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L’analisi dell’opera di Giovanni Verga, come si è visto nelle pagine precedenti, ha costituito uno dei momenti chiave dello studio del racconto del Sud in un’ottica alterizzante. Lo scrittore di Vizzini, infatti, oltre ad aver dedicato buona parte della sua attività letteraria a rappresentare quel “mondo altro” che era e doveva apparire la Sicilia alla fine dell’Ottocento, ha incentrato la sua ricerca poetica proprio sulla natura di tale rappresentazione. Per questa e altre ragioni, che hanno reso la sua esperienza fondativa ed esemplare per gli autori meridionali che lo hanno succeduto, come si avrà modo di illustrare nei prossimi capitoli, essa costituisce un punto di partenza irrinunciabile per la nostra indagine, che intende confrontarsi con gli studi già esistenti adottando lenti nuove e una prospettiva più estesa e comparata.

Come è noto, l’opera di Verga è parte integrante e colonna portante di quel movimento artistico-letterario di matrice europea, ma anche, per molti versi, specificamente nostrano, che prende il nome di Verismo e che, secondo quanto scrive Gramsci in Letteratura e vita nazionale, ha la sua marca distintiva nella contrapposizione fra un’«Italia reale» e un’«Italia “moderna” ufficiale». A detta di Gramsci, lo stesso movimento presenta al suo interno una non meglio definita “spaccatura”: «c’è differenza – scrive infatti – tra il verismo degli scrittori settentrionali e di quelli meridionali».1 Dal nostro punto di vista, tale divergenza, oltre che in funzione delle singole specificità storico-sociali, può anche interpretarsi in relazione al diverso trattamento riservato dagli scrittori veristi alle realtà periferiche, e in particolare al Sud. Se per gli autori settentrionali l’esplorazione2 del Mezzogiorno si pone sostanzialmente in linea con il racconto esotizzante e stereotipico delle riviste illustrate e dei folkloristi, che ne accentuano l’arretratezza e la distanza dagli standard italiani ed europei, per gli scrittori meridionali, almeno da un certo momento in avanti, tale rappresentazione

1 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1996, edizione digitalizzata per il Progetto Manuzio, 2013, pp. 41-42.

2 Sergio Campailla sottolinea come il processo di esplorazione che coinvolge il Meridione d’Italia sia assimilabile a quello che interessa la Russia, in questo senso sembra ancora più adeguata la nostra scelta di adottare gli strumenti ermeneutici lotmaniani, che sono stati calibrati dallo studioso proprio sull’esame dei testi della letteratura russa. Di seguito la citazione per esteso: «Quando Verga pubblica Vita dei campi, nel 1880, il processo di unificazione dello Stato italiano si è compiuto da vent'anni. L'anno successivo escono I Malavoglia […]. La lettura acquista un carattere di esplorazione e di scoperta di nuovi territori, un po' come di lì a breve succederà in Europa con l’avvento della grande letteratura russa». S. Campailla, Introduzione, in G. Verga, La lupa e altre novelle di sesso e di sangue, Roma, Newton Compton, 1996, p. 7.

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inizia ad essere problematizzata. L’immagine pittoresca del Sud viene messa in discussione e sostituita da una rappresentazione demistificante, che attraverso lo straniamento, l’ironia o il rovesciamento giunge a denunciare le incongruenze dell’immaginario diffuso e la sua potenziale dannosità. L’opera di Verga costituisce, in questo senso, un caso di studio particolarmente esemplificativo perché, non solo mostra al suo interno ambo queste tendenze, ma ne illustra anche il mutare: il confluire dell’una nell’altra che viene a coincidere con un vero e proprio ribaltamento del punto di vista dell’autore e con una sua progressiva adesione alla prospettiva dell’identità periferica.

