azione di modernizzazione e di “incivilimento” del Mezzogiorno. In tal modo, esse conquistano perfino il consenso del partito socialista e degli intellettuali meridionali. Ricordiamo che non solo i letterati che ne subiscono l’influenza, ma gli stessi Niceforo e Orano sono di origine meridionale: siciliana l’uno e sarda l’altro.

10 G. Bechi, Caccia grossa. Scene e figure del banditismo sardo (1914), Nuoro, Ilisso, 1997.

11 A denunciare l’efferatezza di tali vicende sarà, molto più tardi, un’inchiesta di Franco Cagnetta pubblicata col titolo Banditi a Orgosolo (1975), in cui l’autore parla di «assedio poliziesco», di «misure coloniali» e di «regime imperialistico». F. Cagnetta, Banditi a Orgosolo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1975.

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balentìa maschile, valore fondante della cultura barbaricina. Tale difformità di giudizio è esemplificativa per comprendere come, in questo momento storico, si consumi una profonda frattura culturale (oltre che economica e sociale) tra l’ordinamento dello Stato e un codice regionale non scritto che non si riconosce nei suoi valori e nelle sue leggi. Alle richieste della popolazione sarda di tornare alle antiche tradizioni isolane si sommano poi le sollecitazioni della letteratura e della pubblicistica socialista provenienti dal continente, dando luogo alla fondazione di un vero e proprio modello «autonomista».13 È in questi anni che viene pronunciata per la prima volta la parola “sardismo”.14 Come spiega Tanda, tale moto regionalistico è ispirato dagli stessi principi che avevano ispirato quello italiano: «La Sardegna conosceva, proprio in quegli anni, un processo di autoidentificazione che, muovendo dagli studi di cultura e di storia promossi nei primi anni dell’Ottocento, conduceva alla costruzione di un automodello autonomista che tendeva a confrontarsi con i modelli nazionali […] italiano ed europeo».15 Tale fermento sociale è inoltre accompagnato

da una rinascita culturale, condotta però all’insegna di valori tradizionali e in parte regressivi. I rapsodi sardi «dalla chiara voce»,16 per lo più attivi sul fronte della poesia dialettale, mutuano i loro temi dalla tradizione agonistica orale, integrandola con motivi prettamente politici, umanitari e “sardisti”. Se è questa fervida temperie culturale, quindi, a favorire la nascita del genio letterario della nostra autrice, bisogna altresì rilevare come quest’ultima, unica donna scrittrice nella Nuoro del tempo, resti tagliata fuori dalla cerchia intellettuale locale. Infatti, oltre a scontrarsi con l’ostacolo della famiglia e dell’opinione pubblica – come racconta sempre fra le pagine della sua autobiografia –,17 Deledda non viene ammessa a

partecipare direttamente al cenacolo poetico nuorese. Così, almeno in un primo momento, l’autrice sarda non assorbe quello che è il nuovo (ma antico) modello indigeno e cerca altrove il riconoscimento del suo talento. Nell’analizzare l’esperienza letteraria di Deledda, in questo senso, bisogna tenere presente che l’autrice si affaccia al mondo culturale del tempo da una posizione doppiamente asimmetrica. Per adottare la terminologia lacaniana usata da Spivak,

13 N. Tanda, Da Grazia a Cosima: dal mito dell'isola all' isola del mito, in A. Pellegrino (a cura di), Metafora e biografia di Grazia Deledda, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1990, p. 119.

14 La parola viene pronunciata per la prima volta dal deputato garibaldino Felice Cavallotti. Cfr. N. De Giovanni, Come leggere canne al vento, Milano, Mursia, 1993, p. 15.

15 N. Tanda, Da Grazia a Cosima, cit., p. 119.

16 S. Satta, Canti barbaricini e Canti del Salto e della Tanca, Nuoro, Ilisso, 2003.

17 «Per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, ma i ben pensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma consideravano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile. Lo stesso Andrea era scontento: non così aveva sognato la gloria della sorella: della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito». G. Deledda, Romanzi e novelle, cit., p. 766.

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la voce della scrittrice nuorese è “forclusa” sia in quanto sarda che in quanto donna.18 Il suo percorso riflette una difficile negoziazione tra l’una e l’altra marginalità, la progressiva emancipazione da una doppia scrittura identitaria subordinante. La sommatoria di questi due aspetti rende più complessa la sua opera, che si presterebbe perciò anche a un tipo di lettura “intersezionale”.19 L’approccio intersezionale, solo in tempi relativamente recenti

trasmigrato dalle scienze sociali allo studio della letteratura, e recentissimamente applicato alla letteratura della migrazione in lingua italiana,20 sarebbe quindi fruttuosamente praticabile già a quest’altezza cronologica. In effetti, la narrativa italiana di fine Ottocento, sotto l’influsso del naturalismo francese, investiga le disparità sociali, soprattutto le differenze di classe, ma si addentra anche, con acuita sensibilità e rinnovato senso critico, nell’analisi degli altri tipi di diversità – di genere, di età, e, considerati gli studi “scientifici” di cui si è appena detto, anche di “razza” – e delle loro intersezioni.