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L’orientalismo alla prova dei testi: nuove applicazioni, limiti e potenzialità di un

La seconda ondata di studi è caratterizzata da un’estensione del raggio di applicazione del paradigma della differenza, che, a un decennio dalla nascita del dibattito, salvo qualche pionieristica anticipazione, non era ancora arrivato ad esplorare la seconda parte del Novecento.Lo fa un articolo di Francesco Faeta, pubblicato su «Lares» nel 2003 e intitolato Rivolti verso il Mediterraneo. Immagini, questione meridionale e processi di ‘orientalizzazione’ interna.40 Qui viene presa in esame l’esotizzazione del Sud operata da

fotografi come Federico Patellani, Franco Pinna e André Martin, che, nel secondo dopoguerra, lavorano a stretto contatto con gli antropologi, accompagnandoli nelle loro missioni e illustrando le loro ricerche. Quella al centro dello studio è anche la stagione del Neorealismo, durante la quale si guarda al Sud come a un’unica grande compagine contadina, secondo una visione riduzionistica ed essenzializzante che viene da lontano e non conosce soluzione di continuità. «La sensazione – scrive l’autore – è che il ruralismo e il pregiudizio anticontadino (due facce della stessa medaglia)»,41 ma anche l’interesse

neorealista per il Sud, provengano parimenti da vecchi schemi culturali, volti a plasmare e a rafforzare le posizioni delle élites culturali e politiche del Paese. A livello metodologico, Faeta predilige l’approccio orientalista, che, a differenza di altre categorie critiche come lo stereotipo o il pregiudizio, presenta, secondo lui, il vantaggio della sistematicità. La sua chiave di lettura, inoltre, viene ad essere integrata da un principio che mutua da Michael Herzfeld:42 quello della “cultural intimacy”. Non diversamente da quanto detto fino qui, per Faeta, la retorica orientalizzante attivata dalla nazione italiana risponde a un modello

40 F. Faeta, Rivolti verso il Mediterraneo. Immagini, questione meridionale e processi di “orientalizzazione” interna, «Lares», 69, 2, Maggio-Agosto 2003, pp. 333-367, poi con lo stesso titolo in Id., Questioni italiane. Demologia, antropologia, critica culturale, Torino, Bollati-Boringhieri, 2005, pp. 108-150; Vedi anche Id., La costruzione della diversità. Per una lettura delle rappresentazioni fotografiche nella Lucania del secondo Dopoguerra, in F. Mirizzi (a cura di), Da vicino e da lontano Fotografi e fotografia in Lucania, Milano, Franco Angeli, 2010.

41 F. Faeta, Rivolti verso il Mediterraneo, cit, p. 359.

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“disemico”, che agisce come fonte di legittimazione su un doppio piano: interno ed esterno. In particolare, la sinistra italiana del secondo dopoguerra mira, da una parte, a portare in un alveo sicuro le tensioni antagoniste provenienti dal Sud e, dall’altra, ad essere accettata come parte integrante di una realtà europea e nazionale.

A dirimere ed alzare steccati fra la retorica orientalizzante ruralista e quella post-ventennio è Brian Moloney, con Italian Novels of Peasant Crisis,43 del 2005. Lo studioso inglese individua nella letteratura strapaesana e nella propaganda fascista una seconda colonizzazione dell’immaginario meridionale, dopo quella postunitaria, e nella narrativa di Francesco Jovine, Ignazio Silone, Cesare Pavese e Carlo Levi un tentativo di demistificarla. Moloney non distingue in questo senso tra autori meridionali e settentrionali e nemmeno tra contado del Sud e del Nord. A giustificazione di questa sua scelta, cita la frase posta in esergo a Sud e Magia da Ernesto De Martino: «Ovviamente nel binomio Sud e Magia il termine Sud non ritiene il valore di una designazione meramente geografica, ma politica e sociale».44