Nelson Moe, che per primo ha analizzato la produzione di Verga in relazione all’alterizzazione del Sud, ha posto anche l’accento sul posizionamento dello scrittore e sul contesto in cui si trova ad operare nei primi anni Settanta.3 Verga, infatti, parte dalla nativa Catania nel 1865, per trasferirsi prima a Firenze e poi, nel 1872, a Milano, centro nevralgico e capitale della vita culturale italiana del tempo, dove resta per un ventennio.4 È in questa

città che – da una parte per una certa delusione del mondo borghese cui aveva fervidamente aspirato a partecipare,5 dall’altra per l’incoraggiamento del suo editore, che ha un ruolo

determinante nelle sue scelte artistiche –, Verga intraprende un percorso di riscoperta della sua terra natale. Nel lontano capoluogo lombardo, secondo Moe, l’autore realizza il valore e la portata della carica simbolica della Sicilia rurale, l’«immenso contrasto con le passioni turbinose e incessanti delle grandi città, con quei bisogni fittizii»6 – come scriverà all’amico Capuana nel 1879 –, che ne fanno un luogo d’evasione e di palingenesi per la borghesia settentrionale. La prima novella incentrata sulla riscoperta della terra natale è Nedda. Bozzetto siciliano del 1874. Secondo i critici questa novella inaugura una nuova stagione poetica dell’autore, un’inversione di rotta rispetto alle opere precedenti di gusto tardoromantico. Una svolta artistica che, per Moe, si sviluppa in modo coerente di qui fino alla pubblicazione nel 1880 di Vita dei campi e muove in direzione di una sempre maggiore consonanza con i gusti dell’editore Treves. Si tratta di una rappresentazione della Sicilia a

3 N. Moe, La poetica geografica di Giovanni Verga, in Id., Un paradiso abitato da diavoli, cit., pp. 247-284. 4 Milano è al tempo la capitale culturale del Regno d’Italia e – come scrive Asor Rosa –, per gli intellettuali palermitani o catanesi rappresenta l’equivalente di quello che Parigi aveva rappresentato per gli scrittori milanesi. A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana. Ottocento, Milano, Mondadori, 2008, p. 153. 5 Asor Rosa sottolinea come un certo disagio esistenziale sia da annoverarsi fra i motivi della “conversione” verista del Verga. Lo studioso fa riferimento all’introduzione di Eva in cui viene espressa una «profonda scontentezza del modo di essere borghese, cui pure, fuggendo dalla provincia catanese, Verga avrebbe (come il suo personaggio Lanti) aspirato a partecipare. Forse l’integrazione fra il provinciale recentemente inurbato e la società milanese non si era realmente compiuta». Ivi, p. 208.

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uso e consumo del pubblico settentrionale, il cui fascino e il cui potenziale commerciale erano già stati avvertiti dall’autore in un’opera precedente, Eva. Nel romanzo, appartenente alla prima produzione verghiana ma pubblicato sempre a Milano, un anno prima di Nedda, si può rintracciare infatti un accenno e una chiave di lettura della sua opera successiva. In un passaggio del libro, durante una conversazione con la bella ballerina fiorentina Eva, l’artista siciliano Enrico Lanti, alter ego romanzesco dell’autore, si trova a smentire alcuni stereotipi sul carattere dei siciliani, la cui origine sembra rintracciabile nella lontananza geografica dell’isola («“Di dove siete?” “Son siciliano” “È assai lontana la Sicilia” “Sì” “Più lontana di Napoli?” “Sì” “È vero che i siciliani sono gelosi?” mi domandò dopo qualche istante. “Né più né meno degli altri”»).7 Allo stesso modo le spiagge isolane, e in particolare quella dei Ciclopi, presso Aci-Trezza, già canonizzata da Richard de Saint-Non quale icona del Voyage pittoresque8 e immortalata in un dipinto dal giovane artista protagonista del libro, diventano

oggetto di godimento estetico agli occhi di Eva e dei continentali per il solo fatto di trovarsi in Sicilia, un mondo distante e trasfigurato dalla fantasia. A questo preciso proposito, Moe parla, con Debenedetti, di un vero e proprio «presagio»,9 non solo perché qui Verga presenta per la prima volta la marina di Aci-Trezza, futura ambientazione dei suoi capolavori maturi, ma anche perché già a quest’altezza, in uno dei suoi “romanzi borghesi” della prima maniera, sembra prefigurare quel «principio di lontananza» che sarà poi al centro della sua «poetica geografica», come la chiama Moe, e che troverà piena espressione e limpida formulazione in Nedda.

