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La nuova concezione dell’isola nelle novelle

La diagnosi ciresiana di una rinuncia da parte di Deledda a qualsivoglia istanza polemica generalizzata all’intera produzione narrativa riscuote vasto seguito nel campo della critica deleddiana. Pittalis, richiamandosi al demologo abruzzese, sostiene che l’ottica del primitivismo porta l’autrice a «rimuovere le ragioni storiche dei conflitti economici e di classe, a nasconderle sotto l’alibi di una barbarie innocua e affascinante, che la concordia interclassista dello Stato unitario può accettare senza angosce».79 Girolamo Sotgiu sostiene

che «servi, pastori, proprietari, donne investite di ieratica maestà, sacerdoti asceticamente umani, mitici banditi son collocati uno accanto all’altro in una società che ha la solennità e la castità omerica e i cui contrasti si sviluppano in interiore hominis».80 In un’ottica marxista,

75 Ivi, p. 41. 76 Ivi, p. 44.

77 G. C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, cit., p. 278.

78 A. M. Cirese Intellettuali, folklore, istinto di classe, cit., p. 44.

79 P. Pittalis, Scrittori e pittori, cit., p. 178. Secondo il critico ciò si coglie bene dalla motivazione data da Schück per il conferimento del premio Nobel: «la potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano». «Discorso ufficiale di Henrik Schück per il conferimento del premio Nobel a Grazia Deledda» in F. Di Pilla, Grazia Deledda: premio Nobel, cit. pp. 10-20.

80 G. Sotgiu, Vecchio e nuovo in Sardegna nell’età deleddiana, Convegno nazionale di studi deleddiani, Cagliari, Fossataro, 1974, p. 96.

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il critico accusa inoltre la Deledda di aver «giovato al blocco agrario della Sardegna di quel periodo».81 Per Spinazzola, infine, la scrittrice sposta il problema dell’integrazione nazionale e del contrasto storico-sociale centro-periferia su un piano etico e «psicologico- individuale».82

A nostro avviso un simile discorso viene ad essere smentito se osservato in diacronia e, a tale proposito, ci richiamiamo alle considerazioni di Nicola Tanda. Secondo il critico, si possono distinguere due fasi della produzione sarda di Deledda e dunque della sua rappresentazione dell’isola: «il suo atteggiamento è dapprima di adesione alla cultura positivista, in seguito di progressivo distacco. Il distacco avviene fuori dalla Sardegna».83 Il critico spiega come, una volta a Roma, Deledda subisca l’influenza dei nuovi studi sulla Sardegna: dagli studi linguistici di Max Leopold Wagner, che asserisce l’autonomia del sistema linguistico e culturale isolano facendolo coincidere con l’esistenza di una vera e propria civiltà nazionale sarda,84 a quelli antropologici di Petazzoni, che vede questa civiltà derivare da un’unità di popolo che si esprime in una concezione etica superiore.85 Una volta giunta nella capitale Deledda viene anche a contatto con le idee politiche socialiste e con il progetto educativo antimoderno degli intellettuali gravitanti intorno alla casa Cena-Aleramo poi promotori di indirizzi estetici primitivisti con la Secessione romana del 1913. In particolare, Tanda sottolinea l’importanza del rapporto dell’autrice con il pittore sardo Biasi, sulla scorta del quale Deledda sarebbe passata da una rappresentazione realistica e documentaria dei costumi dell’isola ad un simbolismo dei paesaggi e delle figure osservate.86

Tali notazioni appaiono fondamentali per comprendere come evolva la rappresentatività sarda della Deledda e come il suo percorso sia tutt’altro che inscrivibile nel solco del progetto centralistico delle Tradizioni popolari italiane.

81 Ibidem.

82 V. Spinazzola, Prefazione, in G. Deledda, Romanzi sardi, cit., p. XXVII. 83 N. Tanda, Da Grazia a Cosima, cit., p. 120.

84 M. L. Wagner, Gli elementi del lessico sardo, «Archivio storico sardo», 3, 1907.

85 R. Pettazzoni, La Religione primitiva in Sardegna, Roma, Tip. della R. Accademia dei Lincei, 1910. 86 «La Sardegna non è più un riferimento realistico e naturalistico, è intanto metafora, è un luogo dell’immaginatio, uno spazio in cui rappresentare l’eterno dramma dell’esistere in senso mitico e non storico. La Sardegna compare, in queste opere, nelle sue tradizioni, all’interno del suo tessuto antropologico, rilevate però da una cultura che osserva e analizza dal punto di vista e con l’occhio delle discipline etnologiche e storico religiose. La scrittrice vi colloca essenzialmente il dramma della coscienza, che è, al temo stesso, quella contemporanea e quella del mito che la cultura di quei primi decenni del Novecento recuperava o aveva recuperato. Era avvenuto lentamente e consapevolmente il passaggio dal mito dell’Isola all’Isola del mito e nell’accezione propria della coscienza letteraria del Novecento». N. Tanda, Da Grazia a Cosima, cit., p. 127.