Moloney seleziona, fra i romanzi provenienti dal Mezzogiorno rurale e dal Settentrione meridionalizzato degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, quelli che si differenziano per una specifica critica sociale data dall’impatto di politiche nazionali sulle realtà contadine locali.45Il merito di questi romanzi risiederebbe nell’intravedere nella realtà contadina una vera e concreta alternativa alla vita industrializzata e borghese. Nel rifiutare l’immagine falsa e mistificante della vita rurale di milioni di italiani nonché la retorica magniloquente e gli stereotipi resi popolari dal regime in funzione del suo progetto di “bonifica integrale”, gli autori descrivono una civiltà compiuta, con un suo sistema di valori, sue dinamiche interne e anche sue idiosincrasie. Una civiltà che lotta per i suoi diritti, dei quali si vede però continuamente spogliata da un potere centrale repressivo e incurante delle sue necessità. Nei dibattiti spesso sterili tra strapaesani e stracittadini, la letteratura meridionale si pone infatti come forza de-orientalizzante da una parte, con il netto rifiuto dell’immagine proiettata, e come forza propositiva dall’altra, con la formulazione di una nuova immagine. Tuttavia,

43 B. Moloney, Italian Novels of Peasant Crisis, 1930-1950. Bonfires in the Night, Dublin, Four Courts, 2005. 44 E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 1987, citato ivi, p. 8.

45 «I therefore use the term 'peasant crisis' to denote the usually detrimental impact on peasant society of macro- rather than micro-politcs, of national social, economic and political policies and changes. It follows from this that the novel of peasant crisis will differ from the rural novel in that the former lays considerable stress on the working conditions and lives of the peasantry. The latter does not, although peasants' leisure and private activities may be affected by the environment in which they work […]. I use the term novel of peasant crisis to imply more than an act of depicting decline and disappearance and recording memories. It implies protest and the proffering of alternatives. Novels of peasant crisis are novels of social criticism» B. Moloney, Italian Novels of Peasant Crisis, cit., pp. 20-22.

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segnala Moloney, questi cantori della “crisi contadina”, nel dipingere un contado avverso alle ipocrite e vessatorie politiche ruraliste e portatore di nuovi valori, continuano a richiamarsi agli stereotipi già consolidati sul Sud Italia e corrono così il rischio di alimentare un nuovo orientalismo. Rischio che risulta però sventato – assicura lo studioso – poiché i loro romanzi non rinforzano il senso di superiorità di chi legge, ma, al contrario, lo mettono in discussione. A ben guardare, quello descritto da Moloney ha tutti i tratti di un orientalismo rovesciato, ovvero di una costruzione identitaria che volge la rappresentazione negativa in positivo, esaltando quelle caratteristiche per le quali il Sud è stato a lungo marginalizzato. Lo studioso inglese non arriva ad enunciare l’esistenza di un’identità meridionale che si descrive e si modella in funzione e in risposta a quella settentrionale, eppure nel suo studio è già presente l’intuizione di un discorso del Sud distinto e indipendente da quello del Nord, che lo riscrive e lo ribalta.

Nel 2006, con Race and the Nation in Liberal Italy 1861-1911,46 Aliza Wong riporta

l’attenzione sul razzismo antimeridionale come dispositivo, fra gli altri, per un’inferiorizzazione del Mezzogiorno finalizzata alla costruzione ideale della nazione. La storica americana fa ancora appello alla categoria saidiana di orientalismo, ma nella sua particolare accezione coniata da Milica Bakic-Hayden per la Jugoslavia di “orientalismo nidificato” («nesting Orientalism»)47 e parla, per l’Italia, di auto-alterizzazione interna («internal auto-othering»)48. Wong sostiene in particolare che la componente razzista dell’inferiorizzazione del Sud promossa dall’antropologia positiva abbia coniato il vocabolario con il quale ogni altro discorso della differenza si è andato poi strutturando nella storia italiana. Il linguaggio della diversità meridionale avrebbe quindi informato i successivi dibattiti riguardanti l’emigrazione, il colonialismo, la fisiognomica e più tardi il fascismo e l’antisemitismo, costituendo un importante e pericoloso precedente per le epoche a venire. Il contributo di Wong, in questo senso, apre, in Italia, una vera e propria stagione di riflessioni sulla rappresentazione razziale – anche stimolata dalla progressiva ricezione della Critical Race Theory americana –: una stagione che fa della continuità fra i diversi discorsi razziali italiani la sua marca distintiva e raggiunge la sua acme nei primi anni Dieci del Duemila, andando ad interessare principalmente questa seconda fase del dibattito sul