La novella, pubblicata su l’«Illustrazione italiana» nel gennaio 1874 e poi confluita in Primavera e altri racconti nel 1876, riscuote sin da subito un grande consenso: «un caos del diavolo»,10 come scrive Verga in una lettera ai familiari. L’entusiasmo del pubblico e della critica, riconfermato dalla richiesta di Treves di altre novelle simili, è tutt’altro che condiviso dall’autore, che afferma: «la Nedda, che è una vera miseria, ha avuto un miglior successo di quel che si meriti».11 Nedda è accolta con fervore anche nel salotto della contessa Clara

7 G. Verga, Eva, in Id., Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre reale, Milano, Mondadori, 1970, p. 275.

8 J. C. R. de Saint-Non, Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Chaillou- Potrelle, Dufour & C, 1829.

9 Il critico cita questo passo come prefigurazione delle tematiche dell’opera matura del Verga. La lettura psicobiografica del Debenedetti è tuttavia molto distante da quella data da Nelson Moe. G. Debenedetti, Presagi del Verga, in Id. Saggi critici, Milano, Il Saggiatore, 1959, p. 231, citato in N. Moe, La poetica geografica di Giovanni Verga, cit., p. 252.

10 G. Verga, Lettere sparse, Roma, Bulzoni, 1979, p. 66. 11 Ivi, p. 65.

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Maffei, centro di discussione della cosiddetta “letteratura rusticale”,12 e riceve

l’apprezzamento di Angelo de Gubernatis, che vede nel racconto uno strumento di studio degli usi e dei costumi meridionali.13 Ma gli elementi di maggiore interesse sono evidenziati dall’appassionata recensione di Torelli-Viollier comparsa su «Nuova illustrazione universale»: «Il colore locale è così vero, i personaggi sono così finemente ritratti, che durante un’ora – la lettura di Nedda non dura più che tanto – par di vivere in Sicilia, su quella terra magnifica e squallida, in mezzo a quella gente mezzo selvaggia».14 La brevità del racconto, il colore locale e, citato anche più oltre, il fascino che la «mezzo africana Sicilia» esercita sui lettori milanesi,15 ne fanno una vacanza, una divagazione dalla vita ordinaria,

un’immersione catartica e una fuga in un mondo altro. Con la pubblicazione di Nedda, Verga sembra sperimentare e abbracciare la formula vincente per l’agognato riconoscimento letterario: il racconto di una Sicilia pittoresca, immersa nella natura e popolata di gente semplice, che si esprime attraverso il rituale, la danza, il proverbio o il canto dalla caratteristica «cadenza orientale».16

Per avere un assaggio di tale estetica rappresentativa, basti leggere, a titolo d’esempio, il passaggio iniziale della storia di Nedda:

Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano

12 Denominazione dovuta al saggio di Correnti La letteratura rusticale pubblicato in «Rivista europea» nel 1846. C. Correnti, Scritti scelti, in parte inediti o rari, Roma, Forzani e. c. tipografi del senato, 1891-1897. 13 Cfr. F. Chimirri, Postille a Verga. Lettere e documenti inediti, Roma, Bulzoni, 1977.

14 Cfr. «Nuova illustrazione universale», 21 giugno 1874, p. 27. 15 Ibidem.

16 G. Verga, Le novelle, Roma, Salerno, 1980, p. 150. All’interno della novella Verga inserisce anche un brano di un canto popolare intonato dal personaggio di Janu, lasciato in dialetto come documentazione di una tradizione siciliana. Più avanti sempre Janu si rivolge a Nedda con una parola dilettale «Salutamu!» (Ibidem). Luigi Russo rileva il particolare impiego di forme dialettali in questa e in altre due novelle di Vita dei campi e così scrive nel capitolo sulla Lingua di Verga, aggiunto nel 1941 al suo fondamentale volume del 1919: «Se non sapessimo per altra via che La lupa e Cavalleria rusticana furono i due primi ad esser composti, ce ne accorgeremmo anche per alcune testimonianze di carattere linguistico. In essi il dialetto siciliano urta e ribolle e borbotta un po’ troppo bruscamente ancora nel nuovo doglio. Specialmente in Cavalleria rusticana il dialetto vi permane ancora nella sua materialità lessicale o nella sua traduzione stentata, proprio come in Nedda» (L. Russo, Giovanni Verga, Bari, Laterza, 1941, vedi id., Antologia critica, in G. Verga, Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1978, p. 17). L’uso asistematico del dialetto siciliano, inserito in un ordito perfettamente rispondente all’italiano letterario, deve considerarsi, per il critico, spia di qualcosa di diverso rispetto all’intenzione mimetica: «non per mero pregiudizio veristico sono riportati quei relitti della lingua segreta dello scrittore, ma per incapacità a trasfigurarli» (Ivi, p. 18). Parla, infatti, a dimostrazione di una mancata amalgama dei due idiomi verghiani, di modalità intermedie, “zeppe dialettali”, «forme provvisorie adottate per incapacità di adeguarsi alla lingua platonica, presente alla fantasia dello scrittore, e altrove reincarnata nel linguaggio originale, vicinissimo e pur lontano dal suo dialetto». (Ibidem). Questa operazione che, secondo il Russo, sarà compiutamente realizzata solo ne I Malavoglia, secondo noi, non è ancora formulata dall’autore a quest’altezza cronologica. Infatti, a nostro avviso, la conquista del linguaggio del capolavoro verghiano è data da un mutamento di prospettiva, di un capovolgimento del punto di vista, che comporta piuttosto un rifiuto, seppur graduale, di questa prima impostazione stilistica.

