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Oltre il principio di lontananza: Fantasticheria e Di là del mare

Prefigurata la parabola che da Primavera e altri racconti porta fino al ciclo dei Vinti, veniamo a ricostruire un ultimo tassello, fondamentale per inquadrare nelle giuste coordinate I Malavoglia, opera sulla quale si concentrerà poi la nostra analisi. Ci riferiamo a due novelle che, con Dillon Wanke,52 potremmo definire “di complemento” o, meglio ancora, complementari e che fungono da cornici alle due raccolte maggiori, Vita dei campi e Novelle rusticane: si tratta di Fantasticheria e Di là del mare.

La prima, come nota Nelson Moe, «è di fatto, dall’inizio alla fine, un’aperta demistificazione del pittoresco».53 Ciò su cui si sofferma Moe, e sulle sue tracce Basile, è infatti l’estetica pittoresca e lo sguardo esotizzante che caratterizza quasi tutte le novelle di Vita dei campi e di cui, in questo racconto che apre la raccolta, lo scrittore sembra prendersi gioco. Come nel preambolo di Nedda, con Fantasticheria Verga porta l’attenzione sulla particolare visuale distanziata che determina la descrizione della Sicilia offerta nelle pagine che seguono, privandola così di autorevolezza e attendibilità. La novella, inoltre, come vedremo, costituisce un’ideale prefazione – la prima di tre – ai Malavoglia. Il racconto si apre, infatti, con la memoria di un “grand-tour” immaginario nell’ambientazione del romanzo e vede protagonisti l’autore e una benestante donna milanese, alla quale il racconto di rivolge quasi in forma epistolare. Quest’ultima, scorto una volta da lontano, attraverso il finestrino di un treno, il paesino di Aci-Trezza, ne resta affascinata ed esprime il desiderio di trascorrervi un

51 Nota introduttiva di Drammi intimi in G. Verga, Le novelle, Vol. II, p. 4.

52 Dillon Wanke nota come le novelle, poste l’una ad apertura di Vita dei campi e l’altra a chiusura di Novelle rusticane, raccontino entrambe l’arrivo di una coppia in Sicilia (cfr. M. Dillon Wanke, L’“abisso inesplorato” e il livello della scrittura in “Di là del mare”, «La rassegna della letteratura italiana», LXXXIV, 1980, 212- 221). In realtà la seconda, come si vedrà nelle prossime pagine, racconta sia il viaggio di andata che quello di ritorno al Nord.

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intero mese, ma appena due giorni dopo il suo arrivo ricompone «i grossi bauli»54 che ha portato con sé e scalpita per ripartire. Come in X, l’accorciarsi delle distanze e la consuetudine con l’eccezione determinano la fine dell’idealizzazione. La donna borghese, attraverso una cornice distanziante, libera la sua fantasia e dipinge nell’immaginazione un mondo ricco di attrattive «in faccia al sole nascente»55 – perifrasi con la quale la Sicilia è connotata come regione orientale –, ma, venuto meno il mistero della lontananza, tutto il suo interesse scompare e si dice impaziente di tornare nell’«altro emisfero».56 Con gli occhi «stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza» di trovarvisi anche lei «presente»,57 si chiede come sia possibile trascorrere in quel luogo un’intera vita.

Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri come voi.58

Nel passaggio appena letto si consumano due scarti: la definitiva dissimulazione del pittoresco, caratteristico delle “fantastiche” descrizioni settentrionali del Meridione – già da principio operante nella produzione siciliana di Verga, qui resa cristallina anche per il suo lettore – e l’inversione del punto di vista. Il narratore, infatti, sembra calarsi nella misera realtà del villaggio, empatizzando con i suoi abitanti e prendendo le distanze dal sentire dell’amica. Nell’affermare «non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri come voi», Verga marca in modo chiaro il suo passaggio di campo, si identifica con il soggetto osservato discostandosi da quello osservante e arriva a denunciare la presenza di un interesse dietro l’asimmetria che intercorre fra l’uno e l’altro “emisfero”.

Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. - Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; - ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete

54 G. Verga, Le novelle, cit., p. 161. 55 Ivi, p. 162.

56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 Ibidem.

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metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.59

Nelle parole dell’autore la scrittura dell’altro si riconferma come operazione non neutrale, almeno per chi la subisce. La metafora dell’ombrellino che scrive sulla sabbia il nome di una celebrità sembra sottendere un legame non casuale fra le velleità pseudo-artistiche dei settentrionali e quello che i pescatori di Trezza credono sia il rivoltarsi della sorte, la punizione del fato. Uno dei tanti ombrelli dell’uggiosa Milano, giocherellando con la sabbia della Sicilia, può, per capriccio, schiacciare l’esistenza e l’identità di un’intera comunità che su quella spiaggia ha tutto il suo mondo. La tranquillità, o anche la semplice sopravvivenza di quelle famiglie, è in realtà subordinata e dunque sacrificabile alla possibilità di una vita agiata, quando non frivola e vacua, per i settentrionali. Verga spiega di seguito come per comprendere a fondo l’esistenza di quei pescatori bisognerebbe divenire «piccini» e guardare con gli stessi loro occhi l’orizzonte racchiuso da «due zolle». Le zolle, versione “antipittoresca” dei misteriosi ed epici scogli dei Ciclopi, sembrano, in questo caso, fungere da confini dello spazio immaginativo degli abitanti di Trezza, da contorno al loro vuoto, da sbocco alla loro ricerca d’ignoto. Da soggetto del quadro di Eva, i Ciclopi divengono a loro volta cornice per l’osservatore meridionale, finestra sul continente, porta fra due mondi. Verga prosegue nell’illustrare come è possibile mutare la propria visuale e comprendere a fondo gli abitanti della Sicilia. Tornando a misurare la distanza fra il punto di vista settentrionale dalla sua interlocutrice e la vita dei terrazzani, il narratore invita la donna a guardarli come ingranditi da un microscopio, da una lente o da un cannocchiale. Quest’ultimo deve essere però impugnato in senso inverso rispetto a come erroneamente si è fatto finora. Qui l’autore torna a dirlo esplicitamente: è nello sguardo di chi osserva la riduzione della dimensione di quelle vite, di quei cuori. Ed implicita nell’erroneità del direzionamento del cannocchiale è anche la possibilità di un suo ribaltamento. Ora sono i terrazzani, e Verga con loro, a mettere l’occhio dall’altro capo del binocolo e a guardare l’Italia attraverso una lente distanziante. Gli osservati si fanno osservatori, l’incognita dell’ignoto è invertita e proiettata sul continente quale fonte di mistero e di pericolo. Lo stesso Verga – prima di “settentrionalizzarsi” attraverso l’educazione, l’istruzione e poi la migrazione – doveva aver idealizzato il Settentrione in modo analogo a come i settentrionali avevano idealizzato il Sud. Chiaramente la rappresentazione, dall’una come dall’altra parte, non può prescindere da un dato comune, che in ambo i casi influenza la costruzione

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dell’immagine dell’altro: l’asimmetria economico-politica e la gerarchia anche ideale fra le due parti del Paese.