46 A. Wong, Race and the Nation in Liberal Italy 1861-1911. Meridionalism, Empire and Diaspora, New York, Palgrave Macmillan, 2006.

47 Ivi, p. 6, citando M. Bakic-Hayden, Nesting Orientalism: the Case of Former Yugoslavia, «Slavic Review», 54, 1995, p. 918.

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Mezzogiorno. 49 Degno di nota, in questo frangente, è il lavoro del collettivo Uninomade sul progetto denominato Orizzonti meridiani, responsabile della promozione di varie iniziative e pubblicazioni.Fra queste, possiamo menzionare l’articolo di Anna Curcio, “Un paradiso abitato da diavoli”…o da porci. Appunti su razzializzazione e lotte nel Mezzogiorno d’Italia del 2012.50 Qui la studiosa, citando Fanon,51 spiega come il termine razzializzazione si riferisca ad un preciso dispositivo di frammentazione e gerarchizzazione della forza lavoro costruito sul terreno della razza, un «farsi verbo della razza», quest’ultima intesa non solo come differenziazione biologica ma anche culturale. L’articolo ripercorre le varie tappe del razzismo italiano sottolineando come sin dai suoi esordi antimeridionali esso si sia fatto verbo, rendendo possibile la concreta traduzione nel contesto locale del moderno capitalismo razziale che si stava affermando negli Stati Uniti e in Australia.52 Curcio

propone infine un’estensione e un’attualizzazione del paradigma discorsivo responsabile dell’inferiorizzazione razziale del Meridione all’intera area euro-mediterranea contemporanea, ovvero a quegli stati europei denominati PI(I)GS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, già oggetto di alterizzazione sette-ottocentesca, come abbiamo visto nella ricostruzione di Dainotto), che oggi sono chiamati ad attivare progetti di resistenza, non limitati a un «capovolgimento delle gerarchie»53 o alla «rivendicazione di una specificità»54 all’interno del rapporto Nord-Sud, ma tesi a superare in maniera definitiva la gabbia di questo dualismo. Attraverso un confronto più serrato e militante con le esperienze propriamente coloniali e con il presente capitalistico e neocoloniale, gli storici del razzismo

49 Tale questione viene toccata da molti altri studi che si concentrano maggiormente su altre forme di razzismo. Vedi L. Re, Italians and the Invention of Race: The Poetics and Politics of Difference in the Struggle over Libya, 1890-1913, «California Italian Studies», 1, 1, 2010; T. Petrovich Njegosh, Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia, in T. Petrovich Njegosh, A. Scacchi (a cura di), Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti, Verona, Ombre corte, 2012. Per una rassegna completa sulla razza in Italia vedi G. Proglio, Appunti per una ricostruzione degli studi culturali italiani sulla razza, in G. Giuliani (a cura di) La sottile linea bianca. Intersezioni di razza, genere e classe nell’Italia postcoloniale, «Studi culturali», X/2, 2013, pp. 323-343.

50 A. Curcio, “Un paradiso abitato da diavoli”…o da porci. Appunti su razzializzazione e lotte nel Mezzogiorno d’Italia, Uninomade 2.0, 5/09/2012, http://archivio-uninomade-effimera.euronomade.info/un- paradiso-abitato-da-diavoli-o-da-porci-appunti-su-razzializzazione-e-lotte-nel-mezzogiorno-ditalia-

uninomade/ (ultima consultazione in data 24/01/2021).

