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Alle origini del dibattito: orientalismi, pregiudizi e stereotipi

Ad inaugurare il dibattito sulle implicazioni culturali del rapporto asimmetrico tra Nord e Sud Italia, come si è già in parte anticipato, è Nelson Moe. Lo studioso, nel 1992, in un articolo intitolato «Altro che Italia!» Il Sud dei Piemontesi (1860-61) e pubblicato sul fascicolo di «Meridiana» dedicato al Mezzogiorno in idea, interpreta in maniera alterizzante12 lo scambio epistolare fra Cavour e i suoi generali di stanza in Meridione durante la guerra al brigantaggio. Il titolo riporta l’esclamazione con cui esordisce Luigi Carlo Farini, capo amministratore del Sud durante i primi mesi del controllo piemontese, in una lettera del 27 ottobre 1860 indirizzata a Cavour: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile. E quali e quanti misfatti!».13 Il critico statunitense passa in rassegna numerosissime testimonianze di questo tenore, mettendo in evidenza come le descrizioni del Mezzogiorno siano contraddistinte da una struttura «binaria»,14 che sempre contrappone, in modo più o meno esplicito, la civiltà e il progresso

del Nord Italia alla barbarie e all’arretratezza del Sud. Moe dimostra inoltre come tali lettere vadano ad assumere via via carattere sempre più persuasivo o addirittura direttivo, con esortazioni di pertinenza militare che culminano nella lettera di Bixio del 1861: «Fate ritirare

12 «Farini probabilmente ci fornisce la più concisa espressione del contrasto fra il Sud barbarico e la civilizzata Italia (settentrionale), rispettivamente connotati qui in termini di Africa e il suo implicito Altro, l’Europa» N. Moe, «Altro che Italia!», cit., p. 65.

13 Carteggi del Conte di Cavour, citati ivi, p. 64. 14 N. Moe, «Altro che Italia!», cit., p. 64.

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i cannoni dalla Grand Gard e che Nigra non scordi che i napoletani sono degli orientali, non capiscono altro che la forza».15 L’associazione di Napoli – sineddoche dell’intero Regno delle due Sicilie e del Sud – all’Oriente o all’Africa, l’argomento dell’inciviltà, della disumanità e al contempo quello della passività e della mancanza di coraggio dei suoi abitanti, sono temi ricorrenti attraverso i quali questi testi, secondo Moe, «influiscono direttamente sulla realtà alla quale si riferiscono, la dirigono, l’amministrano, la controllano».16 Pur non enunciando esplicitamente la tesi di un orientalismo italiano, Moe ne getta i presupposti, evidenziando la stretta relazione esistente tra l’immagine che in questi carteggi viene data dei meridionali e la politica militare adottata dalla neonata nazione, che si traduce in guerra civile e stato d’assedio. Non è un caso che lo studioso americano venga citato in tutti i contributi successivi come caposcuola dell’applicazione italiana del paradigma culturale coloniale, sebbene nel suo saggio sia già presente il richiamo agli studi di John Dickie,17 il quale, quello stesso anno completa, sotto la direzione di David Forgacs, una tesi di dottorato dal titolo The Other Italy 1860-1900. Nationalism and Ethnocentrism in Representations of the Mezzogiorno, parzialmente pubblicata in forma di articoli negli anni successivi e come volume unitario nel 1999. Alcuni risultati della ricerca, in realtà, avevano già visto un primo sbocco editoriale nel 1991, in un articolo intitolato Una parola in Guerra: l'esercito italiano e il “brigantaggio” (1860–1870). In questa sede, l’autore aveva analizzato la costruzione della figura del brigante quale alterità assoluta, indegna di qualsiasi pietà, e l’aveva contestualizzata all’interno di una più ampia invenzione del Mezzogiorno quale alter e nemico della nazione italiana. 18

È importante notare come, già in questi studi inaugurali, venga sollevata la questione “saidiana” della partecipazione periferica al discorso alterizzante del centro. In particolare, Nelson Moe sottolinea come alla diffusione dell’immagine deformante del Sud abbiano contribuito gli stessi meridionali, e su tutti quelle élites e quegli intellettuali esiliati in Piemonte dopo la repressione del 1848 e perciò severi critici del regno borbonico.19 Il ruolo

15 Carteggi del Conte di Cavour, citati ivi, p. 57. 16 N. Moe, «Altro che Italia!», cit., p. 57. 17 Ivi, p. 70.

18 J. Dickie, Una parola in Guerra: l'esercito italiano e il “brigantaggio” (1860–1870), «Passato e presente», 10 (1991), pp. 53–74.