Tale asimmetria è ripetuta dal rapporto amoroso fra la donna borghese e il narratore, fonte, a detta di quest’ultimo, del suo stesso interesse per l’argomento siciliano: «potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo perché il vostro piede vi si è posato».60 È lo slittamento della casella vuota da un oggetto del desiderio a un altro, che tenderà a scorrere di nuovo con l’identificazione dell’autore nella realtà del villaggio, ma che in Vita dei campi ancora inquadra la Sicilia come fonte di fascino e consolazione. Il narratore di Fantasticheria afferma infatti: «i ricordi che vi mando, così lontani da voi […] vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale».61 Qui la Sicilia risulta ancora connotata come spazio di libertà, vacanza, momento di fuga, ma in un mondo, quello dell’Italia, privo di leggi ed eternamente in “festa”. Da eccezione della regola, a eccezione dell’eccezione, l’isola verrà poi, via via, a coincidere con il centro della norma, in primis ne I Malavoglia e, ancor più chiaramente, ne Le novelle rusticane, con il definitivo abbandono del filtro idealizzante. Se inizialmente l’autore guarda alla Sicilia con gli occhi della donna amata che lo ha rifiutato – personificazione del mondo borghese, ma forse anche del mercato librario, dei lettori e dei critici milanesi che hanno accolto tiepidamente le sue prove narrative giovanili –, da un certo momento in avanti si cala nella realtà osservata, inverte il rapporto immaginativo noto/ignoto fin qui sostenuto (seppur con riserva) e mette sempre più in discussione il pittoresco come strategia rappresentativa della sua terra. Se è vero che a quest’altezza cronologica avviene una svolta nella concezione verghiana della Sicilia e nell’estetica che l’autore adotta per rappresentarla, si può ben comprendere come I Malavoglia, già iniziato nel ’75 e completato nell’’81, recepisca solo in parte le innovazioni sollevate dalla novella del ‘79. Anche la celebre espressione «ideale dell’ostrica»,62 qui presentata dal narratore come pilastro della concezione del mondo dei terrazzani e quindi dei futuri protagonisti del romanzo, da una parte sembra scimmiottare con sarcasmo l’immaginario zoomorfo orientalizzante coniato per il Sud dai settentrionali, anche sulla base delle teorie evoluzioniste che vogliono l’uomo discendente degli organismi più elementari, dall’altra sembra una creazione degli abitanti del villaggio, un prodotto del folklore siciliano: le metafore animali sono infatti proprie delle

60 Ivi, p. 165. 61 Ibidem. 62 Ivi, p. 169.

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modalità espressive della narrazione popolare. Quello che è certo è che Verga cerca di svincolare progressivamente la rappresentazione della sua terra dalla falsità di un punto di vista distaccato. Moe e Basile, per il capolavoro dell’autore, parlano di ibridazione tra estetica pittoresca e antipittoresca, mettendo in evidenza come pur in assenza della distanza narrativa e in seguito a una radicale revisione di alcuni loci tipici della Sicilia esotica del primo Verga rusticano (su tutti il mare come fonte di diletto), persista un interesse documentario e un’idealizzazione alterizzante alla base della rappresentazione dell’isola. Ciò che più conta e su cui i due studiosi non si soffermano, tuttavia, non è tanto il venir meno dell’estetica pittoresca, quanto il mutare del punto di vista e perciò dell’identità che nell’opera trova espressione e rispecchiamento. Come scrive Giachery, infatti, «la poetica verghiana è una poetica della comprensione attraverso la pretesa “obiettività”, è un cercare di assumere l’ottica dell’ostrica e della formica, di farsi ostrica e formica, più che descrivere dall’esterno l’una o l’altra».63 La transizione dall’identità settentrionale a quella meridionale

e da un’immagine eteronoma a una autonoma – cui il rivolgimento dell’estetica funge da corollario – è resa esplicita e inequivocabile nell’ultimo passaggio della novella, in cui si condensa lo schema del dramma «modesto e ignoto»:64

Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.65

La trama del romanzo replica una situazione ormai familiare, che abbiamo delineato nelle opere precedenti: un personaggio, «per vaghezza di ignoto», si spinge oltre il limite consentito e ne resta ingoiato. L’ignoto questa volta non è rappresentato dal fascino di una donna o di un uomo misterioso, né dalla sua maschera o dalle sue storie leggendarie, non da un tempo come quello della festa in cui la legge e la consuetudine risultano disapplicate, né dal luogo che fino a questo momento abbiamo visto descritto come attraente e pericoloso, mitico o ancestrale, orientale e pittoresco: la Sicilia. Ribaltato il cannocchiale, i nuovi soggetti del dramma verghiano non proiettano più la loro immaginazione sull’isola. Nelle fantasticherie di «quei piccoli», nella fornace del loro caminetto, ammantata di mistero dal

63 E. Giachery, Il capitolo quindicesimo in C. Musumarra (a cura di), I Malavoglia di Giovanni Verga 1881- 1981. Letture critiche, Palermo, Palumbo, 1982, p. 246.