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A nostro avviso, però, la svolta poetica dell’autrice avviene già prima del suo trasferimento oltremare nel 1900, almeno nei termini di un rifiuto dell’immagine eteronoma dell’isola, di una riappropriazione delle radici sarde e, con esse, delle spinte regionalistiche. Da un’adesione al progetto continentale che le era necessaria per poter prendere la voce nel contesto nazionale, Deledda infatti passa a una riscrittura dell’immagine della Sardegna con un’attenzione alle sue problematiche storico-sociali in precedenza tralasciate.87 Tale

attenzione nei romanzi non emerge chiaramente perché, come notano giustamente gli interpreti, essi si propongono come trasfigurazioni simboliche, come metafore all’apparenza universali e trascendenti. Al contrario, ciò si fa evidentenelle novelle, genere purtroppo a lungo trascurato dalla critica, che Deledda però ha sempre coltivato in parallelo alla sua produzione romanzesca e che costituisce «un valido terreno di verifica e di confronto», come rileva Scardicchio.88 Nelle raccolte che l’autrice pubblica già alla fine degli anni Novanta

dell’Ottocento, in particolare, si fanno espliciti i richiami a specifici eventi della storia isolana: non solo la “caccia grossa”, avvenuta, come si è visto, nel 1899, ma anche l’espropriazione delle terre e il divieto di legnatico, provvedimenti legislativi attuati ormai da molto tempo e contestati dalla popolazione attraverso moti ribellistici come quello del Su connotu del 1868. Tali novelle, esplicitando il rifiuto dell’immagine orientalista dell’isola – la «rivalsa» identitaria sarda, come la definisce Cirese –,89 nonché una vera e propria critica verso lo Stato centrale da parte della scrittrice, offrono un valido inquadramento entro il quale poter poi interpretare anche il simbolismo dei suoi romanzi e in particolare quello del suo capolavoro: Canne al vento, che le varrà il premio Nobel nel 1926.

La novella Zia Jacobba, pubblicata nella raccolta Le tentazioni del 1899, è la storia di un’anziana donna che ha fama di essere una strega. Povera e ammalata di malaria, Jacobba perde tutti gli affetti e nel finale muore sola nella sua casa, dove viene poi rinvenuto un piccolo tesoro. Al di là della trama, quello che ci interessa sottolineare è il tema

87 «La lettura dei suoi romanzi, infatti, suscitò reazioni contrastanti presso i critici locali. La maggior parte di loro trovarono che la sua rappresentazione dell’isola non corrispondeva all’immagine che essi ne custodivano. Non consapevoli che quell’immagine era un prodotto culturale dell’immaginario, elaborato mediante le informazioni della scienza e le rappresentazioni dell’arte, pretendevano di considerarne i risultati artistici sulla base di un riscontro ‘realistico’ di rispecchiamento della realtà. Un atteggiamento che un recensore degli anni Venti, Giuseppe Mulas, definì della “scimmia che si guarda allo specchio». Ivi, p. 122 cita G. Mulas, Il mito di Grazia Deledda, «Sa mastruca», 1 dicembre 1914, e di nuovo in «Battaglia», 28 ottobre 1924.

88 A. Scardicchio, Grazia Deledda narratrice per l’infanzia, «Bollettino ‘900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature», 1-2, Giugno-dicembre 2013, https://boll900.it/numeri/2013-i/Scardicchio.html (ultima consultazione in data 20/11/2020).

89 Paulis parla di «rivendicazione» sarda. Cfr. S. Paulis, La costruzione dell’identità. Per un’analisi antropologica della narrativa in Sardegna tra ‘800 E ‘900, Cagliari, EDES, 2006.

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dell’espropriazione che apre il racconto: la donna, infatti, occupa la sua casa indebitamente, essendole stata requisita dallo Stato per inadempienza fiscale.

