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Lo sguardo dell’Altro: le prime novelle e l’indagine sull’ignoto

Il secondo antidoto alla rappresentazione mistificante della Sicilia, quel “principio di lontananza” già parzialmente anticipato in Eva, è per la prima volta esemplificato espressamente da Verga nel prologo di Nedda. Il racconto è infatti introdotto da un preambolo in cui il narratore presenta se stesso e rende esplicito il proprio punto di vista come distante nello spazio e nel tempo. In breve, Verga consegna al lettore le lenti deformanti attraverso le quali osserva la sua Sicilia, in modo tale da motivare o quanto meno rendere accettabile a sé e al pubblico più avveduto, un’immagine del Sud puramente letteraria. Tali lenti, come arguisce Moe, hanno anche un corrispettivo materiale all’interno del racconto, un oggetto che incornicia la realtà osservata separandola da quella osservante e filtra così la visione. Si tratta del vano di un caminetto, che, al centro del salotto borghese del narratore stabilitosi al Nord, apre uno spazio vuoto in cui fantasie e fantasmi di un mondo lontano prendono corpo e si alimentano. «Per quanto diversi siano gli scenari», scrive Moe, tale strategia «accomuna il preambolo di Nedda e il brano di Eva precedentemente discusso: in entrambi i testi per immaginare la Sicilia si fa ricorso ai termini di cornice e distanza»28 quali espedienti per invalidare o quanto meno relativizzare il carattere pittoresco della rappresentazione. Altro indicatore materiale di tale attività immaginativa impiegato sovente da Verga, come qui non si ha modo di vedere nel dettaglio, è una fonte di luce nel buio (quella del fuoco, appunto, del raggio di luna o di una lanterna). Ma se nel caso di Eva la fantasia deformante non sembra avere particolari conseguenze, nel prologo di Nedda essa è avvertita come ambivalente e pericolosa. Così scrive Verga:

Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda.29

28 N. Moe, La poetica geografica di Giovanni Verga, cit. p. 254. 29 G. Verga, Le novelle, cit., pp. 130-132.

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La cornice del focolare sta agli affetti più miti e sereni – oggetto delle consolatorie narrazioni verghiane ben esemplificate da Nedda – come il raggio di luna sta ai baci degli amanti: esso li evoca e li favorisce. Ma il caminetto è tutt’altro che inoffensivo, è ingannevole anzi, sia perché stimola la fantasia di un luogo lontano e ambivalente, che affascina e turba, la Sicilia, sia perché inaffidabile e inconsistente è l’immagine che ne offre. A nostro modo di vedere, tale pericolo è il frutto della proiezione di un’immagine enantiomorfa, costruita dal centro per il margine. L’io si nutre del confronto con un altro, il quale occupa la posizione e assume i caratteri della mancanza di senso, del vuoto, della “vacanza”. Tale mancanza, che esiste di per sé come residuo ineliminabile di un qualsivoglia processo identitario, viene in questo caso ad essere saturata dal soggetto meridionale, viene collocata a Sud per uno sforzo dell’immaginazione. Diremo allora che il salotto borghese in cui l’autore inizia a fantasticare, la casa Italia, calda e rassicurante, si costruisce intorno al caminetto, facendo perno su quel vuoto semantico, su quella cavità del focolare domestico da cui si diparte ogni significato e su cui si proietta, di rimando, ogni rovesciamento di significato. Come la “struttura”, con Deleuze,30 per funzionare necessita di una casella vuota, e l’arte, con Lacan,

è un dare forma al vuoto, così la costruzione identitaria – e quella italiana non fa eccezione – consiste nel modellare una cavità, nell’operare un taglio nell’indistinto. Lo psicoanalista francese, per descrivere l’iscrizione dell’identità nel nulla, l’origine della distinzione dall’indistinto, l’incisione del “Reale” dal quale tutto ciò che c’è emerge come bordatura di un vuoto, riprende la metafora heideggeriana della “brocca”: «Il vuoto, questo nulla nella brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene […]. La cosalità del recipiente non risiede affatto nel materiale di cui essa consiste, ma nel vuoto che contiene».31 L’identità è tale in funzione del vuoto intorno al quale si costruisce. Qualsiasi liquido la brocca vada ad accogliere prenderà la forma di quella cavità, sarà modellato di necessità dal suo contenitore. Perciò, ciascun oggetto vada ad occupare il vuoto di una costruzione identitaria prenderà la forma di quel vuoto. Il vuoto infatti è per Lacan, nel caso della soggettivazione, la conseguenza dell’iscrizione del soggetto nel campo del linguaggio, nel piano del simbolico, nel mondo legiferato. Quest’ultima genera, a posteriori, l’indefinita nostalgia nel soggetto di una presunta unità originaria, che è poi assimilabile a un sentimento di perdita. Tale nostalgia induce la proiezione del desiderio su altri oggetti “sostitutivi”, i contenuti della brocca, che temporaneamente colmano quella mancanza. Il caminetto è allora una figura retorica occupata dal sostitutivo dell’unità mitica che avrebbe preceduto la scissione.