64 G. Verga, Le novelle, cit., p. 170. 65 Ibidem.

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vuoto che la circonda è l’alterità del continente, della vita borghese, dell’Italia. Al centro degli interessi dell’ostrica è la vita del gambero o, meglio, quella del palombaro, di colui che ha staccato l’ostrica-Sicilia dal suo scoglio per mangiarla.

A un analogo cambiamento di prospettiva assistiamo con le Novelle rusticane del 1883 (pubblicate in rivista a partire dall’‘80),66 molte delle quali, non a caso, sembrano sviluppare variazioni su singoli episodi del romanzo dell’‘81. Uno su tutti, il tentativo di rivoluzione del popolo, tematica ripresa nella novella Libertà a documentazione dell’evento storico della rivolta di Bronte, repressa nel sangue dall’esercito regio. Qui l’autore pone apertamente l’attenzione sull’eccezionalità dell’evento, che definisce infatti un «carnevale furibondo del mese di luglio».67 Ricordiamo che questo non è il primo caso in cui Verga collega Carnevale

e ribellione sociale: già il protagonista di Una peccatrice, Pietro Brusio, scatena una rivolta nel giorno di giovedì grasso, indossando, come nota Zaccaria, il costume carnevalesco dell’“uomo selvatico”.68 Ma veniamo ora alla trama di Libertà: in un villaggio montano della

Sicilia non meglio definito, gli uomini del popolo, vessati da soprusi secolari, prendono d’assalto gli edifici delle istituzioni e le case dei ricchi, depredano, violentano e uccidono senza pietà al grido «viva la libertà!». Tuttavia, una volta “liberato” il paese dai galantuomini e manomesso l’ordine costituito, i rivoltosi sono come immobilizzati, si guardano l’un l’altro con diffidenza temendo nuove prevaricazioni. All’arrivo del generale con al seguito le camicie rosse, non reagiscono e attendono inermi la repressione. Il narratore nota come «sarebbe bastato [loro] rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti ma nessuno si muove».69 Molti dei ribelli vengono fucilati sul posto, altri sono arrestati e imprigionati. La novella si chiude con la protesta disperata di uno dei condannati: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...».70 Solo nell’epilogo si chiarisce come la mancata reazione degli uomini all’arrivo delle truppe, che in principio appare dovuta ad una passiva e fatalistica accettazione del loro destino, è in verità frutto dello spaesamento di fronte alle conseguenze di quella rivolta. Le speranze alimentate da altri di un cambiamento, di una spartizione più equa delle ricchezze, di un una giustizia possibile dietro quella parola “libertà”, alla prova

66 La roba esce su «La rassegna settimanale» nel 1880. Vedi G. Verga, Novelle rusticane, Novara, Interlinea, 2016.

67 G. Verga, Le novelle, cit., p. 520.

68 G. Zaccaria, Le maschere e i volti. Il ‘carnevale’ nella letteratura italiana dell’Otto-Novecento, Milano, Bompiani, 2003, p. 93.

69 Ivi, p. 523. 70 Ivi, p. 525.

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dei fatti si rivelano una fugace illusione. Il divario tra la fantasia e la realtà, che fin qui abbiamo visto declinato da Verga in svariati contesti, con le Novelle rusticane viene portato alle ennesime conseguenze e arriva a farsi lente di ingrandimento con cui interpretare la storia e i rapporti di potere che coinvolgono l’isola e l’Italia.

