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4.4 Così parlò il demone della stirpe: La figlia di Iorio

4.4.1 La genesi e la trama dell’opera

D’Annunzio scrive La figlia di Iorio in poco più di un mese, dal luglio all’agosto 1903, durante un soggiorno con Eleonora Duse nella Villa Borghese tra Anzio e Nettuno, come si rileva dall’autografo di prima stesura: «Atto primo: 18-31 luglio; Atto secondo: 3-16 agosto; Atto terzo 22-29 agosto». Antonio Bruers scopre però, negli archivi del Vittoriale, una decina di fogli di appunti relativi ad un primo e ad un secondo atto, che retrodatano al 1899 la prima redazione del soggetto.74 Qui lo scenario è solo agricolo, senza alcuna incursione pastorale,75 e rispetto all’edizione del 1903 sono presenti notevoli diversità sia nei nomi dei personaggi che nella vicenda narrata. Scopriamo quindi che l’idea dell’opera vive già da tempo nella mente del poeta; in effetti del 1895 è il famoso quadro del Michetti con lo stesso titolo, quadro che, stando ad una precisazione del poeta, ha la medesima fonte di ispirazione della tragedia: l’episodio della «donna urlante […] inseguita da una torma di mietitori imbestiati dal sole, dal vino e dalla lussuria»,76 cui i due amici assistono insieme nella piazzetta di Tòcco Casauria. Quello della Figlia, dunque, è un progetto di lungo corso, che subisce numerose variazioni, anche nel titolo: nel 1901 i giornali letterari annunciano la prossima uscita di una tragedia chiamata I figli della terra, parte di una ideale trilogia con La fiaccola sotto il moggio e Il dio scacciato, o di un più ambizioso ciclo costituito di cinque tragedie, con l’aggiunta di Primavera Sacra e di Giosìa Acquaviva. Di queste opere, come sappiamo, l’autore realizzerà e porterà in scena solo La fiaccola sotto il moggio e la Figlia

74 Il primo abbozzo della tragedia fu trovato da Antonio Bruers nel 1939 negli archivi del Vittoriale tra gli appunti lasciati dal d’Annunzio: in una decina di pagine viene elaborata la trama della tragedia, che differirà notevolmente da quella definitiva. Gli appunti furono pubblicati dal Bruers ed ora compaiono nel suo volume A. Bruers, Nuovi saggi dannunziani, Bologna, Zanichelli, 1942. Vedi P. Valesio (a cura di), D'Annunzio a Yale. Atti del Convegno, Yale University, 26-29 marzo 1988, Quaderni dannunziani, 3-4, 1988, p. 333. Inoltre, nel 1899 Rolland incontra d’Annunzio a Zurigo e, a proposito del loro colloquio, appunta che il poeta, terminato il Fuoco, si sta dedicando alla scrittura delle Laudi e alla conclusione delle Vergini delle rocce, ma che ha anche in programma due drammi: la Francesca da Rimini e La figlia di Iorio. Cfr. G. Tosi, D’Annunzio visto da R. Rolland. Con documenti inediti (1), «Il Ponte», XIX, 1963, pp. 339-62: 349.

75 L’inserimento dell’ambientazione pastorale, con ogni probabilità, avviene a ridosso della stesura: infatti l’autore confida a De Amicis di essere all’opera con «una tragedia rustica d’argomento abruzzese» nel 1902 e nel 1903 scrive a Pascoli: «buona carte su cui scrivere la mia tragedia pastorale». Cfr. E. Mariano, Il primo autografo della “Figlia di Iorio” in E. Tiboni, La figlia di Iorio: atti del VII Convegno di studi dannunziani, Pescara, 24-26 ottobre 1985, Pescara, Fabiani, 1986, p. 13.

76 cfr. F. Surico, Ora luminosa. Le mie conversazioni letterarie con G. d’Annunzio, Roma, Urbs, 1939, pp. 39- 40. Cfr. G. Papponetti, Michetti, De Nino e i vari luoghi de ‘La figlia di Iorio’, «Rassegna dannunziana», 46, 2004, pp. 9-14.

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di Iorio. Quest’ultima viene rappresentata per la prima volta il l2 marzo 1904 al Teatro Lirico di Milano, con un allestimento scenico basato su bozzetti di Michetti e con una minuziosa cura nei costumi e negli arredi, in parte acquistati originali in Abruzzo.77 La prima riscuote un trionfale successo, confermato il giorno seguente dalla critica, e subito dopo la rappresentazione viene messo in vendita il volume stampato dai fratelli Treves e illustrato con xilografie di Adolfo De Carolis.