30 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 53.

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L’emancipazione identitaria italiana è infatti sentita come una scissione oltre che come una nuova unità. Tale presunta scissione è all’origine del vuoto intorno al quale l’identità nazionale si plasma. Ecco allora dallo scoppiettare del focolare sorgere le più “vacue” fantasie che sono anche le più pericolose. Il fuoco infatti, se da una parte illumina e riscalda, dall’altra mette a rischio la stessa integrità della casa. L’immagine proiettata dal fuoco ha le caratteristiche del vuoto, il ricongiungimento col quale significherebbe la recessione dalla scissione. Da quella separazione è sorto il soggetto, quindi la sua rinuncia comporterebbe la morte del soggetto come soggetto e come identità autonoma. Il vuoto è una sorta di porta senza la quale la struttura non esisterebbe, uno spazio in cui ha luogo l’“incontro” con l’alterità – direbbe Lotman –, in cui si produce il dinamismo necessario alla vita della semiosfera. Quell’alterità ha l’aspetto che le viene attribuito dalla struttura e dalla sua posizione nella struttura: un aspetto attraente e spaventoso, come attraente e spaventoso è il ritorno all’unità, all’indeterminazione, all’indistinzione con l’altro, alla morte.

Esplorate fino in fondo le possibili implicazioni teoriche di un simile motivo letterario, apparirà meno peregrino il confronto che Verga instaura fra il desiderio amoroso e la fantasia alterizzante relativa al Mezzogiorno. Il narratore di Nedda, infatti, non solo paragona il focolare al raggio di luna che propizia il bacio fra gli amanti e che come una figura retorica opera uno “spostamento”32 del desiderio sull’immagine che incornicia, ma più oltre ammette

anche di aver sviluppato con il tempo un’eccezionale fascinazione per «i misteri della molla e del soffietto» e di essersi «innamorato con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto».33 Tale sentimento, suscitato dall’apertura di uno spazio disponibile alla proiezione, è in realtà oggetto di una vera e propria indagine portata avanti da Verga in Primavera e altri racconti e giocata sul doppio piano dell’idealizzazione amorosa e di quella geografica. All’interno della raccolta i due binari corrono paralleli, ma talvolta si intersecano, dandoci modo di scorgerne l’intimo legame.

Ciò avviene già ne Le storie del castello di Trezza, la prima risposta narrativa alla richiesta di Treves seguita alla pubblicazione di Nedda di nuovo materiale di argomento siciliano.

32 Per Lacan l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Per dare conto del suo funzionamento, dunque, lo studioso traduce i processi inconsci spiegati da Freud in termini psicoanalitici con il lessico della linguistica strutturale di Jakobson. Nello specifico, la condensazione, nella quale più idee vengono espresse con una sola immagine che ha un rapporto di somiglianza con esse, è ricondotta alla metafora, mentre lo spostamento, che sostituisce un’idea con un’altra legata alla prima da un rapporto di contiguità, è ricondotta alla metonimia. Cfr. J. Lacan, Seminario V. Le formazioni dell’inconscio, Torino, Einaudi, 2004.

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«Eccovi la novella, anzi una e mezza»34 scrive Verga nel dicembre 1874, allegando alla lettera indirizzata all’editore anche una prima stesura di Padron ‘Ntoni, poi rinominato I Malavoglia. Le storie è, come si comprende dal titolo, un racconto che ne contiene degli altri: un gioco di scatole cinesi funge da cornice e rimpiazza il preambolo di Nedda. La distanza deformante del salotto milanese dalla località siciliana è sostituita infatti dalla mediazione di una o più voci narranti che presentano le vicende come leggendarie, misteriose, fantasmatiche. Inoltre, i personaggi della cornice più esterna, venuti da lontano e condotti da una guida del posto, il “cantastorie” principale della novella – personaggio dietro il quale si può intravedere lo stesso autore, anche in qualità di mediatore fra due mondi – colmano lo spazio che separa la terraferma dal castello di Trezza attraversando un pericolante ponte che si stende sull’abisso. Questo precipizio, in cui nel finale troveranno la morte l’uomo siciliano e una delle visitatrici divenuta sua amante, rimanda ancora a quell’ambivalenza discussa per il caminetto di Nedda, e al pericolo derivante dal fascino delle sue proiezioni. Secondo Moe, tale minaccia è legata al problema della ricezione: il timore che Verga inscena ed esorcizza con l’immagine dell’abisso e con l’associazione tra il focolare e il bacio di Giuda sarebbe quello che egli nutre a proposito delle proprie scelte narrative, le quali, arrivando a trattare il più infimo dei livelli sociali siciliani, rischiano di andare incontro ad un fiasco, come in effetti accadrà per I Malavoglia. Come in parte si è già accennato, però, questo pericolo non sembra avere a che fare solo con l’oggetto, ma anche e soprattutto con la natura della rappresentazione. Bisogna dunque soffermarsi a comprenderne il significato in relazione alla figura del vuoto e all’attività immaginativa, che nel racconto traspone l’atto di scrivere e fantasticare dello stesso Verga.