Questa che parrà una storiella da focolare (così noi chiamiamo le fiabe), è invece una storia vera, accaduta in un villaggio della Baronia di Sardegna. Quando avrò detto che ai tempi di Tolomeo questo villaggio, – ora fra i più miseri del Nuorese, – era fra le città più opulente delle colonie romane, forse ne saprete qualche cosa. Quando aggiungerò che il nostro governo ha già messo all’asta quasi tutte le case e i terreni di questo villaggio, per l’imposta che i miseri abitanti non riescono a pagare, voi che nei giornali avete letto la strepitante notizia di un comune sardo messo all’asta, ne saprete quanto me. Questo accade però: si fa l’asta; vengono espulsi gli abitanti coi loro stracci, che restano più o meno sulla via. Nessuno si presenta all’asta e tanto meno alla subasta; cosicché gli stabili vengono aggiudicati al demanio. Si fa egregiamente e regolarmente ogni cosa, ma appena i funzionarî hanno terminato la cerimonia e se ne sono andati, gli espulsi rimettono entro le case, – che hanno aperture poco solide, – le loro mobilie, e tornano ad abitarvi tranquillamente, in barba al demanio che non se ne accorge o non vuole accorgersene. Lo stesso avviene delle terre: i proprietarî continuano a coltivarle senza essere più molestati dal commissario; talché molti finiscono col lasciarsi subastare i terreni per non pagare più imposte, che, a dir la verità, sono superiori alle rendite. Così la buona parte degli abitanti sarebbe pressoché felice, – liberatasi dall’incubo dell'esattore, – se le piene, il sole, e sopratutto la malaria non facessero le vendette di quel flagello dell’umanità, chiamato elegantemente “messo erariale”. Della miseria poi non si parli. In primavera molti Baroniesi tolgono le tegole dai loro tetti e le vendono a Nuoro: riusciranno nel prossimo inverno a ricoprire la loro stamberga? Quesito difficile a risolversi; per cui lo lasciamo lì. E tutto questo sia detto per l’«ambiente».90

Il riferimento nella frase che chiude il passo, esplicitato dall’uso delle virgolette, è a quei «fattori d’ambiente» presi sì in esame da Niceforo ne La delinquenza in Sardegna, ma quali cause secondarie della barbarie sarda rispetto ai «fattori individuali», cioè «la razza e il temperamento etnico», «quasi come una dovuta concessione al socialismo», scrive Salvadori.91 Nella novella, dunque, Deledda si distacca dall’analisi niceforiana, quasi

parodiandola: la penuria della popolazione – sembrano suggerire le sue parole –, è infatti cagionata dal malgoverno della regione, dalle tasse, oltre che dal flagello della malaria che sembra quasi essere la vendetta governativa per gli inadempienti. Citando una notizia uscita sul giornale, l’autrice parla di interi paesi «messi all’asta».92 Il governo costringe i paesani a lasciare le loro case e i loro terreni, ma, finito il clamore della cerimonia giudiziaria, lascia che i cittadini riprendano possesso delle loro abitazioni. L’unica reale variazione apportata dall’Unità nazionale in Sardegna – sembra affermare la scrittrice – sono le inique leggi che il governo impone alla cittadinanza e che fortunatamente non è in grado di far rispettare fino in fondo. Deledda, in tal senso, muove in queste pagine una critica ben precisa allo Stato

90 G. Deledda, Novelle, Vol. I, cit., p. 275. 91 Cfr. V. Teti, La razza maledetta, cit.

92 La notizia parla di «Sardegna messa all’asta». L’articolo del 27 marzo 1899 è apparso su «La nuova Sardegna», pubblicato in A. De Murtas, 100 anni della nostra storia, Sassari, La nuova Sardegna, 1992.

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centrale, che con i suoi interventi inconcludenti e solo di facciata non fa che aggravare gli ormai annosi mali endemici dell’isola. Zia Jacobba, che ritorna ad occupare la sua casa dopo il sequestro, appare così come una dimessa antenata del gattopardo di Lampedusa e una sorella minore o una figlia dei ribelli verghiani di Libertà. Un’altra notazione può farsi sul tenore della “favola” di Zia Jacobba, che è tutt’altro che favolistico, e in questo senso anche il riferimento intertestuale alle Leggende sembra sottendere un’amara ironia: la storia di tesori e di stregonerie è questa volta reale e triste. La Sardegna, invece di essere presentata in modo pittoresco è descritta in modo disforico e “antipittoresco”, per prendere a prestito la terminologia di Moe. E l’intento dell’antipittoresco, quasi dichiarato per tramite della citazione intertestuale, è quello di demistificare le rappresentazioni pittoresche, percepite in tutta la loro fallacia e strumentalità quando messe a paragone con la realtà in cui versa la Sardegna.