Il testo de La figlia di Iorio è aperto da una dedicatoria con la quale il poeta offre il “suo” «canto dell’antico sangue» ai soggetti che lo hanno ispirato:

ALLA TERRA D’ABRUZZI

ALLA MIA MADRE ALLE MIE SORELLE AL MIO FRATELLO ESULE

AL MIO PADRE SEPOLTO A TUTTI I MIEI MORTI A TUTTA LA MIA GENTE FRA LA MONTAGNA E IL MARE QUESTO CANTO

DELL’ANTICO SANGUE CONSACRO 78

La nota è molto significativa per corroborare un’interpretazione biografica della produzione dannunziana, già accennata parlando delle altre opere e in particolare del Trionfo. Non è un caso infatti che le sorelle di Aligi siano tre, come le sorelle del poeta, che Aligi si allontani dalla casa paterna per poi farvi ritorno, che una donna determini il protrarsi della sua permanenza al di fuori della comunità e che il padre muoia: tutte corrispondenze che ci inducono a leggere l’opera come una trasfigurazione simbolica della realtà biografica del nostro. La trasformazione in simbolo giustifica inoltre l’elevazione delle vicende in una dimensione quasi atemporale. Un’iscrizione infatti è posta in esergo alla tragedia: «Nella terra d’Abruzzi, or è molt’anni».79 Tale indicazione, se da una parte colloca il dramma in

uno spazio ben riconoscibile, per quanto non puntualmente circoscritto – non è specificato il nome del villaggio interessato dall’azione, ma numerosi altri toponimi compaiano nel testo

77 Ci sembra opportuno per la nostra analisi citare anche la rappresentazione scenica del 1934 al Teatro Argentina di Roma a cura di Luigi Pirandello. L’autore siciliano si interessa a questo testo per le implicazioni simboliche, riscoprendovi una sorta di epos nazional-popolare. Le scenografie sono per l’occasione progettate da De Chirico, che immerge la vicenda in un ambiente di favola metafisico. Sarebbe interessante studiare la trasposizione pirandelliana del dramma per verificare una possibile comunanza di intenti nella rappresentazione identitaria del Meridione d’Italia che potrebbe aver determinato la stessa predilezione del drammaturgo agrigentino per questa specifica opera del d’Annunzio, autore con il quale, come è noto, non sempre ha intrattenuto pacifici rapporti.

78 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, cit., p. 765. 79 Ivi, p. 766.

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– dall’altra lo situa in un tempo che è, invece, indeterminato, o meglio in una dimensione passata indefinita e perciò quasi fuori dal tempo e archetipica. Tuttavia, una seconda e ben precisa indicazione temporale ci viene fornita dalle sorelle di Aligi all’inizio del primo atto: è la vigilia di San Giovanni. Ricorrenza, quest’ultima, che nulla dice sulla collocazione dell’evento nella linea del tempo storico ma molto dice invece sulla sua collocazione nell’anno rituale, nel tempo ciclico proprio della civiltà contadina, da sempre scandito da riti e celebrazioni in cui feste cristiane si innestano su antiche feste pagane senza soluzione di continuità. Innumerevoli sono le credenze e le superstizioni legate alla notte di San Giovanni, non solo nella tradizione italiana ma anche in altre tradizioni europee. In questa data, che corrisponde al solstizio d’estate, è ambientata anche l’opera di Shakespeare Sogno di una notte di mezza estate, già fonte dannunziana per il ciclo tragico dei Sogni. Sul significato antropologico di questa ricorrenza torneremo fra breve, basti per ora dire che, come diversi proverbi popolari ancora oggi attestano, ad essa sono associati importanti momenti della vita contadina: «La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco» recita un proverbio a sfondo religioso diffuso in molte zone d’Italia. Infatti, nella tragedia, in questo giorno si svolge nei campi la mietitura e nella casa si celebrano le nozze di Aligi e Vienda con un articolato rito legato al frumento, nel corso del quale la madre spezza il pane sul capo degli sposi mentre le donne lo cospargono di grano. Un dialetto istriano dice invece: «San Giovanni col su’ fogo el brusa le strighe, el moro, e ‘l lovo» (San Giovanni con il suo fuoco, brucia le streghe, il moro ed il lupo). Il proverbio rileva l’usanza antica di accendere in questo giorno i fuochi, utili per allontanare la sfortuna e i contagi. Ma il fuoco porta anche memoria della pira sulla quale lo straniero, la strega e il lupo (o il licantropo), minacce per la comunità vengono arsi vivi nelle storie più o meno leggendarie della cultura tradizionale. Si tratta di quelle figure metamorfiche o magiche che abitano il confine tra due mondi, già indicate da Lotman come «degradati» o «barbari», proiezioni di un’interazione culturale sentita come pericolo o fonte di rinnovamento per la semiosfera. Non appare casuale, allora, che proprio in questo giorno, mentre nella pace della casa di Lazaro di Roio, fra i gioiosi canti delle sorelle, sta per svolgersi il rito delle nozze frumentarie, irrompa all’improvviso una donna straniera, figlia di un mago e «magalda» ella stessa. Si tratta di Mila di Codra, donna dalla cattiva fama, reietta della società, costretta alla fuga per evitare le molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. Essi, in questo particolare momento dell’anno, in occasione della mietitura, sono autorizzati da una consuetudine contadina a fare la cosiddetta