19 Gli intellettuali napoletani, già non integrati con la plebe, e, piuttosto, isolati nei loro studi che aspirano a spiccare il volo e ad acquisire carattere europeo, una volta esiliati dai Borboni, trovano finalmente nel Piemonte sabaudo una dimensione di valorizzazione anche internazionale. Le loro idee fanno presto ad uniformarsi al sogno di un’unità nazionale sotto la corona dei Savoia e la loro opinione sul regime borbonico, che li ha imprigionati e confinati, si uniforma immediatamente a quella ormai celeberrima espressa dalle Lettere al

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giocato dagli esuli napoletani sarebbe stato poi esaminato più estesamente in un contributo storiografico poco posteriore a quello di Moe: Come il Meridione divenne una questione di Marta Petrusewicz.20

Nel 1993 Vito Teti pubblica La razza maledetta. Origini del pregiudizio meridionale, un’antologia ragionata di brani tardo ottocenteschi e primonovecenteschi inerenti le teorie dell’antropologia positiva sulla differenza razziale fra Nord e Sud Italia. Nel volume sono raccolti gli scritti di autori come Giuseppe Sergi, Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Pasquale Rossi, Napoleone Colajanni, Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato e Ettore Ciccotti. Nell’introduzione alla prima edizione – il libro sarà infatti ripubblicato venti anni più tardi e aperto da una premessa attualizzante, con riferimenti a un presunto passato coloniale e al presente separatista fra rivendicazioni leghiste e neoborboniche –, Teti non cita e non sembra conoscere il lavoro di Moe. Parla però, in perfetto accordo con le ipotesi dell’americano, di «invenzione del meridione come luogo omogeneo e compatto dell’alterità».21 Nella storia pre e postunitaria riconosce il formarsi di una costruzione

discorsiva estremamente duratura, nell’ambito della quale la teoria positivista, il mito della «razza maledetta», o «romanzo antropologico» del razzismo antimeridionale, come lo definisce riprendendo le parole di Colajanni, appare solo come un momento di una più complessa stereotipizzazione del Sud. Esso affonda le sue radici nelle immagini dei viaggiatori, nelle tipizzazioni regionali postunitarie e nelle analisi dei meridionalisti, per poi alimentare, cristallizzare e avvalorare con le sue argomentazioni pseudoscientifiche altri insidiosi pregiudizi:

L’ideologia positivista influenzava le relazioni e gli interventi dei magistrati, le concezioni dei medici, il pensiero degli intellettuali periferici; forniva spiegazioni di comodo alla politica di controllo e di repressione, offriva ai «razzisti» di oltreoceano argomentazioni per spiegare la «criminalità» degli emigrati, influenzava il linguaggio degli inviati dei giornali nazionali, alimentava risposte risentite e “difensive” presso le più anguste élites locali, condizionava, sia pure per reagire, le impostazioni, e la scrittura dei meridionalisti. La teoria delle «due razze», delle «due Italie», una inferiore e una superiore, una criminale e una civile, una rozza e una moderna, per quanto ardita e fantasiosa, diventa, a partire da Niceforo, una teoria da accettare o da contrastare, di cui comunque tenere conto.22

Conte di Aberdeen di Gladstone: «La negazione di Dio eretta a sistema di governo» cfr. G. Massari, Il signor Gladstone ed il governo napoletano, Raccolta di scritti intorno alla questione napoletana, Torino 1851. 20 M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Soveria Mannelli, Rubettino, 1998.

21 V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma, Manifestolibri, 2011, p. 52. 22 Ivi, p. 82

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L’idea dell’inferiorità razziale dei meridionali, assorbita nei più disparati contesti, risponde, secondo Teti, ai progetti di potere e al dominio di classe descritti da Gramsci. Usando le sue parole, Teti parla di un’unità avvenuta «come egemonia del Nord sul Mezzogiorno»23 e di

uno sfruttamento economico che trova legittimazione e giustificazione proprio nelle teorie dei positivisti, con il beneplacito di socialisti ed élites meridionali. Qui Teti approfondisce l’argomento già proposto da Moe della complicità della classe intellettuale e borghese del Sud nella diffusione del discorso della differenza promosso dal Nord, funzionale al mantenimento dei quadri di potere e al contempo a un’autoassoluzione per la mancata “rincorsa” sulla via del progresso del Settentrione, ai fini del quale il Meridione veniva considerato una «palla di piombo». Quest’ultima espressione di Gramsci sarà usata più tardi in una monografia di Antonino De Francesco del 2012 intitolata appunto La palla al piede. Storia del pregiudizio antimeridionale,24 in cui viene particolarmente approfondita la pista