Ne Le due giustizie, novella tratta da La regina delle tenebre del 1902, un uomo buono e allegro, che si guadagna da vivere tagliando legna, viene trovato in contravvenzione forestale dopo la promulgazione di una nuova legge. Poiché non ha i soldi per pagare la multa, Zio Chircu Barabba – questo il nome del protagonista – viene condannato alla reclusione e decide allora di darsi alla macchia. Calunniato e incastrato da un uomo malvagio, viene accusato di un assassinio che non ha commesso e finisce in carcere. Le deposizioni dei testimoni e l’intervento del pubblico ministero che lo dipinge con caratteristiche che ricalcano quelle del delinquente nato sono cruciali per determinare l’arresto. In prigione Barabba diventa «cattivo, aveva perduto l’innocenza serbata fino al giorno della sua condanna».93 Tra i funesti provvedimenti dello Stato centrale, oltre al divieto di legnatico, la Deledda dunque documenta e denuncia anche la negligenza delle forze dell’ordine e dei tribunali e l’esito antieducativo della reclusione in carcere. Cionondimeno la novella si chiude con un lieto fine: in prigione Barabba stringe una vera amicizia, con un uomo che, per appropriarsi di una grossa somma, si è macchiato di un delitto e poi si è pentito. Scagionato dopo molti anni per la confessione del vero assassino, il protagonista esce di prigione ed “eredita” la fortuna dell’amico. L’epilogo consolatorio non fa venire meno la cifra polemica del racconto: la liberazione di Barabba grazie al pentimento del vero assassino sembra quasi un secondo finale, aggiunto al primo che vede la condivisione della sventura e l’umana fratellanza come risposte all’avversità del fato, o meglio della “giustizia”. Il fatalismo attribuito ai sardi,

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caratteristico delle descrizioni orientaliste, infatti, in questa sede viene esplicitamente smascherato come l’impossibilità dei sardi di ribellarsi alla soggezione della legge nemica. Gli uomini possono reagire a tale circostanza con la solidarietà o con la competizione: Zio Barabba sceglie la prima via e viene per questo premiato dalla vera giustizia, la giustizia divina. Il conflitto suggerito dal titolo, infatti, è quello tra giustizia umana e giustizia divina, ma la giustizia umana sembra essere impersonata da entità irraggiungibili e imperscrutabili come quelle dello Stato, della legge o dei giudici, ai quali Zio Chircu non aveva fatto mai del male. La giustizia divina è invece quella invocata dal protagonista, che infine lo risarcisce inducendo il vero colpevole a confessare e il compagno reo a donargli un tesoro. Tale giustizia agisce per mano di veri assassini, in tal senso, nella bipartizione morale in cui sembra essere diviso il mondo del protagonista, è maggiore la condivisione con il peccatore pentito che con l’innocente inconsapevole. Il peccatore pentito è significativamente un sardo, mentre l’innocente inconsapevole, che lo punisce prima per una trasgressione involontaria poi per un peccato che non ha commesso, è, altrettanto significativamente, lo Stato italiano.

Ancora più interessanti per il nostro discorso sono due racconti contenuti in Chiaroscuro, raccolta pubblicata nel 1912, solo un anno prima di Canne al vento. Il primo, intitolato Al servizio del re (perifrasi per indicare “la prigione”), racconta la carcerazione di tanti uomini innocenti, presunti complici dei banditi durante la “caccia grossa”. I detenuti sono caratterizzati come un gruppo di uomini onesti, che se hanno commesso reato lo hanno fatto perché costretti. Fra di loro si distinguono solo le due vecchi uomini orgogliosi, uno dei quali, venuto a sapere del tradimento di un bandito verso i compagni, ne piange. Più tardi viene messo in carcere anche un giovane prete, che rallegra i detenuti con il racconto epico- leggendario delle vicende dei briganti assediati dalla forza di polizia.94 Se da principio i detenuti sopportano con mansuetudine la reclusione, dopo diversi giorni cominciano a preoccuparsi per le proprie famiglie e per le proprie vite. La tematica della “vita” sottratta, o della vita sacrificata, sembra costituire un fil rouge tra la prima produzione novellistica e la seconda. La differenza sta nella responsabilità di questa dissipazione, se in un primo momento essa viene genericamente attribuita a uno “straniero” e, in questo senso, costituisce un indizio sottotraccia e non eversivo dell’usurpazione subita dal soggetto subalterno, successivamente essa è riconosciuta esplicitamente come azione dello Stato e delle sue

94 Il prete giovane sembra essere uno dei rapsodi sardi che partecipano alla rinascita culturale barbaricina della seconda metà dell’‘800 e che cantano, con accenti tardo-romantici, le avventure epico-leggendarie dei briganti. Le sue parole, per quanto idealizzino la realtà, alleviano la sofferenza dei detenuti.