Nella prima leggenda raccontata dal cantastorie Luciano il camino e il «trabocchetto»35 del castello sono descritti come fessure aperte sull’abisso, porte dalle quali emerge il suono di voci di un altro mondo. Perché ciò non avvenga, bisogna che il sistema del castello abbia un altro sbocco, sostituisca quella fessura con un’altra fuga: perché lo scirocco non faccia ballare le imposte «come una ragazza che abbia il male di San Vito», – consiglia un servo del barone d’Arvelo al suo padrone – «quella finestra lì bisogna lasciarla aperta».36 Il

riferimento al male di San Vito (meglio conosciuto come tarantismo), che assumiamo in questo caso quale semplice espressione proverbiale, potrebbe dare luogo a un’interessante

34 Lettera datata 18 dicembre 1874. Cfr. G. Raya, Verga e i Treves, Roma, Herder, 1986, p. 38. 35 G. Verga, Le novelle, cit., p. 62.

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riflessione se messo in relazione al valore simbolico della sua terapia rituale nella società meridionale per come sarà studiata da Ernesto De Martino e come vedremo nel seguito della ricerca. Per il momento, basti dire che in questo passaggio delle Storie verghiane viene affermata per la prima volta con tanta chiarezza la necessità, per il sistema, di un’apertura, fin qui sempre connotata come affascinante e pericolosa, mai come indispensabile, seppure già in Nedda il narratore parli del caminetto come di «un amico troppo necessario». Ed è proprio in questi spazi vuoti che prende forma la fantasia: non a caso, i resti del parapetto, dal quale si getta, perdendo la vita, un’altra coppia infelice di amanti, vengono descritti come «un addentellato per qualche costruzione fantastica».37 La storia a cui si fa riferimento è

quella più remota nel tempo, narrata da Luciano in occasione di una seconda sortita dei visitatori al castello di Trezza. Tra un racconto e l’altro vediamo i medesimi personaggi cambiare di posto all’interno del sistema, muovendosi dalla posizione più statica a quella più sensibile al fascino del diverso.38 Nella storia in oggetto, ad essere massimamente attratta dall’ignoto è la bella Donna Violante, promessa sposa a Don Garzia, barone d’Arvelo, e costretta, per sposarlo, ad abbandonare improvvisamente il convento, dove lascia a metà il romanzo che stava leggendo. Tale motivo narrativo di flaubertiana memoria,39 in apparenza casuale, è in realtà significativo perché dimostra la già sperimentata tendenza della donna a fantasticare. Lo spazio aperto da quel romanzo d’amore, che le aveva fatto sperare in uno sposo diverso dal rude e violento Don Garzia, andrà poi ad essere saturato dal personaggio di Corrado, ma per tramite di un altro “oggetto del desiderio”.

Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell'alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e l'acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anch'esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in

37 Ivi, p. 85. Anche ne La coda del diavolo, con il medesimo significato, si legge «sul fantastico addentellato che ella stessa gli aveva offerto». Ivi, p. 30.

38 Sebbene qui non si abbia lo spazio per argomentarlo, tale slittamento è presente in diverse delle novelle giovanili verghiane e anche ne La coda del diavolo, che tra breve citeremo.

39 Come ricorda Carla Riccardi, Verga legge Madame Bovary nel 1874 (Da storia di una capinera a ‘Padron ‘Ntoni’: evoluzione tematica e stilistica, in I romanzi fiorentini di Giovanni Verga, Catania, Fondazione Verga, 1981, pp. 63-73: 66). A proposito dei debiti nei confronti del romanzo flaubertiano vedi anche M. G. Riccobono, Echi di Madame Bovary in Verga con una questione di datazione, in Ead., Donne, mari, cieli. Studi su Verga e Quasimodo europei, Roma, Aracne, 2008, pp. 25-44. Inoltre, Riccardo Scrivano, richiamandosi al noto saggio di Girard che prende le mosse da Madame Bovary, analizza secondo la categoria del desiderio mimetico la biografia artistica di Verga in un articolo intitolato appunto «Menzogna romantica e verità romanzesca» nel Verga Fiorentino (in I romanzi fiorentini di Giovanni Verga, cit., pp. 7-36). Lo studioso manca tuttavia di rilevare l’importante ruolo che tale categoria assume, a quest’altezza cronologica, nella produzione di Verga, che meriterebbe senz’altro uno studio dedicato. Torneremo sulle categorie di Girard nell’analisi de I Malavoglia.