dei processi giudiziari e della loro risonanza mediatica, già accennata da Teti nell’introduzione limitatamente al caso del brigante Musolino. Molte delle idee espresse ne La razza maledetta, come si è detto per quelle avanzate nell’articolo di Moe, proprio per il loro carattere inaugurale e per questo ancora aurorale, saranno poi sviluppate da altri studiosi negli anni successivi.

Nel 1997 esce il già menzionato The New History of the Italian South,25 ripubblicato in italiano nel 1999 con il titolo Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia.26 Nella versione italiana la sezione dedicata alla decostruzione delle immagini del

Mezzogiorno è arricchita di un intervento firmato da Moe incentrato sulle opere di Giovanni Verga, poi confluito nella sua opera maggiore del 2002. Già presente nell’edizione inglese è invece un intervento di John Dickie sugli Stereotipi del Sud Italia – che troverà spazio, anch’esso, nel suo volume monografico che affronteremo fra breve –, nonché un articolo di Gabriella Gribaudi intitolato Le immagini del Mezzogiorno. Qui, dopo una sintetica ma acuta ricostruzione “per immagini” della questione meridionale, l’autrice porta esplicitamente l’attenzione sul ruolo che essa ha giocato nel progetto di nation building italiano: «Il Sud è molto più di un campo geografico. È una metafora che rimanda a un’entità mitica e immaginaria, infernale e paradisiaca allo stesso tempo: luogo dell’anima o luogo del male

23 Ibidem.

24 A. De Francesco, La palla al piede. Storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 2012. 25 R. Lumley, J. Morris (a cura di), The New History of the Italian South. The Mezzogiorno Revisited, Exeter, University of Exeter press, 1997.

26 R. Lumley, J. Morris (a cura di), Oltre il meridionalismo: nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, Roma, Carocci, 1999.

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che prende vita a ogni latitudine, ma che in Italia ha potuto incarnarsi in una parte del territorio divenendo uno dei miti costitutivi della nazione».27

Solo un anno più tardi, nel 1998, con Italy’s “Southern Question”. Orientalism in One Country,28 otteniamo la prima chiara formulazione della sovrapponibilità fra il paradigma orientalista e la questione meridionale. Il richiamo a Said, palesato già nel titolo, viene motivato nell’introduzione dalla curatrice Jane Schneider:il volume si propone di tracciare la storia di un’impalcatura stereotipica che è diventata, col tempo, una «everyday symbolic geography»,29 valida tanto per il Sud quanto per il Nord. Il grande merito della raccolta è che, a quest’altezza del dibattito, è già in grado di offrire diverse prospettive di analisi stimolanti distribuite su un arco temporale relativamente ampio. Di massimo interesse è, inoltre, l’applicazione del paradigma orientalista, non solo alla storia e alla cultura italiana tout court, ma anche, finalmente, in modo mirato, alla letteratura: nel libro compaiono infatti i primi articoli di ambito propriamente letterario: Homo Siculus: Essentialism in the Writing of Giovanni Verga, Giuseppe Tomasi di Lampedusa and Leonardo Sciascia di Rosengarten e Re-writing Sicily: Postmodern Prospectives in cui Dombroski analizza le opere di Consolo e Bufalino. Il volume della Schneider si caratterizza per un approccio plurale e variegato al paradigma saidiano, che, più che comune indirizzo metodologico, diventa sfondo o limite a cui tendere in una lettura ancora aperta delle rappresentazioni del Sud. Significativa in questo senso è la riflessione proposta da Pandolfi nelle conclusioni. La studiosa afferma che il paradigma orientalista italiano, a differenza di quanto accade negli esempi propriamente coloniali, prevede la strutturazione di un dualismo e di una costruzione dell’alterità che devono in ultima istanza ricondursi a una sola identità nazionale. Ipotizza quindi che il processo identitario italiano non si sia fondato su un orientalismo vero e proprio, ma su un «auto-orientalism».30 Non diversamente da quanto già affermato da Gribaudi, sarebbe stato il riconoscimento della differenza, ricondotta al dualismo geografico, ad aver permesso la costruzione di una nazione unitaria, il paradosso della «failed national identity» ad aver fondato, e a rifondare periodicamente, l’identità italiana. Al fine di una più salda unità identitaria, si sarebbero ricondotte al peccato originale della rivoluzione mancata – sempre e solo al Sud –, tutte le varie crisi del Paese. Si sarebbe attivato così una sorta di processo