51 Cit. da F. Fanon, Razzismo e Cultura (1964) in Id., Scritti Politici (vol 1). Per la rivoluzione africana, Roma, Deriveapprodi, 2006.

52 Caterina Miele approfondisce questi temi sostenendo che l’Italia per prima ha sperimentato, attraverso l’impiego di retoriche razziste, pratiche genocidarie e etnocidarie sul territorio europeo: la repressione del brigantaggio sostenuta dal razzismo antimeridionale avrebbe costituito infatti un laboratorio per le successive forme di violenza perpetrate prima verso i popoli coloniali, poi verso gli ebrei, poi di nuovo in colonia, non seguendo «percorsi lineari» ma confluendo in una «circolazione di discorsi e pratiche». C. Miele, Appunti su razza e meridione, cit.

53 A. Curcio, “Un paradiso abitato da diavoli”, cit. 54 Ibidem.

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arrivano prima degli altri a scorgere nelle rappresentazioni dei meridionali tendenze contrapposte e nelle istanze contestative i rischi di una replica o di un’inversione del discorso centrale, giungendo quindi anche a valicare i limiti del concetto di “auto-orientalismo” per immaginare un contro-orientalismo, altrettanto insidioso.

Ad offrire una prima ricognizione del dibattito e una prima applicazione sistematica al campo letterario del concetto di auto-orientalismo è invece Giuseppe Domenico Basile, con la sua tesi di dottorato completata nel 2013, diretta da Matteo Di Gesù e intitolata Scrivere del Mezzogiorno.55 In sostanziale continuità con le ricerche già intraprese dal suo maestro,56 Basile adotta la categoria di orientalismo per identificare e descrivere la costruzione letteraria di quella geografia immaginaria che ha il Meridione come oggetto. Lo studioso pone al vaglio di una rigorosa analisi lessicale e tematica le opere di Nievo, Bandi, Abba, Verga, Capuana, Serao, Fucini, De Amicis, Silone, Jovine, Alvaro, Borgese, Savarese, Carlo Levi e Pavese. Rifacendosi apertamente alla metodologia di Moe e, per suo tramite, a quella di Said, Basile evidenzia tutti i passi in cui le rappresentazioni prese in esame ricadono in retoriche orientalizzanti, siano esse positive o negative, da ricondursi quindi al campo del «pittoresco» o dell’«antipittoresco». Basile segnala tutti i passaggi in cui il meridionale è descritto come allegro o irrazionale, sensuale, animalesco, individualista, violento, superstizioso, sporco, maleodorante, infetto, riottoso, ignorante, passivo, fatalista, bugiardo, volubile, femmineo, orientale. Si concentra inoltre nelle caratterizzazioni paesaggistiche dove compaiono con insistenza le rovine degli imperi del passato o i tesori archeologici, i castelli incantati, i vulcani, il sole benigno o feroce, il mare calmo o in tempesta, le stelle, i fichi d’india, le piante d’agave, il basilico e le margherite, i garofani o animali come l’usignolo, la mula, l’asino. Registra l’attenzione posta sugli usi e i costumi, sulla curiosità suscitata nel forestiero dai cibi e dalle vesti e rileva la presenza di scenette ricorrenti: quella della festa e dei suoi riti, quella dello sposalizio e del funerale, del gioco del lotto o delle carte, del vicolo e della piazza, delle coltellate tra i fichi d’india, della rivolta. Basile dunque rileva nelle rappresentazioni del Meridione una massiccia presenza di luoghi comuni sempre chiamati a dimostrare l’intrinseca diversità crono-topica del Sud e lo fa in modo puntuale ed

55 G. D. Basile, Scrivere del Mezzogiorno, Processi di auto-orientalism nella Letteratura italiana, 2013 (tesi di dottorato inedita).