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alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull’uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l'orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l'ombra degli scogli che andava e veniva coll'onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente.40

Attraverso il vano della finestra Violante osserva dall’alto, prima in modo sbadato, poi con singolare interesse, il mondo della Sicilia rurale e la vita dei pescatori che in quegli stessi anni è ritratta da Verga nelle pagine di Padron ‘Ntoni. Come il narratore di Nedda, la baronessa resta via via affascinata da quel mondo lontano e orientale e si sorprende del piacere che prova ad ascoltarne i discorsi. In quelle casupole intravede inoltre il fiammeggiare di un focolare: i pescatori infatti sono titolari di una loro propria identità, fondata a sua volta su un vuoto di senso. Probabilmente anche loro, immaginando il castello, dipingono in modo idealizzato la vita dei lontani baroni e ne proiettano un’immagine enantiomorfa indugiando di fronte al caminetto. Così concepito, tale dettaglio appare come un’anticipazione della poetica verghiana successiva, che, come vedremo, porterà a un ribaltamento del punto di vista con l’adesione all’identità del soggetto osservato. A quest’altezza, tuttavia, l’attenzione dello scrittore è ancora rivolta ad indagare il meccanismo immaginativo dalla prospettiva dominante, che può coinvolgere tanto la fascinazione per l’universo popolare siciliano, quanto la fantasia romantica e amorosa. La baronessa d’Arvelo, infatti, distoglie lo sguardo dal paesaggio sottostante per osservare Corrado, poi torna a guardare fuori e infine di nuovo il paggio, «questa volta più lungamente». È come se la sua attrazione rimbalzasse tra due oggetti e quasi si trasmettesse e si accrescesse nel passaggio dall’uno all’altro. Qui Verga esemplifica chiaramente, non solo il processo attraverso il quale si immagina una Sicilia orientale, dall’alto di una torre, ma la continuità tra questo processo orientalizzante e l’idealizzazione amorosa. Violante proietta infatti la sua immaginazione su Corrado, che non a caso è un membro del popolo, alieno rispetto alla classe sociale «patrizia» cui lei appartiene e lo fa proprio in virtù della sua posizione elevata.

Io sono un povero paggio, madonna!... Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono. - Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai? - I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro e l’orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all’audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi: - Ahimè! madonna! - Quel sospiro aveva

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un’immensa attrattiva. Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell’animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso.41

Corrado china la testa e si lascia scrivere dall’idealizzazione della baronessa, aderisce a quel vuoto cui ella lo relega e ciò fa sì che l’amore di lei divampi. Di qui in avanti, infatti, i loro incontri avverranno sempre mediati da una finestra: cornice che indica e denuncia l’attività immaginativa deformante e la distanza che la rende possibile. La finestra rappresenta, al contempo, una soglia fra due mondi di cui uno è regolato da leggi note, l’altro ignote. È proprio il mistero, l’impenetrabilità e la scrivibilità di quell’altro mondo, che genera attrazione. In una novella di precedente pubblicazione42 e contenuta sempre in Primavera e altri racconti, intitolata X, Verga afferma che:

Quella fatale tendenza verso l’ignoto che c'è nel cuore umano, e si rivela nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del bambino, è uno dei principali caratteri dell’amore, direi la principale attrattiva: triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime - e di cui la triste scienza inaridisce il cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati - o assai più modesti, secondo il punto di vista - e non verrebbe che l’ultimo nella scala dei sentimenti? La ragione della sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il terribile dissolvente che c’è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe dall’insensato soddisfacimento d’una pericolosa curiosità?43

Come già nei suoi romanzi borghesi, qui Verga vede l’idealizzazione amorosa come una pericolosa attrazione verso l’ignoto e lo spegnersi del sentimento nella sazietà del matrimonio come il soddisfacimento di quella sete di conoscenza, di quella curiosità suscitata dall’“ignoranza”. L’oggetto d’amore, dunque, è tale perché visto attraverso una cornice distanziante, tolta la quale esso diventa un noioso, comune oggetto qualsiasi. È quanto avviene in X, dove un uomo incontra una donna mascherata all’ultimo veglione della Scala e se ne innamora senza neppure averla vista in volto. Ma, al ripetersi dei loro incontri, la passione di lui si dissolve e la donna decide di togliersi la vita, lasciando di sé un’ultima