27 G. Gribaudi, Le immagini del mezzogiorno, Ivi, p. 89-111: 90.

28 J. Schneider (a cura di), Italy's “Southern Question”: Orientalism in one country, Oxford-New York, Berg, 1998.

29 Ivi, p. 1.

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catartico, che, oltre a impedire una visione contestualizzata della storia, anestetizzasse, e quindi anche neutralizzasse, le spinte anti-sistema.

Nel 1999 viene finalmente dato alle stampe Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno,31 che rimane ancora oggi uno degli studi più ricchi e interessanti sull’argomento, da una parte per via del suo statuto multidisciplinare, dall’altra per l’approccio prediletto. John Dickie, infatti, prende chiaramente le distanze dall’uso, secondo lui superficiale e forzato, del concetto di orientalismo, non solo per quanto riguarda le sue applicazioni italiane, delle quali pure si dice insoddisfatto,32 ma anche e soprattutto per quel che concerne le teorie saidiane, che giudica insufficienti al fine di spiegare l’interazione fra imperialista e colonizzato.33 Al posto della categoria di orientalismo, Dickie preferisce

utilizzare quella più fluida di “stereotipo”, collocandosi così nel più generico campo dell’imagologia, che pure incrocia con la prospettiva coloniale. Egli infatti impiega il concetto di stereotipo nella sua accezione bhabhiana e lo considera come il frutto di un compromesso fra istanze distanziatrici. Intermediari fra realtà diverse e difficilmente assimilabili, a suo avviso, gli stereotipi sarebbero alla base del processo identitario italiano e sarebbero in definitiva da ascriversi a un progetto unitario della nazione. In ciò lo studioso sembra porsi in continuità e portare alle ennesime conseguenze le conclusioni di Gribaudi e di Pandolfi. A onor del vero, sull’internità di tali fissazioni rispetto alle dinamiche di costruzione nazionale, l’accademico si era già espresso in Oltre il meridionalismo, con parole che richiamano alla mente le tesi di Lotman enunciate nel precedente capitolo: «Il nazionalismo implica la costante rinegoziazione di identità individuali e collettive […] il suo grande potere può in definitiva poggiare solo sulla differenziazione letteralmente precaria tra amico e nemico, Sé e Altro».34 In questo nuovo contributo Dickie argomenta più estesamente la sua ipotesi, spiegando come gli stereotipi sul Sud siano parte integrante di quel progetto reso celebre dall’esortazione di D’Azeglio - «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani!»35 – e afferma come la rappresentazione del Mezzogiorno è, a tutti gli effetti, una forma di nazionalismo, che, come ogni forma di nazionalismo, ha carattere normativo ed esclusivo. Sono affermazioni che in parte troveremo sviluppate

31 J. Dickie, Darkest Italy: the Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno 1860-1900, New York, St. Martin’s Press, 1999.

32 Dickie liquida Italy's “Southern Question” come «a recent interpretation of representations of the Mezzogiorno based on an uncritical transposition of Said's thesis into the Italian context», ivi, p. 69.

33 Ivi, p. 68.

34 Id., Stereotipi del Sud d’Italia 1860-1900 in R. Lumley e J. Morris (a cura di), Oltre il Meridionalismo, cit, p. 118.