Tutto ciò è reso ancora una volta esplicito in una novella che, accomunandola a Fantasticheria e al preambolo di Nedda, potremmo definire “cornice” e che, come i suoi due precedenti, riflette sull’ottica della visione avvalendosi del parallelo con la relazione amorosa: Di là del mare. Il racconto, che chiude la raccolta, a differenza di quanto avviene in Fantasticheria ristabilisce una distanza tra i protagonisti e l’isola: oltre al viaggio di andata verso la Sicilia – che revoca l’idealizzazione geografica – narra infatti anche il viaggio di ritorno e il riabilitarsi del filtro alterizzante dato dalla lontananza. Come notato da Moe e Basile, infatti, in questa novella torna a fare la sua comparsa l’elemento oleografico, completamente assente nel resto della raccolta, che fa invece dell’estetica antipittoresca e anticonsolatoria la sua cifra. In parte, come spiegano i due critici, l’abbandono del pittoresco è dovuto all’avvicinamento di Verga all’ambiente della «Rassegna settimanale», testata diretta da Franchetti e Sonnino e improntata, in linea con le loro ricerche sociologiche positiviste, a uno studio scientifico e a un’analisi accurata del “problema meridionale”. Sulla rivista fiorentina Verga pubblica I Malavoglia – che qui riceve un’accoglienza ben più entusiastica che altrove – e quattro delle sue Novelle rusticane, che paiono ispirate proprio al programma del giornale. Invero, anche l’impegno profuso in questi anni da Verga nel trattamento di tematiche sociali e politiche come il lavoro minorile nelle cave di rena, la tassazione sui beni di prima necessità, le modalità con cui si è raggiunta l’unità d’Italia, attingono direttamente dalle indagini dei meridionalisti.71 Ciò non esclude, tuttavia, che Verga pervenga agli indirizzi tematici ed estetici che informano I Malavoglia e le Novelle anche attraverso una sua ricerca originale ed autonoma, ricostruendo la quale possiamo distinguere il punto d’approdo della sua riflessione, che è insieme poetica e ideologica. In Di là del mare, due amanti le cui descrizioni ricordano molto da vicino i protagonisti di Fantasticheria, giungono in Sicilia su un battello, accompagnati dal suono dell’organetto e dal racconto, al lume di una lanterna, di storie leggendarie e misteriose. Queste ultime altro non sono che le vicende delle novelle contenute nella raccolta, le cui tinte si opacizzano con l’arrivo dei due innamorati nei luoghi che le hanno ispirate. Al contempo, anche la loro

71 Vedi R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su Rosso Malpelo, Padova, Liviana, 1976, pp. 7 e ss.; Id., Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 15 e ss.

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passione adulterina e proibita – il cui mistero è sottolineato dal ripresentarsi del simbolo dell’incognita, la croce già incontrata in X, questa volta a contrassegno del luogo designato per un appuntamento segreto, nonché dalla coincidenza di un incontro la notte di Carnevale – perde di forza con la consuetudine e con la promessa di un “per sempre”. La doppia focalizzazione, già osservata in Fantasticheria per il dialogo geografico-culturale, viene applicata qui anche al rapporto fra gli amanti e registra, in questo caso, una reciproca disaffezione. Non uno, ma entrambi i personaggi, infatti, perdono interesse con la vicinanza e finiscono per considerare il loro amore solo una parentesi senza seguito, se non memoriale. Allo stesso modo, le fantasie continentali che animano i protagonisti isolani delle leggende rusticane – i soggetti osservati, divenuti, attraverso l’inversione dello sguardo, osservatori – si risolvono in un nulla di fatto, in un’aspettativa disattesa, in un’eccezione alla regola che sembra lasciare intatto il loro mondo.

L’ombra saliva lungo le viottole della valle che assumevano un aspetto malinconico; poi il raggio color d’oro si fermava un istante su di un cespuglio in cima al muricciuolo. Anche quel cespuglio aveva la sua ora, e il suo raggio di sole. Degli insetti minuscoli vi ronzavano intorno, nella luce