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dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il pane di bocca. […] Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull’ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: - Nedda! Nedda la varannisa! - esclamarono parecchie. - Dove s'è cacciata la varannisa?17 Come constata Basile, riprendendo l’argomentazione di Moe, da Nedda a Vita dei campi – raccolta in cui Verga porta l’immagine “orientalista” della Sicilia al limite delle sue possibilità –, l’autore si appropria e allo stesso tempo rinnova un archivio di temi e figure meridionali amplissimo:

Verga intercetta e nello stesso tempo riformula pressoché tutti i temi estetici e geoculturali connessi con la rappresentazione del Mezzogiorno, segnando in maniera profonda e duratura la percezione collettiva dell’identità siciliana. Pur soggetta a rilevanti oscillazioni poetiche, l’opera dello scrittore catanese dà infatti vita a un immenso serbatoio di immagini e narrazioni sul paesaggio, l’economia, il folklore, la religiosità, le passioni, i miti e le sofferenze di una Sicilia quasi esclusivamente rurale, contribuendo a declinare letterariamente l’urto tra mondi e tempi storici diversi su cui si è basato il processo di conoscenza delle regioni meridionali del paese.18

Nel dare conto del contributo di Verga alla definizione dell’immaginario meridionale, Basile coglie un punto fondamentale: quello del conflitto tra due diverse forme di temporalità che è alla base del processo di conoscenza, o meglio di dialogo, fra le varie parti del paese, e più nello specifico, fra quelle due identità culturali che in tale processo vengono strutturandosi. L’universo siciliano è presentato da Verga, coerentemente con la rappresentazione diffusa, come un mondo fuori dalla storia,19 immerso in un tempo ciclico regolato dal calendario liturgico e dall’alternarsi delle stagioni, che viene a opporsi e a costruire per contrasto il tempo lineare e progressivo della società settentrionale. Quest’ultima è sempre presente, seppur taciuta, come termine di paragone implicito e orizzonte cui il racconto dell’alterità si contrappone e si rivolge: lambisce i contorni del quadro e ne garantisce così l’unità. Non è

17 G. Verga, Le novelle, cit., p. 133.

18 G. Basile, Scrivere del Mezzogiorno, cit., p. 76.

19 La Sicilia verghiana è da più parti descritta come luogo senza storia o fuori dal tempo: «La Sicilia, dunque, come isola detemporalizzata […]. La detemporalizzazione è l’effetto ottico di un immobilismo protratto, di un presente che appare eterno perché troppo ricalca l’antichità remota, confondendosi con essa, senza margini per il futuro», (S. Campailla, Anatomie verghiane, Bologna, Patron, 1978, p. 119) e – in un testo successivo – «l'isola si dilata a significazioni simboliche ampie, ritaglia un mondo che non è solo provincia, ma il Mondo», (Id., introduzione a G. Verga, I Malavoglia, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 14). Sul tema cfr. A. Asor Rosa, I Malavoglia di Giovanni Verga, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, 12, L’età contemporanea. Le opere 1870-1900, Torino, Einaudi, 2007, p. 299; L. Russo, Giovanni Verga, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 175; A. Asor Rosa, Il caso Verga, Palermo, Palumbo, 1972, pp. 46, 64. In molti parlano analogamente di una Sicilia “mitica” nelle opere di Verga: Cfr. A. Asor Rosa, I Malavoglia di Giovanni Verga, p. 250; R. Luperini, Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Padova, Liviana, 1968, p. 62; G. Barberi Squarotti, Giovanni Verga. Le finzioni dietro il verismo, Palermo, Flaccovio, 1982, pp. 17-18.