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nell’opus magnum di Moe, il che rende evidente come i due studiosi abbiano lavorato in parallelo sui vari aspetti della rappresentazione meridionale, anche per quel che concerne i corpora esaminati. Gli stereotipi analizzati da Dickie, nello specifico, sono quelli presenti nella rivista milanese «Illustrazione italiana» – anche oggetto degli studi di Moe –, quelli sulla deviazione patologica della razza meridionale, quelli mitico-leggendari del brigante meridionale e della figura di Crispi. Sebbene siano molti i punti di contatto con le ricerche dell’accademico americano, Dickie ne supera la prospettiva, accantonando il paradigma orientalista e valorizzando una più generica dialettica centro-margine. Lo studioso descrive infatti una contrattazione di senso fra le due parti in causa che si risolve in fissazioni ambigue. Egli attribuisce il carattere oscillatorio di tali fissazioni proprio alle interazioni da parte del margine: lo stereotipo per Dickie è frutto di un compromesso fra ciò che ci inquieta e ciò che ci consola del diverso da noi, si pone quindi tra il mondo settentrionale e quello meridionale come mediazione di relazioni ed ha come fine ultimo una maggiore compenetrazione delle differenze. Quella che descrive è una strategia unitaria etnocentrica messa in moto dall’incontro fra le due identità culturali, tale per cui le espressioni dell’alterità si presenterebbero al lettore inoffensive e in pratica già risolte. Tuttavia, tale configurazione ambivalente dell’immagine stereotipata, a nostro avviso, non è necessariamente frutto di uno scambio mutualistico fra i due soggetti del dialogo. Dickie, in questo senso, pur avendo riconosciuto il limite di Orientalismo e di quegli studi che ne hanno applicato lo schema al caso italiano, e pur avendo meritoriamente tentato di rilevare il ruolo del soggetto meridionale nell’immaginario che lo riguarda, non ha superato i limiti della prospettiva saidiana. Influenzato dal concetto bachtiniano di ibrido, che gli deriva sempre da Bhabha, Dickie immagina una contrattazione al confine, in cui immagini positive mitigano l’opinione negativa al fine di stabilire un equilibrio, seppur asimmetrico, fra i due soggetti del dialogo. Per quanto l’analisi di Dickie sia condivisibile, a nostro modo di vedere, la ricerca di un equilibrio da parte delle due personalità culturali coinvolte non è assimilabile né sinergica. Non esiste un solo discorso ambivalente generatosi al confine tra i due sistemi segnici, ma due discorsi: uno orientalista, responsabile dell’invenzione e della proiezione, insieme positiva e negativa o incongrua – lo spaventapasseri –, sul soggetto meridionale; l’altro periferico, che da principio interiorizza l’immagine orientalista per poi respingerla e crearne una propria. Quest’interazione non si configura perciò come perfettamente consentanea: dall’immagine proveniente dal margine emerge infatti una resistenza non assimilazionista. Tale dialettica inoltre non si attesta sul confine ma coinvolge e definisce in

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profondità le due identità dialoganti, dando luogo a coscienze culturali autonome e in costante evoluzione.

Il primo vero e proprio contributo monografico sull’orientalismo italiano è del 2002 e si intitola The View from Vesuvius. Italian Culture and Southern Question,36 tradotto in italiano due anni più tardi come Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno.37 In questo libro, Nelson Moe propone un’applicazione sistematica dell’insegnamento saidiano e lo fa attraverso un approccio plurale, tipico degli studi culturali. Il libro recupera integralmente i contributi già pubblicati: quello relativo alla campagna militare nel Sud degli anni 1960-61 di cui si è ampiamente discusso, quello relativo alla rivista «Illustrazione italiana» e alle opere di Verga, comparso nella versione italiana del volume di Lumeley e Morris e quello relativo alle opere di Villari, Franchetti e Sonnino, inserito in Italy’s “Southern Question”. La sezione inedita è invece quella iniziale, dedicata all’immaginario europeo intorno all’Italia e poi all’immaginario europeo e italiano intorno al Meridione nel XVIII e nel XIX secolo. Lo studioso, dopo aver passato in rassegna i testi in cui è l’Italia ad essere identificata con il Sud, pittoresco e arretrato, dimostra con altrettanti documenti lo slittamento geografico di questa immagine negativa sul Meridione. A questa disamina, che occupa buona parte del volume, segue l’analisi della pubblicistica preunitaria, la quale intraprende un’opera sistematica di rappresentazione ed esplorazione della penisola, al fine di una più estesa conoscenza del territorio e della popolazione che la compone. Tutte queste rappresentazioni sono strutturate, non solo dall’affermarsi del nazionalismo, ma anche dallo sviluppo della borghesia, in particolare in Toscana, Lombardia e Piemonte; lo stesso Risorgimento, spiega Moe, è una rivoluzione di stampo borghese, oltre che un moto indipendentista: le rappresentazioni del meridione vanno quindi interpretate alla luce della convergenza di queste due dimensioni sociali. Lo studioso analizza poi, negli ultimi tre capitoli, tre diverse modalità di rappresentazione sviluppatesi nei primi anni ‘70: il pittoresco che connota le immagini dell’«Illustrazione italiana», l’antipittoresco dei rapporti meridionalisti sulle condizioni del Sud e la narrativa verghiana come punto di incontro e di scontro delle due precedenti prospettive. Restando al primo di questi aspetti,