56 Basile riprende la riflessione già avviata da Matteo Di Gesù a proposito del processo di orientalizzazione messo in atto nei confronti dell’Italia quale nazione più meridionale d’Europa. Cfr. M. Di Gesù, Fisionomia e confini dell’“umile Italia”. Appunti per una geografia letteraria, in A. Beniscelli, Q. Marini, L. Surdich (a cura di), La letteratura degli italiani. Rotte, confini, paesaggi, Atti del XIV congresso nazionale dell’Associazione degli Italianisti (Genova, 15-18 settembre 2010), Novi Ligure, Città del silenzio, 2012.

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esaustivo. Nondimeno, la sua ricerca presenta vari limiti, ancora derivati da una troppo stretta osservanza delle indicazioni di Said e di Moe: in primo luogo, come Moloney, egli non discerne tra autori meridionali e settentrionali, ma ne analizza la produzione indistintamente attraverso la lente di ingrandimento di Orientalismo; in secondo luogo, si concentra sugli aspetti formali e retorici o sui temi delle opere letterarie, senza andare in profondità nel rilevare quella che è la posizione espressa dall’autore nel testo, quali i rapporti di forza instaurati tra i personaggi (spesso simbolici) della narrazione. Tali mancanze gli impediscono inevitabilmente di notare le differenze tra l’una e l’altra voce, tra quella centrale e quella periferica, quest’ultima impegnata prima nell’emulazione poi nel rifiuto del discorso marginalizzante espresso dal centro. L’anno successivo al completamento del suo lavoro di tesi, Basile ne pubblica il capitolo introduttivo in un volume collettaneo intitolato Identità, migrazione e postcolonialismo in Italia. In questa sede l’autore aggiunge alla sua personale rassegna dello stato dell’arte una riflessione sui possibili risvolti di questo dibattito: «seguendo poi fino in fondo le potenzialità di tale approccio», si potrebbero immaginare – scrive – «percorsi di studio incentrati sulla problematica categoria di auto-postcolonialism che l’altrettanto complesso schema di auto-orientalism sembra evocare».57 E in nota

aggiunge:

Per auto-postcolonialism si dovrebbe così intendere la paradossale situazione delle regioni meridionali dell’Italia che, pur non sottoposte a canonico regime coloniale, nei primi decenni successivi al 1861 hanno vissuto la prospettiva schizofrenica dei rapporti inesorabilmente asimmetrici venutisi a creare tra culture e identità collettive, nonché tra economie del Paese. In questo quadro gli scrittori meridionali impegnati a rappresentare le proprie regioni d’origine durante il fascismo risulterebbero in parte tramortiti da un’insanabile contraddizione, tutta ruotante sul confronto tra la consapevolezza del (peculiare) progresso italiano e il ritorno di un sommerso memoriale, primitivo e mitologico, nel quadro di una dimensione nazionale ritenuta oramai dato acquisito. Tale complesso statuto geoculturale è espresso attraverso figurazioni che pescano da un’idea di Mezzogiorno formatasi negli anni della propria infanzia e rinfocolata dall’esperienza del successivo distacco (viaggi, emigrazione, esilio).58

Il giovane studioso palermitano si avvede dunque delle potenzialità lasciate inespresse dalla sua ricerca e del carattere autonomo e discontinuo, in precedenza trascurato, del discorso letterario periferico, da ripensarsi ora in un’ottica dialogica, o, con le sue parole, in un’ottica “auto-postcoloniale”. Tale intuizione – di una narrativa strutturata come risposta a un’altra narrativa alterizzante proveniente dal centro, suggerita da un lato dallo studio delle

57 G. D. Basile, Said ‘nonostante Said’: il dibattito sull’‘Orientalism in one country’ e i processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano, in B. Brunetti, R. Derobertis (a cura di), Identità, migrazione, postcolonialismo in Italia, Bari, Progedit, 2014, p. 107.

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espressioni culturali italiane, non riducibili al semplice orientalismo, dall’altro dalla sovrapposizione del dualismo nostrano a quello coloniale –, già latente a quest’altezza del dibattito, costituirà la novità della più recente critica sull’argomento.