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istituzioni. Ciò appare ancora più evidente dall’episodio che segue, in cui uno dei detenuti viene mandato a chiamare e, una volta rientrato in cella, racconta di essere stato interrogato da due signori che descrive come due animali affamati: «Ci son là due signori, – raccontò, – uno dei quali, un omuncolo rosso e brutto come la volpe, scrive, e l’altro, lungo e tanto magro che sembra un affamato, m’ha rivolto cento domande, m’ha spogliato, mi ha misurato la fronte, le guance, il naso... – Che cosa ti ha domandato? – Se mio padre e mia madre erano sani, se da ragazzo lavoravo, se...».95 Si tratta degli accertamenti pseudo-scientifici usati dalla scuola di diritto penale positivo per la classificazione dei criminali. Misurazione del cranio, malattie ereditarie, manifestazioni di indolenza in giovane età: tutti parametri utili a verificare la teoria dell’atavismo barbaricino. Qui il riferimento dell’autrice è quanto mai esplicito e inequivocabilmente critico, financo irridente per voce di un personaggio che racconta «favole» agli inquirenti: «Gli dissi che mio padre e mia madre soffrivano di mal caduco e che mio nonno era pazzo».96 Nella novella, che si conclude con la scarcerazione dei detenuti, l’autrice si prende gioco delle rilevazioni della criminologia positiva, le stesse che aveva contribuito ad avvalorare con i suoi scritti giovanili, e polemizza così con il loro impiego da parte dello Stato per la conduzione delle indagini della “caccia grossa”.

L’altra novella tratta da Chiaroscuro, invece, intitolata Il Cinghialetto, si distingue per la sua forte valenza simbolica. All’apparenza estranea al quadro che stiamo tracciando, poiché tutta incentrata sulla storia d’amicizia tra un bambino e un cinghiale, la novella presenta in realtà dei significati nascosti, il primo dei quali, come sostiene Bolognesi, è meno celato degli altri, ma poco considerato dalla critica.97 Una stessa immagine apre e chiude il racconto, il tricolore italiano: «Appena aperti gli occhi alla luce del giorno, il cinghialetto vide i tre più bei colori del mondo: il verde, il bianco, il rosso, sullo sfondo azzurro del cielo, del mare e dei monti lontani».98 Il bosco tricolore rende ardito il cinghialetto che si allontana dalla sua tana e viene catturato da un bambino, Pascaleddu. Mentre viene portato via, l’animale saluta la sua patria, facendo il verso all’«Addio monti» di Lucia de I promessi sposi – secondo un procedimento già impiegato dalla nostra in Cenere99 e da Verga in Novelle rusticane, come

95 G. Deledda, Novelle, Vol. III, Nuoro, Ilisso, 2012, ebook, p. 92. 96 Ivi, p. 93.

97 R. Bolognesi, L’invenzione del bandito sardo nell’opera di Grazia Deledda, 2010, https://bolognesu.wordpress.com/2010/11/29/ (ultima consultazione 06/11/2020) 98 G. Deledda, Novelle, Vol. III, cit., p. 45.

99 In Cenere così Anania si congeda dalla terra natia: «Addio, addio, orti guardanti la valle; addio scroscio lontano del torrente che annunzia il tornar dell’inverno; addio canto del cuculo che annunzia il tornar della primavera; addio grigio e selvaggio Orthobene dagli elci disegnati sulle nuvole come capelli ribelli d’un gigante dormiente; addio rosee e cerule montagne lontane; addio focolare tranquillo e ospitale, cameretta odorosa di

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si è visto nel terzo capitolo –: «Addio, montagna natia, odore di musco, dolcezza di libertà appena gustata come il latte materno! Tutti gli spasimi della ribellione e della nostalgia vibrano nel ringhio del prigioniero».100 Tale ripresa del Manzoni potrebbe essere interpretata come una riscrittura da parte dell’autore periferico del canone centrale. Se nei Promessi sposi, infatti, percepito sin da principio come un romanzo fondativo del Risorgimento