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«incanata»,80 ovvero ad offendere e assalire lo straniero di passaggio nei campi. I mietitori sono colti, ci dice «la sconosciuta»,81 dal «demonio di mezzodì»,82 il demone meridiano, un’altra delle figure di doppia tradizione, popolare e colta, portatore di eccezionali epifanie, rivelazioni e stati di incoscienza, come in questo caso. La fuga della straniera impedisce però che abbia luogo l’aggressione, parte integrante del rito liberatorio, e ostacola quindi la regolare ripresa delle attività e dell’armonia della comunità. Queste ultime saranno ristabilite alla fine, con la morte di Mila, bruciata come una strega sul rogo. L’arrivo della straniera e le vicende che ne conseguono sono già tutte presagite nel disegno scolpito dal personaggio di Aligi sulla mazza del pastore, in un tempo anteriore a quello dell’azione, di cui non sembra però portare memoria. Al momento dell’irruzione della donna nella dimora consacrata, Aligi infatti si trova in uno stato confusionale e dall’inizio del dramma sembra turbato da strane sensazioni e presagi. Egli, invero, fa rientro nella sua casa dopo lungo tempo, il padre lo aveva mandato sulla montagna quando era ancora un ragazzo: «Io ho mietuto all’ombra del suo corpo / prima ch’io fossi cresimato in fronte, / quando il mio capo al fianco gli giungeva. / La prima volta mi tagliai la vena / qui dov’è il segno. Con le foglie trite / fu ristagnato il sangue che colava. / “Figlio Aligi” mi disse “figlio Aligi, / lascia la falce e prenditi la mazza; / fatti pastore e va su la montagna”. / E fu guardato il suo comandamento».83 L’allontanamento è deciso in base a ragioni che non sembrano legate all’incapacità di Aligi: egli, infatti, come si dice poco oltre, ha vinto la gara del solco diritto, già menzionato torneo campestre celebrato in onore della Madonna della Neve, in cui l’agricoltore dà prova della sua forza e della sua perizia. Disceso dalla montagna e attraversato il fiume che la separa dalla pianura, è come se Aligi si risvegliasse da un lungo sonno e parlasse trasognato, quasi in preda a una possessione «sciamanica» come rileva Bruers.84 La madre così gli si rivolge: «Àlzati, figlio. Come strano parli! / La tua parola cangia di colore, / come quando l’ulivo è sotto il vento. / […] Il sogno incubo forse ti fu sopra?».85 Fatto ritorno nel villaggio, Aligi si sente quasi uno straniero in casa propria e non riconosce neppure le tradizioni della sua gente. Candia gli chiede «Perché domandi, se tu sai l’usanza?» e Aligi le risponde: «Madre, madre, dormii settecent’anni, / settecent’anni; e vengo di lontano. / Non mi ricordo più della mia culla».86 Cionondimeno, quando la straniera entra in casa e viene soccorsa da Ornella, Aligi

80 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, cit., p. 775. 81 Ivi., pp. 785-790.

82 Ivi, p. 790. 83 Ivi, p. 773.

84 A. Bruers, Nuovi saggi, cit., p. 7.

85 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, cit., p. 773. 86 Ivi, p. 776.

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presta ascolto all’esortazione delle parenti e l’afferra per scacciarla, salvo poi essere fermato dalla visione dell’angelo muto che lo ammonisce. Convinta la superstiziosa comunità del pericolo di offendere la sacralità del focolare, presso il quale l’“ospite” protetta da Dio si è rifugiata, egli conduce Mila in salvo e si dirige verso la montagna. Nel secondo atto ritroviamo Mila e Aligi sul monte, dove vivono assieme nella caverna del pastore. Aligi scolpisce una statua lignea dell’angelo muto, che intende portare a Roma dal Papa per invocare la dispensa che lo sciolga dal matrimonio con Vienda e gli consenta di unirsi a Mila. La loro convivenza infatti sembra essere esente dal peccato e la montagna sembra aver rigenerato e portato a una rinascita anche Mila, donna dai costumi corrotti. Secondo Aligi la purezza del loro amore è segno della benedizione di Dio. Indecisi sul da farsi, chiedono allora aiuto a Cosma, santone della montagna, il quale consiglia ad Aligi di consultare la sua stirpe:

COSMA: Pastore Aligi, tu hai certo accesa una làmpana pia nella tua notte

ma tu l’hai posta in luogo di quel termine antico che inalzarono i tuoi padri.