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raro, infatti, che i caratteri dei personaggi o dei luoghi entrino in conflitto fra loro, tanto più quando li si consideri immagini particolari dell’essenza meridionale e sineddochi dell’intero Mezzogiorno. Il personaggio di Nedda, ad esempio, con la sua ingenuità e la sua innocenza, può e deve essere interpretato come figura simbolo e personificazione dell’intera Sicilia, non diversamente da quello della Lupa,20 protagonista dell’omonima novella di Vita dei campi, caratterizzato secondo l’altrettanto diffuso stereotipo della passionalità isolana. Come scrive Basile, la Gnà Pina è l’«incarnazione astorica di una femminilità ferina e insaziabile che, assai suggestivamente, s’avvicina ai fenomeni di genderizzazione tipici dell’orientalismo puro»,21 ovvero a quei processi attraverso i quali la periferia coloniale viene ad essere

simbolicamente rappresentata da un individuo di sesso femminile e in tal modo più chiaramente incardinata nella posizione subalterna di un rapporto gerarchico. Come la figura femminile nella narrazione patriarcale e la colonia in quella imperialista, la Sicilia verghiana è caratterizzata al contempo come angelica e diabolica: candida e pura come Nedda, torbida e lasciva come la Lupa. La pacifica coesistenza di queste due immagini contraddittorie dell’isola, prodotte a distanza di pochi anni, non smentisce, anzi dimostra la vacuità referenziale della rappresentazione, l’inconsistenza dello “spaventapasseri” meridionale, di quella figura enantiomorfa che ha il suo unico vero ancoraggio nell’identità cui si contrappone, ovvero quella settentrionale. A tal proposito, forse non sarebbe azzardato parlare per l’isola meridionale di “eterotopia”, concetto introdotto da Foucault e correlato per altro al concetto di “eterocronia”. Per Foucault, le eterotopie sono dei «contro-luoghi»,22 ovvero dei luoghi reali in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati.23 Come una superficie riflettente, l’eterotopia ha il potere e la funzione di aprire uno spazio virtuale che dona realtà al luogo che riflette, ma, al contempo, essendo dotata, proprio come uno specchio, di una materialità e di una cornice – e su questo elemento torneremo fra breve –, essa produce in quello stesso luogo «una sorta di effetto di ritorno».24

Perciò se fin qui ci siamo attenuti al livello estrinseco dell’analisi che la metodologia orientalista consente di operare sui testi attraverso il confronto tra le descrizioni stereotipate

20 Non possiamo qui dilungarci sui contenuti della novella, ma ci sembra opportuno ricordare che il lupo/licantropo è tra le figure liminari citate da Lotman. J. M. Lotman, La semiosfera, cit., p. 174.

21 G. Basile, Scrivere del Mezzogiorno, cit., p. 84.

22 M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Milano, Mimesis, 2011, p. 23. 23 Ibidem.

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che il centro conia per la periferia, e che la periferia introietta e replica, altro discorso e ben più complesso si può fare sull’opera di Verga tenendo conto delle strategie – due le principali – che, sin dal suo primo bozzetto siciliano, l’autore mette in campo per portare allo scoperto e così delegittimare l’artificiosità delle sue stesse rappresentazioni. La prima, sebbene già inquadrata in quest’ottica dalla critica, esige un riesame e un ulteriore approfondimento che troveranno spazio nelle prossime pagine. La seconda, non meno commentata dagli interpreti e implicata anche nelle riflessioni che seguiranno, può forse essere riconsiderata sin d’ora alla luce di quanto detto sull’iconicità dei personaggi verghiani. La figura di Nedda, così come quella della Lupa, sono immagini della Sicilia, non unicamente per il fatto di essere connotate dagli stessi stereotipi che circondano l’isola, ma anche per la diversità e la condizione di isolamento che essi procurano loro.25 Le protagoniste dei due racconti, ma poi

in generale, come ricorda Ricciardi, tutti «gli attori di Vita dei campi si rivelano […] personaggi eccezionali, devianti dalla norma»,26 come eccezionale è il “tipo” del siciliano nel contesto nazionale. Essi, come i “degradati” di Lotman incontrati nel primo capitolo, si comportano in maniera differente rispetto agli altri, spesso contravvenendo alla morale costituita o minando la rettitudine altrui, e ciò gli procura la maldicenza, il biasimo e sovente