Tu rimosso hai quel termine sacrato. E se questa tua làmpana si spegne? Il consiglio nel cuor dell’uomo è un’acqua profonda; e l’uomo pio l’attignerà. […] Prima che tu prenda

la via nova, considera la legge. Chi perverte la via, sarà fiaccato. Guarda il comandamento di tuo padre. Segui l’insegnamento di tua madre. Tienli sempre legati in sul tuo cuore. E Dio guidi il tuo piè, che non sia preso nei lacci e non incappi nella brace.

ALIGI: Cosma, hai tu bene udito? Io sono puro. Non mi contaminai ma ebbi fede.

Hai bene udito i segni che l’Iddio altissimo ha mandati verso me?

Attendo quel che è giusto, e mi mortifico. COSMA: Io te lo dico: Interroga il tuo sangue, prima di condur teco la straniera. […]

ALIGI: Vengo, ti seguo, ché tutto non dissi... MILA: Aligi, è vero: tutto non dicesti! Va sul cammino e cerca del crocifero e pregalo che porti la parola.87

In questo passaggio si comprende che Aligi e Mila non sono stati completamente sinceri sulla purezza della loro unione e nel momento in cui Aligi si allontana per raggiungere il

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crocifero, raccomandando a Mila di non far spegnere la lanterna, la situazione precipita. Saputo da Ornella lo stato penoso in cui versa la famiglia di Aligi dal giorno di San Giovanni, Mila decide di fuggire per indurre il giovane a tornare a casa, ma viene fermata dall’arrivo di Lazaro, il padre di Aligi, il quale cerca di sedurla con la forza. Nel frattempo, torna Aligi, che dapprima prega il padre di desistere, poi lo sfida apertamente per difendere la donna. Egli rispetta la legge di Dio, rivelata dall’angelo e si rende quindi empio traditore della legge patriarcale di cui Lazaro di Roio è il portavoce. Nasce così una colluttazione fra genitore e figlio, che termina con la morte del padre. Si prepara per Aligi l’esecuzione della condanna con la crudele pena riservata ai parricidi. Tuttavia, prima che sia giustiziato, ad Aligi è somministrata la «tazza del consolo», un beveraggio che annebbia la mente e allevia il dolore. A questo punto interviene Mila che, con una falsa confessione, discolpa l’amato: ella si autoaccusa non solo dell’omicidio ma anche di aver ingannato Aligi e Ornella con le sue arti magiche e di aver proiettato alle proprie spalle un «angelo apostatico».88 Allora la comunità sotto la guida dell’anacoreuta Candia, si scaglia contro la strega.

(Candia con ambe le braccia, scossa da un fremito quasi di belva, afferrerà il figlio ridivenuto suo. Da lui si distaccherà, con violenza selvaggia si avanzerà verso la nemica. Ma le figlie la tratterranno). IL CORO DELLE PARENTI: - Lasciatela! Lasciala, Ornella!

Che il cuore le strappi, che il cuore le mangi! Cuore per cuore! - Lasciatela, che se la metta sotto i piedi, che la calpesti, che col calcagno le schiacci tempia e tempia, i denti le sgrani! - Lasciatela! Lasciala, Ornella; ché, se questo non fa, non le torna l'anima in petto sanata.89

In questo passo risulta evidente come la vendetta, quella della madre di Aligi e quella dell’intero paese, abbia un valore liberatorio e salutare e sia l’unica possibilità perché torni la normalità e il cerchio si chiuda. Ciò è reso possibile dall’espediente della tazza del consolo, che fa perdere lucidità ad Aligi e induce anche lui a credere nella colpevolezza di Mila. La tragedia si conclude infatti con il sacrificio della straniera, che determina il ritorno a casa del pastore. Fra gli insulti di tutti i paesani accorsi, ad eccezione della giovane Ornella, Mila viene condotta alla catasta per morire nelle fiamme e dalla pira infuocata, grida: «La fiamma è bella!».90

88 Ivi, p. 883. 89 Ivi, pp. 885-886. 90 Ivi, p. 890.

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